Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 20

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soli nobili rappresentassero lo stato nelle più singolari occasioni, ne'
consigli, nelle ambascerie.
(1221) A Milano i nobili erano spalleggiati dall'arcivescovo, il quale
non poteva senza gelosia vedersi spogliato di ogni parte del governo. La
contesa tra i due ordini si fece più viva l'anno 1221[472]. I
gentiluomini furono forzati ad uscire di città, e ad afforzarsi nei loro
castelli, ove furono ben tosto inseguiti dal popolo, che, dopo più o men
lunghi assedj, gli obbligò ad arrendersi, e gli spianò; onde nel termine
d'un anno la nobiltà fu ridotta a chiedere la pace. La numerosa
popolazione di Milano doveva far trionfare il partito democratico. A
Piacenza la fortuna delle armi si dichiarò per i gentiluomini: avevano
anch'essi adottata la determinazione di uscire dalla città; ma quando
furono in campagna aperta, trovandosi circondati dai loro vassalli,
ricuperarono quella superiorità che avevano perduta nell'interno della
mura. Finalmente il papa li mandò come mediatore il cardinale d'Ostia,
il quale nel 1221 terminò le loro guerre con un trattato di pace, in
forza del quale la metà delle magistrature ed i due terzi delle
ambascerie venivano riservate alla nobiltà, rimanendo al popolo tutti
gli altri pubblici impieghi[473]. Cremona era stata agitata da eguali
discordie, ed andò debitrice della pace all'immediato intervento di papa
Onorio III, il di cui breve ci fu conservato da uno storico
cremonese[474]. Una parola dell'annalista di Modena ne fa conoscere che
la sua patria non andava esente da tali sedizioni[475]: abbiamo altrove
accennate quelle di Brescia, e pare che tutte le città lombarde fossero
più o meno agitate da tale discordia.
[472] _Chron. Placent. p. 459._
[473] _Campi Cremona Fedele l. II, p. 42._
[474] _Annales Veteres Mutinensium t. XI, p. 58, ad ann. 1224._
[475] _Denina, Muratori, Tiraboschi ec._
Molti storici moderni, parlando delle continue guerre tra le città,
delle rinascenti dissensioni tra i loro diversi ordini, dipingono
l'antico stato d'Italia come affatto infelice, ed accordano la
preferenza ai tempi loro. Nel _calcolare_ la felicità di una nazione,
noi oggi trascuriamo affatto di porre a calcolo quella d'una
numerosissima classe di uomini, destinati dalla società ad affrontare
tutte le vicende della guerra e della sventura. Questi è il loro
mestiere, si suol dire, quando ci si parla dei patimenti dei soldati,
come se il patimento fosse un mestiere. Allora la guerra non era un
mestiere, nè era abbandonata a soldati mercenari, stranieri di cuore
alla causa che sostenevano, e che, per avvezzarsi alla loro condizione,
debbono chiudere gli occhi sulla sproporzione del pericolo cui vengono
esposti e lo scopo che si propongono. Il soldato italiano combatteva
sempre presso alle mura della propria città, non solo per la salvezza
della patria, ma ancora per la propria, per ottenere un fine ch'egli
conosceva, e per servire ad una passione che divideva coi suoi
concittadini. Se aveva la disgrazia di essere ferito, non languiva negli
ospedali, abbandonato alla dura indifferenza di subalterni chirurgi; ma
ricondotto la stessa sera alla propria casa, l'amorosa cura che di lui
si prendevano la consorte, la madre, le sorelle, gli facevano quasi
dimenticare i suoi dolori. Se periva sul campo di battaglia, periva
nell'entusiasmo d'un patriotta per una cagione creduta sacra, tra le
braccia de' suoi amici e de' suoi concittadini; non era contato tra i
morti come un semplice soldato, come un essere ideale destinato soltanto
ad aver luogo nel ragguaglio d'una battaglia in mezzo ad una colonna di
numeri. Si sapeva d'aver perduto un uomo ed un cittadino, ed era pianto
come uomo e come cittadino. La stessa sera della battaglia, se la
notizia della sua perdita non era portata alla famiglia, doveva egli
stesso tornare ad abbracciare i suoi figli.
Quindi per mettere a numero le armate non abbisognavano arrolamenti
forzati; la guerra era un dovere passaggiero, e direi quasi il
dilettevole trattenimento d'ogni cittadino; la guerra, cui dovevansi
consacrare soltanto pochi giorni dell'anno, per riprendere in appresso
le proprie occupazioni; la guerra che il cittadino non faceva giammai
senza un vivo sentimento della sua importanza e della gloria della sua
patria; la guerra che in lui manteneva l'abitudine di quel valore, che
tanto dannoso sarebbe il lasciar perdere alla massa del popolo;
quell'abitudine che da lungo tempo non esisterebbe presso i moderni
popoli, senza l'abuso d'una guerra privata, allora affatto sconosciuta,
il duello.
In questa età le battaglie sono meno micidiali che le malattie; meno
micidiali che la memoria crudele del paese natale, della memoria d'un
bene perduto, che ogni anno fa perire di dolore tante reclute. Nelle
guerre d'Italia tutto incominciava e finiva colla battaglia; niun
soldato cadeva che sotto il ferro, ed inoltre le battaglie erano meno
micidiali che a' nostri giorni. Calcolando anche tutta l'Europa,
quantunque la guerra si facesse fino alla porta d'ogni cittadino,
distruggeva assai meno gente nel tredicesimo che nel decimottavo secolo;
ed inoltre non cadevano che vittime volontarie.
E convien dire che le interne discordie e le guerre esterne non fossero
troppo dannose all'accrescimento della popolazione e delle ricchezze
delle città, poichè in quell'epoca tutte le cronache parlano della
necessità di dilatare le mura[476], dei pubblici edificj innalzati in
ogni città, delle rocche fortificate e di molti altri oggetti che
attestano indubitatamente le sue forze e le sue ricchezze. Troviamo
negli annali di Asti un indice insigne dell'accrescimento delle sue
ricchezze. Ci dicono che l'anno 1226 gli abitanti d'Asti incominciarono
a dar danaro ad usura in Francia ed in altri paesi d'oltremonti; dal
qual genere di traffico ottennero da prima ragguardevoli profitti, poi
gravi perdite[477]. In fatti il primo giorno di settembre del 1256 il re
di Francia fece sostenere ne' suoi stati tutti i banchieri d'Asti in
numero di circa cento cinquanta, e ne confiscò i beni del valore di più
di ottocento mila lire. Senza accordare che Asti abbia potuto allora
perdere così ragguardevole somma, che risponde a più di ventisette
milioni di franchi[478], non può dubitarsi che i capitali non si fossero
accresciuti in Lombardia a dismisura, poichè le manifatture e
l'agricoltura del paese permettevano che si sovvenissero alle straniere
nazioni così egregie somme. È noto che in conseguenza di questo
traffico, cui presero parte tutte le città occidentali d'Italia, fu in
Francia indistintamente detto Lombardo l'usurajo ed il banchiere.
[476] Vedansi _Annales Mutinenses ad an. 1188, 1200, 1211, 1214,
1226 ec. p. 55.-58. — Malvecius Chron. Brixianus, c. 100, 102. ann.
1223. p. 901. — Chron. Parmense ad ann. 1221. p. 764. — Memoriale
Potestat. Regiensium, ann. 1229. t. VIII, p. 1106, ec._
[477] _Chron. Astense Agerii Alferii t. XI, p. 142, 143._
[478] Se si trattasse di lire milanesi calcolando dietro il peso de'
terzaruoli del 1250, sessanta de' quali facevano una lira, questa
valerebbe trentaquattro lire, diecissette soldi, sei denari; e le
800,000 lire farebbero più di ventisette milioni e mezzo della
nostra moneta. Confesso di non avere a quest'epoca verun dato sicuro
intorno ed valore preciso della moneta d'Asti.
Bologna, nell'Emilia, era in allora, come Milano in Lombardia, un centro
d'interesse intorno al quale dirigevansi tutti i negozianti delle vicine
repubbliche. Bologna che pretendeva avere tra le prime conosciuta
l'indipendenza nazionale, e che fa rimontare i suoi privilegi di città
libera fino ai tempi d'Ottone I, non aveva, fino a tale epoca, occupato
un luogo nella storia per causa di strepitose rivoluzioni, o di grandi
sventure: la sua celebrità procedeva da più onorevole titolo. Bologna
aveva, prima di tale epoca, ottenuto l'aggiunto di _Dotta_, che seppe
conservare fino all'età nostra; era stata la prima città in cui si
leggesse il diritto romano; la prima d'Italia ad avere una università.
In sul finire dell'undecimo secolo, una libera società di dotti, quali
almeno potevano aversi in quel tempo, avevano posto i fondamenti
dell'università di Bologna[479]. Aprirono prima una scuola di logica e
di grammatica, e poco dopo, ne' primi anni del secolo dodicesimo,
Irnerio o Warnierio, aveva portate le leggi di Giustiniano, e per la
prima volta preso ad interpretarle in faccia a numerosa udienza. Dopo
Irnerio, altri celebri giureconsulti continuarono le stesse lezioni, e
la scuola del diritto, più d'ogni altra, diede riputazione a Bologna. Fu
questa scuola che gli ottenne i primi privilegi che un imperatore,
Federico Barbarossa, accordasse alle lettere; ed i primi contrassegni
del favore che un papa, Alessandro III, diede ad una università.
[479] _Tiraboschi Stor. della Letterat. Ital. t. III. l. 2, c. 7, §
10 e seguenti._
Nel susseguente secolo, l'università di Bologna aveva acquistata
maggiore considerazione: era la principale e più famosa d'Europa per il
diritto civile e canonico, e tutte le altre scienze vi prosperavano;
grandissimo era il numero degli scolari, famosi i professori; e la città
riponeva la sua gloria nel possedimento di così rinomata università.
Perciò voleva che i suoi professori giurassero di non aprire scuola in
verun'altra città, e niente ometteva di quanto contribuir potesse a
trattenerli presso di sè; mentre, invidiando tanta prosperità, Vicenza,
Padova, Modena, Arezzo e Napoli, ove le scuole avevano incominciato più
tardi, sforzavansi di togliere a Bologna i professori coll'allettamento
di più ampli privilegi e generosi stipendi, onde aver parte anch'esse al
rinnovamento delle lettere in Italia[480]. Forse i Bolognesi si
rifiutarono lungo tempo dall'abbracciare le parti del papa o
dell'imperatore, per non recar pregiudizio all'università; desiderando
di conservare la benevolenza di tutti i governi, e riputandosi obbligati
ad avere questi riguardi agli stranieri riuniti presso di loro per
cagione degli studj. Vero è che inclinavano alla parte guelfa; ma lungo
tempo non pertanto mostraronsi rispettosi verso Federico, e non si
dichiararono contro di lui che quando furono da lui medesimo forzati a
farlo.
[480] _Tiraboschi t. IV, l. 1, c. 3._
Il territorio bolognese, dalla banda degli Appennini, confinava con
quello di Pistoja e di Fiorenza, ma le montagne erano un forte steccato
per risparmiare alle confinanti repubbliche troppo frequenti querele;
tanto più che i loro distretti erano sparsi di feudi indipendenti,
posseduti dai conti Guidi, dagli Ubaldini, Ubertini e Tarlati. Questi
gentiluomini non avevano ancora riconosciuta la sovranità di veruna
repubblica, e procuravano di essere dimenticati da tutte, mantenendo la
pace sulle loro montagne. Al nord i Bolognesi avevano confinanti i
Ferraresi, sempre divisi da calde fazioni e dominati a vicenda da Azzo
d'Este, di parte guelfa, e da Salinguerra, di parte ghibellina. I
Modenesi, a ponente, e gl'Imolesi, a levante, stavano costantemente pel
partito ghibellino, e con questi Bologna ebbe spesse volte guerra. La
Romagna e la Lombardia erano divise in due leghe. Faenza, Cesena e Forlì
avevano stretta alleanza con Bologna; mentre Rimini, Fano, Pesaro,
Urbino ed i conti di Montefeltro tenevano la contraria parte. Ma se noi
abbiamo omesso il circostanziato racconto delle guerre di Lombardia, a
più forte ragione dobbiamo fare lo stesso rispetto a quelle della
Romagna[481], ove le popolazioni erano meno potenti, le città più
povere; onde i prosperi o i sinistri avvenimenti avevano minore
influenza sulla sorte d'Italia. Altronde la protezione che i Bolognesi
accordarono, del 1216, ai loro alleati di Cesena, e la guerra che, del
1228, sostennero contro i Modenesi, non produssero alcuno notabile
avvenimento[482]. Più importante fu un'altra guerra degli stessi
Bolognesi contro Imola; aveano, nel 1222, saccheggiato quattro volte il
territorio di questa città e ridotti gli abitanti in così misero stato,
che per ottenere la pace acconsentirono a distruggere le loro mura, a
cedere ai vincitori le porte della città che furono portate
trionfalmente a Bologna; e per ultimo a ricevere un podestà
bolognese[483]. Fu in occasione di così umiliante convenzione che
l'imperatore Federico, dichiarandosi protettore dell'oppressa città,
sforzò, colle sue minacce, i Bolognesi ed il loro pretore a gettarsi
scopertamente nel contrario partito.
[481] Cronica di Bologn. di F. Bartol. della Pugliola _l. XVIII, p.
251_. — _Annales Cæsenatens. t. XIV, p. 1093._
[482] _Chron. Mutinense t. XV, p. 559._
[483] _B. della Pugliola, Cronica di Bologna p. 253. — Mattei de
Griffonibus Memoriale historicum de rebus bononien. t. XVIII, p.
109. — Ghirardacci, Istoria di Bologna, l. V, p. 140._
Federico II, ossia Federico Ruggero, siccome chiamavasi avanti che fosse
imperatore, trovavasi in Germania quando gli fu data notizia della morte
d'Innocenzo III e della elezione di Onorio III, ch'era stato quattro
anni, sotto i suoi ordini, governatore di Palermo. Federico fece due
volte il fatale esperimento, che un suo ministro non potev'essere fatto
papa senza diventare suo nemico[484]. Il subalterno, diventato
superiore, rare volte sa difendersi dalla tentazione di far conoscere al
suo antico padrone, che può anch'esso umiliarlo e farlo soffrire. Benchè
Federico non fosse allora il campione della santa sede contro
l'imperatore Ottone IV, il nuovo papa gli scrisse arrogantemente,
ordinandogli di rassegnare al principe Enrico, suo figliuolo, il regno
di Sicilia, onde non rimanesse unito a quello di Germania. Ottone mori
poco dopa il 19 maggio del 1218, e lo stesso papa propose nuove
condizioni a Federico, prima di riconfermargli la promessa della corona
imperiale. Voleva che si obbligasse ad andar subito in Terra santa per
riprenderla ai Saraceni che ne occupavano la maggior parte; e che
cedesse alla Chiesa il contado di Fondi, posto al mezzodì di Terracina e
delle paludi Pontine.
[484] _Giannoni, Historia Civile di Napoli, l. XVI. Introd._
Riuniva Federico il carattere delle sovrane famiglie di cui era erede, e
delle nazioni tra le quali aveva vissuto. Aveva ereditato dai principi
della casa di Svevia l'inclinazione alla guerra, ed un valore talvolta
brutale; ma in sull'esempio dell'avo materno, Roberto Guiscardo, e come
i Normanni cui succedeva, sapeva alla bravura associare un'astuta
politica, una profonda dissimulazione. Educato sotto la sferza della
corte romana, erasi avvezzato ad adoperare quelle armi della debolezza,
che forse sdegnò in più matura età. Sapeva opporre alle insidie de'
pontefici, che avevano lungo tempo preteso d'essere suoi amici,
l'astuzia, e spesse volte la mala fede; le sue parole non erano giammai
conformi ai suoi pensieri, e le promesse poche volte guarentivano le sue
future azioni[485].
[485] Vedasi la sua lettera ad Onorio III datata il 16 degl'Idi di
giugno del 1219, _apud Oder. Raynald. 1219, § 7 e 8, p. 264_.
Federico non era probabilmente determinato a passare in Terra santa
allorchè lo promise ad Onorio III. Egli non aveva ancora recata
interamente la Germania alla sua obbedienza, e dopo la morte di Ottone
trovò necessario di rimanervi ancora due anni prima di venire a Roma a
ricevere la corona imperiale; nel qual tempo (1220) fece coronare suo
figliuolo Enrico re de' Romani. Erasi Federico ammogliato così giovane,
che questo figlio aveva omai dieci anni, benchè egli stesso non
oltrepassasse i ventisei. Venne in seguito a Roma con una riguardevole
armata, evitando in cammino di avvicinarsi alle città lombarde che
stavano pel contrario partito; ed il giorno 22 novembre del 1220
ricevette la corona imperiale, dopo aver rifatte le promesse di
portarsi, senza ritardo, al soccorso di Terra santa[486].
[486] _Raynaldus, 1220, § 21, p. 275._
Ma il regno di Puglia aveva, più che quello di Germania, estremo bisogno
delle cure e delle riforme del monarca. Dopo il regno di Guglielmo il
cattivo, era sempre stato in preda delle guerre civili, e
l'amministrazione trattata dai papi ne aveva a dismisura accresciuta
l'anarchia. Tutti i conti, proprietarj d'una città o d'un castello,
avevano quasi scosso del tutto il giogo dell'autorità reale; e Federico,
per ristabilirla, non si fece scrupolo di adoperare la frode ed il
tradimento. In mezzo alle feste che gli davano i suoi feudatari per
onorare il suo ingresso nel regno, si fece rendere, in passando per san
Germano, i diritti regali che l'abbate di questo monastero aveva
usurpati[487]; prese possesso di molte rocche che il conte dell'Aquila
si era appropriato; ed in Capoa istituì un tribunale destinato a
riconoscere i titoli di tutti i feudatarj ed a riunire ai reali dominj i
feudi di cui gli attuali possessori non sapessero giustificare il
titolo. Dopo un'ostinata guerra, costrinse i conti di Celano e di Molise
a sottomettersi[488]; e fece spianare molte delle loro rocche.
Finalmente fece imprigionare i conti dell'Aquila, di Caserta, di san
Severino e di Tricarico, accusati di non essere andati in suo ajuto
contro i Saraceni della Sicilia con quel numero di truppe che dovevansi
dai loro feudi; ed in tal modo terminò d'abbattere l'indipendenza
feudale de' suoi baroni l'anno 1222.
[487] _Richardi de S. Germano Chron. t. VIII, p. 992._
[488] _Ibid. p. 996._
Lo stato della Sicilia era ridotto in assai peggiore condizione. I
Saraceni e per l'odio che portavano ai Cristiani, e perchè oppressi da
insopportabili contribuzioni, eransi ribellati: occupavano essi le
montagne del centro dell'isola, e sotto la condotta d'un loro patriotta,
detto Mirabet, saccheggiavano la valle di Mazara. La vicinanza
dell'Africa facilitava loro i soccorsi de' patriotti, che, accostumati
ne' deserti di Barbaria a vivere di ladroneccio, s'affrettavano di
venire nella Sicilia a dividerne le spoglie. Federico gli attaccò
vigorosamente; e, dopo averli più volte battuti (1223), offri loro nuove
terre ne' suoi stati e campagne fertili, ma lontane dal mare, a
condizione che gli rinnovassero il giuramento di fedeltà e servissero
nelle sue armate. Più migliaja di Saraceni accettarono l'offerta, mentre
altri ostinaronsi nella difesa delle loro montagne. Federico trasportò i
primi nella Puglia, ove diede loro la città di Lucera colle belle
campagne della Capitanata[489]. Si pretese che questa prima colonia
potesse, al bisogno, somministrargli venti mila soldati. Ventiquattro
anni dopo ridusse gli altri Saraceni di Sicilia a stabilirsi ad eguali
condizioni in una ricca valle tra Napoli e Salerno, ove occuparono la
città di Nocera, che di poi conservò sempre l'aggiunto di Nocera dei
Pagani.
[489] _Giann. Ist. Civile del Regno di Napoli l. XVII, c. 2, p. I. —
Richardi de s. Germ. Chron. p. 996. — Gio. Villani l. VI, c. 14, t.
XIII, p. 162._ — Gli storici italiani confondono spesso Lucera con
Nocera.
Mentre Federico assicuravasi della dipendenza de' feudatarj, facendo
smantellare le loro fortezze, andava in cambio fabbricandone di nuove
nelle principali città della Sicilia e della Puglia, e stabiliva nella
prima una guardia fedele che doveva rispondere di tutta l'isola. Tra le
rocche innalzate da Federico, quella di Capuano posta nel centro di
Napoli, ed oggi ridotta a palazzo dei re, sarà lungo tempo un nobile
monumento della sua magnificenza[490]. La bellezza di questo palazzo
determinò probabilmente i suoi successori a stabilirvi la loro dimora
quando Napoli diventò la capitale del regno. Federico aveva di questi
tempi accordato a Napoli un più importante favore, fondandovi
un'accademia, e chiamando a professarvi il diritto, la teologia, la
medicina e la grammatica i più distinti letterati d'Italia[491]. E per
riunire in Napoli tutta la gioventù de' suoi regni che voleva applicarsi
allo studio, oltre i molti privilegi accordati all'accademia, prescrisse
che le professioni letterarie non potessero esercitarsi che da coloro
che riceverebbero i gradì nella medesima. Attribuì pure ai professori di
questa Università il diritto di giudicare tutte le controversie che
avrebbero luogo tra gli scolari; ed ordinò ai professori ed agli scolari
di Bologna di recarsi a Napoli quando quella città aveva provocata la
sua collera; ma l'università repubblicana non fece verun conto de' suoi
comandi o delle sue minacce.
[490] _Giov. Villani Stor. Fior. l. VI, c. 1, p. 155._
[491] _Petri de Vineis Epistolae, l. III, ep. 10, 11, 12, 13,
edizione di Basilea del 1566, p. 411 e seguenti._
Mentre Federico andava ordinando i suoi regni, gli affari de' Cristiani
in Terra santa erano estremamente peggiorati. Un legato pontificio si
era arrogato il diritto di comandare le truppe crociate, e la sua
ignoranza ed ostinazione erano state cagione della perdita di Damietta e
di una florida armata[492]. Qualunque volta il papa aveva sinistre
notizie delle truppe di Terra santa, scriveva nuove lettere a Federico
perchè si affrettasse di soccorrerla: e per determinarvelo più
facilmente, gli offriva la successione al trono di Gerusalemme. Questo
principe perdeva allora la consorte Costanza di Arragona; e Giovanni di
Brienne, ch'era re titolare di Gerusalemme pei diritti della moglie,
aveva una sola figliuola detta Yolante, legittima erede di questo regno
posseduto dai Saraceni: e questa, dietro gl'inviti del papa, fu la
seconda consorte di Federico. Dopo tali nozze celebrate l'anno 1225
aggiunse a' suoi stemmi la croce, ed a' suoi titoli quello di re di
Gerusalemme.
[492] _Raynaldi Annales Eccles. 1218, § 11, pag. 1219, § 12 e seg.,
p. 265, 1220, § 55, p. 281 e 1221, § 10, p. 283._ — Era questa la
quinta crociata, condotta dai re di Cipro, di Gerusalemme e
d'Ungheria, dal duca d'Austria, da quello di Bavier, ec. Si riunì in
Acri l'anno 1217. La storia di questa infelice crociata fu scritta
da Giacomo di Vitry, _l. III, p. 1119 e seg._, e da _Oliverius
Scholast. Coloniens. p. 1188. — Gesta Dei per Francos_.
Se fino a tale epoca le sue intenzioni furono non senza ragione
dubbiose, certo è intanto che dopo mandò più volte soccorsi ai confini
di Terra santa, e fece grandi apparecchi per recarvisi egli medesimo con
un'armata. I crociati di Germania, d'Inghilterra e d'Italia adunaronsi a
Brindisi: Federico fece equipaggiare i bastimenti di trasporto, ed il
giorno otto settembre del 1227 andò egli stesso a bordo della flotta col
landgravio Luigi di Turingia, il principale de' crociati tedeschi. Ma le
truppe de' popoli settentrionali, che nel cuor dell'estate soggiornavano
in così caldo clima, trovaronsi attaccate da malattie epidemiche, che
fecero perire molta gente, e scoraggiarono i superstiti. In tali
frangenti cadde infermo e morì il landgravio; e lo stesso Federico non
andò esente dal dominante contagio. L'imperatore dovette suo malgrado
abbandonare un'impresa incominciata con sì fortunati auspicj; e
scendendo dal suo vascello protrasse l'impresa fino al vegnente
anno[493].
[493] _Richardi de S. Germano Chron. p. 1002. — Petri de Vineis
Epistol. l. I, Lettera 21, p. 142._
(1227) In quest'anno moriva ancora Onorio III, cui veniva surrogato
Gregorio IX, della famiglia de' conti di Segna, e nipote d'Innocenzo
III. Il nuovo pontefice che lusingavasi di vedere illustrato il primo
anno del suo regno dalle vittorie di una crociata, s'abbandonò agli
eccessi della collera quando seppe svanite tutte le sue speranze. Avea
d'uopo di trovare un colpevole per potere in lui punire le avversità
della fortuna, e senza monitorj, senza precedenti citazioni, il 29 del
mese di settembre fulminò contro Federico la scomunica, perchè non era
partito, come aveva promesso, all'epoca stabilita[494].
[494] Lettera di Gregorio IX ai vescovi del Regno presso _Raynald.
an. 1227, § 30, p. 341_.
Nelle lettere che il papa diresse al clero del regno di Napoli, per
giustificare una così strana procedura, accusa l'imperatore d'avere
volontariamente dato i crociati in preda all'epidemia col riunirli nella
stagione più calda ne' luoghi più insalubri, e coll'avere in seguito
supposta una malattia ch'egli non ebbe mai, onde abbandonarsi senza
ostacolo ai piaceri ed ai vizj.
Federico dal suo canto inviò i suoi reclami a tutti i sovrani
d'Europa[495]. Da Pozzuolo, ov'erasi recato per ricuperare la sanità in
que' bagni resi così celebri dagli antichi poeti di Roma, scrisse ai
cardinali, al clero de' suoi stati ed a tutti i re della Cristianità.
Ordinò in pari tempo agli ecclesiastici di Napoli e della Sicilia di non
fare verun conto dell'interdetto inflitto a tutti i luoghi in cui egli
fosse per soggiornare e di continuare la celebrazione dei divini
uffici[496]: finalmente per togliere ogni dubbio alla fatta promessa ed
alla realtà della sua malattia che aveva sospesa l'esecuzione della
crociata, faceva ogni cosa apparecchiare con grande sollecitudine per il
passaggio di Terra santa nel susseguente anno.
[495] _Conradus Abb. Usperg. Chron. p. 234._
[496] _Petri de Vineis epist. l. I, c. 23, p. 175._
(1228) In agosto del 1228 gli apparecchi erano terminati, e Federico
partì infatti alla volta della Palestina, ma con un'armata assai meno
numerosa che quella dell'anno addietro, perciocchè, a riserva di alcuni
Tedeschi, non aveva oltramontani sotto i suoi ordini. S'imbarcò anche
quest'anno a Brindisi, e dopo un felice tragitto diede fondo a san
Giovanni d'Acri[497].
[497] _Marini Sanuti Secreta Fidel. crucis l. III, p. XI, c. 11, p.
211._
Quest'impresa fatta, per quanto sembrava, soltanto per provare
l'ingiustizia della scomunica, si risguardò dal papa come una nuova
offesa, anzichè quale soddisfacimento del passato; ed arse di tanta ira,
che, quantunque il popolo romano, sdegnato per così scandalosa
parzialità, prendesse le armi contro di lui sotto la direzione dei
Frangipani, e lo forzasse a ritirarsi a Perugia, non solo rinnovò contro
di Federico la sentenza di scomunica, ma gli dichiarò la guerra,
promulgò contro di lui una crociata, e sotto il comando di Giovanni di
Brienne, re titolare di Gerusalemme e suocero dell'imperatore, mandò
un'armata a saccheggiare la Puglia[498].
[498] _Rayn. An. Eccles, 1228, § 5, p. 349. — Vita Greg. IX ex card.
Arr. coll. p. 576. Sc. Rer. Ist. — Chron. Richar. de san. Germano,
p. 1004._
In quest'armata, oltre i sudditi del papa, trovaronsi i suoi alleati
lombardi, ed i vescovi di Clermont e di Beauvais: e nel susseguente anno
furono inoltre chiamati dal papa a prender parte in questa guerra gli
arcivescovi di Parigi e di Lione. Federico, partendo, aveva mandati
ambasciatori al papa per ottenere un riconciliamento[499]; ma Gregorio
non volle ascoltarli; ed invece incaricò i Francescani ed i Domenicani
di far ribellare i sudditi di Federico e di pubblicare la falsa notizia
della sua morte onde agevolare le conquiste di Giovanni di Brienne.
[499] _Raynaldi, 1228, § 18, p. 352._
In Terra santa tutte le operazioni di Federico furono egualmente
contrariate dai ministri del papa, e la sentenza di scomunica
solennemente pubblicata in tutta la Palestina. Il patriarca di
Gerusalemme sottopose all'interdetto tutti i luoghi che occuperebbe
Federico, ed il gran maestro del tempio e di san Giovanni dichiararono
di non poter servire sotto di lui; per cui l'imperatore fu forzato di
acconsentire che nel suo proprio campo gli ordini non fossero dati in
suo nome, ma in quello di Dio e della repubblica cristiana[500]. Mal si
può concepire come in mezzo a tanti svantaggi Federico abbia potuto
ottenere dal soldano d'Egitto un onorevole trattato per la Cristianità.
A quest'epoca il soldano era padrone di Gerusalemme; e perchè i
Musulmani, come i Cristiani, attaccavano a questo luogo un'idea di
santità, credevasi in coscienza obbligato di conservare ai primi la
libertà di poter fare questo pellegrinaggio cui si obbligavano
frequentemente. Ma non erano i medesimi sacri edifici che eccitavano la
divozione delle due sette. I Cristiani veneravano soprattutto il santo
sepolcro e la chiesa fabbricata sopra il medesimo; ed i Musulmani erano
in ispecial modo devoti del tempio de' Giudei innalzato sopra le ruine
di quello di Salomone; tempio che nelle visioni di Maometto era stato
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