Attraverso il Cinquecento - 04

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il Boccaccio». In una lettera al Corrado, scritta da Roma l’ultimo di
febbrajo del 1562, il Caro dice a proposito di certe voci non usate dal
Petrarca[86]: «E ’l dire che non si debba scrivere con altre parole,
che con le sue, è una superstizione: e questo punto è stato di già
esaminato e risoluto così dagli uomini di giudicio». Non così bene
risoluto tuttavia che quella tirannide non durasse più o meno grave
tutto quel rimanente secolo. In una curiosa lettera, indirizzata a
Francesco Petrarca dal mondo, ai 5 di decembre del 1570, il Groto,
che altrove confessa avere certo suo sonetto «un poco di parentado»
con altro del sovrano poeta, descrive un viaggio che fece a Bologna
per visitare la _Cavaliera_ Volta. Dice di voler narrare quel viaggio
in versi; chiedere pertanto a esso Petrarca licenza di usare vocaboli
non usati nel _Canzoniere_, giacchè «sono alcuni pedanti, alcune
scimmie, alcuni petrarchisti ed alcuni poeti salvatichi, i quali hanno
introdotto per legge inviolabile, e per regola indispensabile, che
in verso volgare non possono usarsi altre voci di quelle, che usaste
voi, nei vostri componimenti»[87]. E sì che questi _pedanti_, queste
_scimmie_, questi _poeti salvatichi_, erano stati esposti alle risa del
pubblico fin sulla scena. L’Aretino, volendo dare in breve un saggio
di ciò che fosse quella lor lingua, e del costrutto dei loro poetici
discorsi, aveva fatto dire all’Istrione nel Prologo del _Marescalco_:
«Spettatori, snello ama unquanco, e per mezzo di scaltro a sè sottragge
quinci e quindi uopo, in guisa che a le aurette estive gode de lo amore
di invoglia, facendo restío sovente, che su le fresche erbette, al
suono de’ liquidi cristalli cantava l’oro, le perle e l’ostro di colei
che lo ancide».
Quanto all’imitazione, c’era chi non voleva saperne per nulla, e chi
l’ammetteva sì, ma con certo temperamento. L’Aretino, che si fregiava
del nome significativo e pomposo di _segretario della natura_, la
stimava una pusillanimità e viltà degl’ingegni. «Di chi ha invenzione»,
diceva egli, «stupisco, e di chi imita mi faccio beffe, conciosia che
gli inventori sono mirabili e gli imitatori ridicoli»[88]. E altrove
ancora dice molto assennatamente[89]: «il Petrarca e il Boccaccio
sono imitati da chi esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la
leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo
i loro, e non da chi gli saccheggia, _ecc._». Il che torna a dire che i
grandi modelli vanno studiati per imparar da essi le vie e il magistero
dell’arte, e non per rifare ciò che essi ottimamente han già fatto.
In un luogo della sua _Apologia_ contro il Castelvetro, Annibal Caro
dice per bocca del Predella, bidello: «Non sarebbe pazzo uno, che,
volendo imparare di camminare da un altro, gli andasse sempre drieto,
mettendo i piedi appunto donde colui li lieva? La medesima pazzia è
quella che dite voi, a voler che si facciano i medesimi passi, e non
il medesimo andare del Petrarca. Imitar lui, vuol dire che si deve
portar la persona e le gambe come egli fece, e non porre i piedi nelle
sue stesse pedate». E più largamente ancora sembra che la pensasse il
buon Guidiccioni, quando in una lettera ad Antonio Minturno scriveva
parergli «viltà lo star sempre rinchiuso nel circolo del Petrarca e
del Boccaccio, e massimamente a quelli i quali s’hanno acquistato con
i lor sudori qualche credito di vera lode»[90]. Potevano gl’imitatori
immaginarsi facilmente d’aver pareggiato il Petrarca in un tempo in
cui, a detta del Sansovino, c’erano cantambanchi che si tenevan da più
di lui, incedevan gonfii e pettoruti e volevano che ognuno facesse loro
di berretta[91]; ma era la loro una sciocca immaginazione, e ciò che il
Folengo diceva di alcuno[92]:
Tal volse del Petrarca sulle cime
Salir, ch’or giace in terra con gran scherno,
era, in parte almeno, vero di tutti, anche dei più famosi.
L’imitare, e l’imitar male, essendo assai più agevole dell’inventare,
ne veniva che infiniti si davano a comporre colla falsariga del
Petrarca innanzi, che, se non avessero avuto quella opportunità e quel
comodo, si sarebbero forse astenuti dall’imbrattar carte. Ognuno che
sapesse contare undici sillabe sulle dita e avesse in capo quattro
dozzine di rime, si credeva da tanto di poter rifare il Petrarca. A
tale proposito si ha nei _Mondi_ del Doni una curiosa scenetta. Siamo
nel _Mondo misto_, dove Momo _conduce le anime a considerare lo stato
loro_. Si presenta un’anima e tra Momo e lei è questo dialogo:
MOMO. Chi fosti tu al mondo?
ANIMA. Scarpellino e poeta.
MOMO. O che discordanza che è questa! come di sartore e barbiere.
Che scarpellavi tu e componevi?
ANIMA. Io m’avevo fatto un bel libro di monti, mari, sterpi, e
valli, tutto in rima.
Di fior, fioretti, ombre, erbe e viole,
Poggi, campagne e poi pianure e colli,
Con fonti, gorghi, prati, rivi ed onde.
MOMO. Oh tu cicali in versi sì petrarchevolmente! Io ne vo’ fare
una querela in Parnaso. Andrai pur là, che tu non istai bene fra
noi altri; va, fatti infrascare di questi lauri.
ANIMA.
Piaggie, liti, scogli, venti ed aure,
Cristalli, fiere, augelli, pesci e serpi,
Greggi, spelunche, armenti, tronchi, antri, dei,
Stelle, paradiso, ombre, nebbie, omei.
MOMO. Costui è pazzo; odi versi! Sapevi tu far altro? e avevi messo
altro nel tuo libro?
ANIMA. L’edere d’Ippocrene, gli amenissimi platani, i dirittissimi
abeti, l’incorruttibil tiglio, le canne di Menalo, le querce di
Dodona, i mirti d’Aganippe, i noderosi castagni e gli eccelsi
pini[93].
Il buon Momo non vuol udirne di più: fa ingollare allo scarpellino
poeta certo beverone e lo rimanda al mondo d’onde è venuto.
Il Doni era grande ammiratore del Petrarca, come prova, tra l’altro,
una lettera tutta in lode del sommo poeta, lettera che si legge
nella sua _Zucca_; ma i petrarchisti, o i petrarchevolisti, come più
acconciamente li avrebbe chiamati Mattio Franzesi, specie quelli di
bassa lega, non li poteva soffrire, e con lui non li potevan soffrire
quanti avevano giusto concetto dei fini e della dignità dell’arte.
Quello strabocco di poesia annacquaticcia, scolorita, scipita, faceva
alla fine venir la nausea a chi era di più forte sentire, di gusti
meno smaccati, e più d’uno lamentava col Franco che tanto si fosse
rinforzata in Italia la maledetta foja della _sonettaria_. Chi si
sentiva muovere dentro qualcosa di vivo e di caldo, chi credeva d’avere
qualcosa di proprio da dire, non poteva non farsi beffe di que’ poeti
da scranna, a’ quali accenna il Mauro nel suo capitolo _Della caccia_,
là dove dice che
i lor versi
Ricaman d’altro che d’oro e di seta;
E negli studi stan sempre a sedersi,
Ove tengon le muse pei capelli,
Che sputan detti leggiadretti e tersi.
Molti avevano, non solo un buon concetto di ciò che deve essere poesia
in genere, ma ancora come un presentimento indistinto ed ansioso
di un’arte nuova che dovesse avvenire, di un nuovo mondo poetico
che dovesse essere rivelato alle genti, dove non la imitazione, ma
l’invenzione, non la pedissequa timidità, ma il felice ardimento
segnassero la via della gloria, e non potevano acconciarsi a quella
poesia peritosa e servile, sonante di parole e vuota d’idee, fatta di
tasselli e lisciata con la pomice. Altro si voleva oramai. «O turba
errante», esclamava l’Aretino con intuito meraviglioso e con bella
efficacia di parole, «io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo
de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio,
e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli, e un
campanil senza campane; per la qual cosa, chi vuol comporre, e non trae
cotal grazia da le fasce, è un zugo infreddato[94]». E altrove, con
assai buon sentimento del vizio capitale della imitazione: «Io non mi
son tolto da gli andari del Petrarca, nè del Boccaccio, per ignoranza,
che pur so ciò che essi sono; ma per non perder il tempo, la pazienza
e il nome nella pazzia del volermi trasformar in loro, non essendo
possibile[95]».
L’Aretino doveva essere per natura e per consuetudini letterarie
un gran nemico del petrarchismo, nè deve far credere altrimenti
la somma riverenza da lui sempre addimostrata al principe di essi
tutti, all’eccellentissimo Bembo, cui più di una volta difese contro
detrattori temerarii, e cui chiama immortalissimo, reverendissimo,
celeste, dicendosi indegno persin di lodarlo, gridando che egli
aveva data _agli uomini la ricetta del come possano diventare iddii_,
assicurandogli eternità di fama in un sonetto quando e’ fu morto[96].
Biasimi e lodi costavano egualmente poco al Divino, cioè nulla. Egli ed
il Bembo stavano sui convenevoli, perchè l’uno temeva dell’altro; ma
non eran uomini che potessero intendersi e accordarsi in nulla; e per
ciò che spetta all’Aretino, ha certamente ragione l’autore di quella
Vita di lui che va sotto nome del Berni, quando dice che non poteva
soffrire il Bembo sebbene assai lo lodasse.
Ciò che della poesia petrarchevole pensava Pietro Aretino altri ancora
pensavano; ma niuno certamente espresse il suo pensiero in forma più
compiuta di quello fece in un apposito capitolo contro i petrarchisti
Cornelio Castaldi, poeta poco noto, ma cui spetta nulladimeno il
vanto di essersi tratto fuori del comun gregge e d’aver tentato nuove
vie[97].
Leggo talor tutto un vostro volume
Da capo a piedi ch’io non vi discerno
D’arte o d’ingegno un semivivo lume.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Io già vi amai, ed or non vi disamo,
Anzi v’onoro e riverisco in tanto
Che del versificar padri vi chiamo.
Ma non so darvi poetico vanto,
Perocchè mai non mi parrà poeta
Chi sol l’orecchi e mie pasce col canto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Questo vostro infilzar di parolette
Mi rappresenta alla tenera etate.
Quando un fanciullo ad imparar si mette:
Che s’ei non scrive su carte rigate,
Non sa tener da sè dritta la mano,
Per non esser le dita anco addestrate.
E conchiude col verso:
Biasmo lo stil dove l’ingegno dorme,
il quale dice appunto ciò che un altro verso dice, un verso moderno che
fece chiasso e diventò proverbiale:
Odio il verso che suona e che non crea.
Del resto, nelle tendenze molteplici e discordi della letteratura
contemporanea il petrarchismo incontrava altre avversioni ed altri
contrasti. Anzi tutto non potevano essere fautori suoi quegli umanisti
intolleranti ed intransigenti che non avevano in pregio se non le opere
dei greci e dei latini, e stimavano cosa vile l’usare scrivendo altra
lingua che quella di Cicerone e di Virgilio. Contro a costoro ha un
sonetto il Lasca, nel quale li pettina a dovere. Li chiama pedanti e
logicuzzi; li accusa di mandare in rovina
La lor lingua toscana o fiorentina;
li strapazza, perchè nelle scienze concedono gli onori
Tutti ai latini ed ai greci scrittori,
mentre i più grandi fra quelli,
Virgilio, Orazio, Pindaro ed Omero
Appetto a Dante non vagliono un zero,
e son anche assai da meno del Petrarca e del Boccaccio. Ma quegli
stessi scrittori che si opponevano alle sciocche pretese dei pedanti,
quelli che, con ogni ragione, volevano essere italiani e non latini,
si scoprivano poi alla lor volta nemici, non del Petrarca, ma del
petrarchismo, se, come appunto è del Lasca, ritenevano nei gusti,
nel modo di pensare, nell’uso della lingua, alquanto, anzi molto,
del popolaresco; giacchè l’umor loro, schietto e nativo, non poteva
acconciarsi a quelle raffinatezze e a quegli arzigogoli della
petrarcheria. Anche il Lasca mostrava di professare una grande
ammirazione pel Bembo; ma bisognerebbe poter vedere che cosa ci
fosse sotto a quella sua ammirazione, e un pocolino il lascia vedere
egli stesso. Che non potessero essere molto teneri delle melanconie
petrarchevoli, e di una poesia moccicona, che si disfaceva in pioggia
di lacrime, ed esalava in vento di sospiri, quegli spiriti giovialoni
ed arguti, quei, come il Caro li chiama, poeti bajoni, che argomento
a verseggiare traevano dai casi minuti della vita d’ogni giorno, dai
piccoli piaceri un po’ volgari, dalle piccole miserie un po’ ridicole,
dalle mille storture degli uomini e delle cose, voglio dire i creatori
della poesia bernesca con a capo il loro padre comune, e con essi
quanti di tal poesia facevano festa e sollazzo, si capisce troppo
facilmente e non bisogna dimostrarlo. E così la intendeva il Lasca,
quando in una poesia da lui premessa alla edizione delle rime del
Berni, usciva a dire:
Chi brama di fuggir maninconia,
Fastidio, affanno, dispetto e dolore;
Chi vuol cacciar da sè la gelosia,
O, come diciam noi, martel d’amore,
Legga di grazia quest’opera mia,
Che gli empirà d’ogni dolcezza il cuore;
Perchè qui dentro non ciarla e non gracchia
Il Bembo merlo, o ’l Petrarca cornacchia.
E nella lettera a Lorenzo Scala, premessa egualmente a quelle rime,
diceva «le petrarcherie, le squisitezze, le bemberie, avere, anzichè
no, mezzo ristucco il mondo.» Perciò possiam credere che al duca di
Mantova non tornasse sgradito l’avvertimento che gli dava l’Aretino,
quando, mandandogli certa composizione ghiotta del Veniero, diceva:
Non aspettate veder la lindezza
Dell’andar petrarchevole a sollazzo,
Ch’a ricamar fiori e viole è avvezza.
Di quella lindezza doveva averne assai anche il duca di Mantova. Per
chi amava di parlar grasso e ridere alla sbracata (e Dio sa s’era gusto
di molti) non c’era canzoniere d’amore che valesse un sol capitolo
del Berni. Gabriello Simeoni non si peritava di dirlo apertamente e di
stamparlo.
Chi dice che ’l gentil compor berniesco
Non è il più bel che si leggesse mai
Sta dell’ingegno e del giudizio fresco.
Puossi con esso trar sospiri e guai
Senza tanti uopi, unquanchi, schivi e snelli,
Che dan che fare a gl’ignoranti assai.
Voglion le feste questi poverelli
Passarsi il tempo con un libro in mano
Senza tanti Laudivi o Vellutelli[98].
E notisi che il Simeoni fu grande ammiratore del Petrarca, e due volte
si recò a visitare Valchiusa, una il sepolcro del poeta. Per parte
loro i petrarchisti dovevano guardar con dispetto i poeti berneschi
e la lor poesia, e cercare di screditarli quanto più potevano, nè
io dirò che peccassero in questo. Certo il Giraldi Cinzio doveva
esprimere il pensiero di molti, quando scriveva: «Alle cose basse
nacque medesimamente il Bernia tra’ toscani, e tutti coloro che per
loro principale esercizio a quel modo han scritto ch’egli scrisse;
e infelici mi pajono quegli ingegni che spendono le lor buone ore in
così fatte scritture, piene di nascosta disonestà, e di materie plebee,
che sol dilettano a’ salcicciai, ed a simil sorti di genti»[99]. Che
dilettassero solo a’ salcicciai e a simil sorte di genti, non è punto
vero; e ad ogni modo rimane dubbio qual fosse poesia più oziosa se la
bernesca o la petrarchesca. Questa era certo più sciocca.
Nè più dei berneschi potevano essere amici al petrarchismo i poeti
maccheronici, che già nel fatto della lingua si mostravano sciolti
da ogni regola, non sottoposti ad autorità di sorte alcuna, figli e
fautori del proprio capriccio.
Ma se di molte beffe toccavano agl’imitatori del Petrarca, molte del
pari ne toccavano ai commentatori. Non commentatori, ma crocifissori
li chiama l’Aretino. «Se», dice egli nel Prologo della _Cortegiana_,
«la selva di Baccano fosse tutta di lauri, non basterebbe per coronar
crocifissori del Petrarca, i quali gli fanno dir cose con i loro
comenti che non gliene fariano confessare diece tratti di corda». Quel
bel matto di Alfonso de’ Pazzi si burla in un sonetto di coloro che
avevano _cava_ di commenti, e ricorda in un altro
..... l’Accademia, ’l Varchi e ’l Gello,
C’han messo Dante e ’l Petrarca in bordello.
Lo stesso Aretino dice in una lettera al duca di Mantova[100]: «Se
l’anima del Petrarca e del Boccaccio, nel mondo suo, è tormentata,
come son le loro opere nel nostro, debbono rinnegare il battesimo». Il
Franco li scardassa in questo modo nella sua Epistola al Petrarca[101]:
«Or questi dunque, perchè si conosceano non valere ad altro, si son
posti a contentare le vostr’opere vulgari, ingegnandosi di trovarvi
novità di chimere per parere ingegnosi, e di recarci ciance infinite
per parere facondi. Ma con che rumor di scodelle i lavaceci si vadano
poi imboccando le vostre fantasie, volendole intendere al vostro
dispetto, non ve ’l potrei scrivere per una lettera. E volesse pure
Iddio che fussero stati soli i processi fattivi sopra i versi, ed i
tormenti dativi sopra i sensi, perchè son stati più i chiassi fatti
in disonor de l’onore e del nome, per aver voluto investigare, se voi
feste o non feste quella cosa con monna Laura, s’ella ebbe marito
o no, se fu sterile o fe’ figliuoli, se ’l cardinal Colonna ve la
tolse a forza d’oro, se ’l papa vi promettesse il cappello volendogli
consentire una sorella di cui era invaghito, con tante altre sporche
dispute ch’io mi vergognarei d’annoverarle scrivendo». Quando il Franco
così scriveva, erano già stati pubblicati per le stampe i commenti
dello Squarciafico, del Filelfo, del Vellutello, del Fausto, di Silvano
da Venafro, del Gesualdo e di altri. E non meno acerbamente, anzi più,
si esprime il Groto in quella lettera che ancor egli volle scrivere al
Petrarca[102]: «Di novo non ci è altro, se non che ’l vostro canzoniere
è più confuso, più rimescolato, più riversciato che le foglie scritte
dalla Sibilla ad un lungo soffiar di borea, di austro, di levante e
di ponente. Voi medesimo, se ’l vedeste, no ’l riconoscereste. Ci è
di più, che vi fan cinguettare a lor modo, e dove pensate dir pettini,
vi fan dir cesoje. A madonna Laura vostra han dato nome, chi di anima,
chi di poesia, chi di filosofia, e mille altre chimere fantastiche di
commentari. O se voi tornaste di qua avreste pur che fare co ’l notajo
del maleficio, o danno dato! quanti ne fareste frustare, e impiccar per
ladri! Ogni un s’ingrassa del vostro grasso, e s’ingrassa del vostro
sugo; chi vi pela di qua, chi vi taglia di là, chi vi ruba, chi vi
scaca, chi vi assassina». E qui l’autore lasciati i commentatori, torna
a pigliarsela con quei gaglioffi d’imitatori. Ma già prima del Groto il
Giraldi Cinzio aveva scritto: «E per non parlare degli altri, si son
trovati e si trovano oggidì alcuni che, lasciati i sensi veri, fanno
tali farnetichi su alcune cose del Petrarca, che pajono spiritati che
dicano le maraviglie; e ovunque trovano la voce di amore o di natura,
o di Giove, o di Giunone, o di disire, o di bellezza, o di sole, o di
cielo, o di altre tali cose, vi vogliono tirare ciò che se ne scrisse
mai dal principio del mondo insino alla loro età»[103].
Con tanta gente ai fianchi, sopra, sotto, d’ogni banda, imitatori,
spositori, commentatori, musici, compilatori di vocabolarii,
fabbricatori di grammatiche e di Arti poetiche, il malcapitato Petrarca
fa pensare a un di quei bacherozzoli, che spesso si trovan pei campi,
sepolti sotto un acervo di affamate ed affacendate formiche. Egli era
come un nuovo Mecenate che, mal suo grado, faceva le spese a un nugolo
di parassiti, ed era giusto che qualcuno, non potendolo egli, levasse
la voce contro l’importunità e la improntitudine di costoro. In una
sua madrigalessa in morte di Lodovico Domenichi, il buon Lasca, che
in tant’altre cose sapeva mostrarsi uomo di retto sentire e di sano
giudizio, esclama:
Una turba infinita
Di poetacci vive e di scrittori,
Pedanti e correttori,
Che metton tutto il mondo sottosopra,
Ogni antica storpiando e modern’opra,
Come Dante e ’l Petrarca fede fanno,
Con gran vergogna e danno, e con rovina
Dell’Accademia nostra Fiorentina,
Che fa molte parole e pochi fatti.
Molte parole e pochi fatti, come fu sempre usanza delle accademie.
Poetacci e pedanti si contenta chiamarli il Lasca, ma meglio
minuzzapetrarchi, lambiccaboccacci e stuccalettori di piccola levatura
li chiama il Grappa in quel suo commento alla canzone del Firenzuola in
lode della salsiccia[104]. E tenendosi più strettamente al Petrarca, il
Franco fa dire alla sua lucerna[105]: «Veggo le cataste dei libri tanto
alte, che mi tremano gli occhi a guardarci su... Veggo il Petrarca
commentato, il Petrarca sconcacato, il Petrarca imbrodolato, il
Petrarca tutto rubato, il Petrarca temporale e il Petrarca spirituale».
Una pietà!
Abbiam veduto di quanto favore al petrarchismo fossero certi spiriti
amorosi che aleggiavano in mezzo alla colta ed elegante società del
Cinquecento; ma non ci dimentichiamo che sotto e a’ fianchi di questi
spiritelli aerei, lindi, decenti, altri se ne agitavano di più grossa
natura, di più liberi portamenti; non ci dimentichiamo che di contro
all’amore dei canzonieri c’era l’amore delle novelle e delle commedie;
di contro al piacere di spasimare il piacere di godere. Già quegli
amori a cui, non che la speranza, non era lecito nemmeno il desiderio,
quello stemperarsi in lacrime, quel dileguarsi in sospiri, tante
metafisicherie e tanti arzigogoli cacciati dentro al più spontaneo
degli affetti, alla lunga venivano a noja. Gli spasimanti perpetui
cominciavano a diventar ridicoli. Odasi ciò che dice Ercole Bentivoglio
in una sua satira indirizzata a M. Andrea Napolitano:
Andrea, tra le pazzie che non son meno
Di riso grande che di biasmo degne,
Di ch’oggi è sì questo vil mondo pieno,
Posto è il pensier, che ’n tutti or par che regne,
Cieco d’amor, quando la notte e ’l giorno
Spende l’uom dietro a queste donne indegne.
E più oltre, canzonando lo stesso Andrea:
Ite pensoso per quest’ampie strade,
Con gli occhi a tutte le finestre intenti,
Molli talor di tepide rugiade.
Poi ricorda un tal Cupennio:
Che profumato tutto ’l dì sospira
Al sole ed alla pioggia, e alla finestra
Gli occhi con certa gravitate gira.
Luigi Alamanni va più in là, e nella satira a M. Albizzo Del Bene
biasima, non solamente quell’amore cortigianesco, ma ogni amore che,
dice, è di grande nocumento agli uomini, nati a cose maggiori, è
cagione d’infiniti guai. Cita il proprio esempio:
Anch’io con Febo gli amorosi strali
Al santo bosco già cantai d’intorno,
E so quante menzogne io dissi e quali.
Chi poi sentiva l’amore secondo natura e secondo umanità, si stizziva
di quell’amore dei filosofanti e dei sonettai, inviluppato nei
concetti, e con tante gale di sofismi intorno da parere un altro.
L’amore è diffinito così spesso
Da questi dotti, e così pesto e trito,
Ch’omai non più si conosce egli stesso,
dice Pietro Nelli in una delle sue satire. Francesco Sansovino la
rompe con tutti i risguardi e dice chiaro di preferire l’amore quieto,
naturale e senza cerimonie di una sgualdrina, agli amori smancerosi
delle nobili dame[106]. Certo non tutti avevano i gusti, dirò così,
troppo semplici del Sansovino, e anche del Berni, che componeva que’
saporiti capitoli in lode della sua _schiattona_, e molti indulgevano
ad amori alquanto meno volgari, quali la novella e la commedia ci
mostrano; ma erano pur sempre amori molti diversi da quelli di messer
Francesco e di madonna Laura. Ora, se tra costoro c’era chi, per
vaghezza di contrasto, cercava gli amori ideali dopo aver fruito, o
mentre ancora fruiva, di quelli che chiameremo pratici; molto maggiore
doveva essere il numero di coloro che si attenevano ai pratici, senza
cercare più là. E costoro eran tutti naturali nemici del petrarchismo.
Il sentimento di questa classe di nemici, assumeva, tra le altre, una
forma caratteristica, la forma di un dubbio circa la qualità degli
amori del poeta e della donna celebrata da lui. Questi amori erano essi
stati così puri come si diceva? Difficile il crederlo, e nel Canzoniere
stesso si cercavano le prove del contrario. Alcuno più benevolo, come,
ad esempio, Nicolò Astemio[107], credeva che tutto quell’amore altro
non fosse che una finzione; sospetto antico, contro il quale ebbe a
difendersi lo stesso Petrarca. Per contro, Pietro Cresci, autore di
un’apposita dissertazione, alla famosa purità ci credeva assai poco, e
Ubaldo De Domo non ci credette punto. Cesare Caporali è d’avviso
Che in Valchiusa non gì la cosa netta;
e Antonfrancesco Doni narra, nei _Marmi_[108], di una disputa fatta
nell’orto de’ Rucellai, e riferita da quella buona femmina della
Zinzera, nella quale disputa molti sostennero questa stessa opinione:
«e tenevano che egli (_il Petrarca_) avesse amato donna, donna, donna
da dovero; e che egli avesse anco corso il paese per suo: ma come
uomo che era religioso, dottore, vecchio e calonaco di Padova, non
voleva che restasse accesa sì fatta lucerna della fama; e appiattò la
cosa sotto mille queste e mille quelle; la pose in bilico acciò che
la non si potesse mai affermare; perchè la fu così giusta, giusta, ma
che sempre si trovasse qualche oncino d’attaccarsi in pro e contra».
Costoro non erano di certo poeti petrarchisti. Nè solo si dubitava
della qualità di quello amore, ma, ancora della condizione di madonna
Laura. In una delle _Lettere argute_ del Rao, tra parecchie tesi
da disputare c’è la seguente: _Che madonna Laura, tanto amata dal
Petrarca, ebbe modi e costumi di montanara, contra l’espositore di esso
Petrarca_[109].
Si mettano insieme tutte queste avversioni grandi e piccole, tutti i
biasimi che abbiam notati sin qui, con le ragioni loro, e si vedrà
che l’antipetrarchismo era una forza grande, piena di uno spirito
vigoroso. Questo spirito, nella sua forma più acuta, si manifesta
mediante la parodia. Gli imitatori del _Canzoniere_ si videro a un
tratto ai fianchi altri imitatori, i commentatori altri commentatori;
ma mentr’essi facevan da senno, quegli altri facevan per beffa,
e nell’alto lor riso travolgevano i seguaci e un pochino anche il
maestro.
Ed ecco di fronte a Laura divina, di fronte a quel tipo invariabile
di donna bionda, gelida e perfetta dei canzonieri, levarsi come una
visione apocalittica la megera del Berni.
Chiome d’argento fine, irte e attorte
Senz’arte intorno a un bel viso d’oro;
Fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,
Dove spunta i suoi strali Amore e Morte;
Occhi di perle vaghi, luci torte
Da ogni obietto diseguale a loro;
Ciglia di neve, e quelle, ond’io accoro,
Dita e man dolcemente grosse e corte;
Labbra di latte, bocca ampia, celeste;
Denti d’ebano, rari e pellegrini;
Inaudita, ineffabile armonia;
Costumi alteri e gravi; a voi, divini
Servi d’Amor, palese fo che queste
Son le bellezze della donna mia.
Quei divini servi d’amore non lascian dubbio quanto alle intenzioni
del poeta; la canzonatura va a cogliere in pieno gli spasimanti
petrarchisti e le lor dee[110]. Il Doni regala quattro madrigali
alla sua Crezia, di cui dice di non aver mai veduto cosa più brutta,
e in una lettera a Tiberio Pandola fa chiaro il pensiero ch’ebbe
in comporli: «Ho poetato per burlarmi del mondo, e per farmi beffe
d’alcuni scatolini d’amore, i quali non sanno uscire di: _Madonna, io
v’amo e taccio_, e: _S’io avessi pensato_, e simili altre ciabatterie,
oggimai così fruste come le cappe de’ poeti». Col medesimo intendimento
compone Agnolo Firenzuola un capitolo sopra quella sua donna, che
Farebbe innamorare un pa’ di buoi,
e di cui descrive tutte le bellezze e novera tutte le virtù. La Cecca
celebrata da Filippo Sgruttendio nella sua _Tiorba a Taccone_, e altre,
vanno con quelle in ischiera.
I lamenti in morte di donne che, alcuna volta, non saranno nemmeno
esistite, suggeriscono altri lamenti. Francesco Bracciolini compone i
suoi sonetti in morte di Lena fornaja; ma altri, prima di lui, aveva
spinto più oltre la beffa, e del Berni si ha una canzone sopra la morte
delle sua civetta, di Agnolo Firenzuola un’altra canzone sopra la morte
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