Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 21

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una delle visioni del profeta, quando fece il suo viaggio in cielo.
Federico, conoscendo questi estremi, proponeva del 1229 di lasciare il
tempio ebraico ed il suo circondario sotto la custodia de' Musulmani, a
condizione che il soldano gli cedesse il rimanente della città e parte
del suo territorio[501]. Riservava per altro ai pellegrini, quando la
proposta venisse accettata, il diritto di visitare lo stesso tempio,
purchè mantenessero il debito rispetto[502]: e d'altra parte accordava
ai Musulmani il diritto di entrare nella città di Gerusalemme; adottando
prudenti misure per conservare la buona armonia tra le due nazioni e le
due credenze[503].
[500] _Bernardi Thesaurarii de acquisit. Terræ sanctæ t. VII. Rer.
Ital. c. 207, p. 846. — Giannone l. XVI, c. 7. — Secreta. Fidelium
Crucis Marini Sanuti l. III, p. XI, c. 12, p. 212._
[501] Questo trattato viene riportato da Oderico Raynaldo all'anno
1229, § 15 e seg. _p. 359_.
[502] § quarto del trattato.
[503] Il papa cercò di confondere il tempio lasciato ai Musulmani
con quello del santo sepolcro riservato ai Cristiani. In conseguenza
di ciò accusò Federico d'avere acconsentito ad una profanazione; e
tutti i posteriori storici, non eccettuati Muratori e Giannoni,
furono tratti in errore dalle invettive degli ecclesiastici. Pure
chiarissimi sono i termini del trattato; non lo sono meno quelli di
Riccardo da san Germano: e l'interdetto pubblicatosi nella stessa
chiesa del santo sepolcro, e l'incoronazione celebratasi nella
stessa chiesa, provano evidentemente che trovavasi in potere dei
Cristiani. Gibbon fu quello che avvertì questo volontario errore
degli scrittori ecclesiastici.
La città di Gerusalemme essendo stata effettivamente ceduta agli
ufficiali di Federico, questi alla testa delle sue truppe vi entrò come
nella capitale del nuovo suo regno. Ma il patriarca avendolo prevenuto,
sottopose all'interdetto la città e la stessa chiesa del santo sepolcro,
quai luoghi profanati dalla presenza dì uno scomunicato. Niun prete
volle celebrarvi la messa, e Federico che doveva ricevervi la corona del
nuovo suo regno, fu obbligato di prenderla dall'altare colle proprie
mani e porsela in capo.
Gregorio IX, quando ebbe notizia di questo trattato, scrisse a tutti i
principi d'Europa per informarli dell'intera sua disapprovazione,
chiamando questa pace[504] _un esecrabile delitto che ispirava orrore e
sorpresa_. Ma Federico che colla sua armata tenne dietro immediatamente
alle lettere colle quali aveva annunciato il riacquisto di Gerusalemme,
costrinse ben tosto il papa a mutar linguaggio. Riprese a forza tutte le
città e fortezze che gli erano state tolte dalle truppe della Chiesa;
atterrì in modo l'armata di Giovanni di Brienne, che si sbandò in pochi
giorni, lasciando quasi solo questo guerriero veterano; ricevette le
felicitazioni del senato e del popolo di Roma; ed ispirò abbastanza di
spavento al papa per farlo acconsentire ad entrare in trattati co' suoi
ministri[505]: in conseguenza de' quali il papa soppresse le censure
pronunciate contro l'imperatore, e lo riconciliò colla Chiesa, a
condizione soltanto che questi accorderebbe un perdono generale a tutti
i feudatarj ribelli.
[504] _Oder. Rayn. ad annum._
[505] _Chronic. Richardi de sancto Germano, p. 1007-1021._
Mentre Federico occupavasi interamente degli affari del suo regno di
Puglia e di quelli di Terra santa; mentre si batteva ad un tempo contro
i Saraceni, contro i crociati, contro i baroni ribelli e contro
gl'intrighi degli ecclesiastici, il Settentrione dell'Italia, sotto la
protezione della Chiesa, formava una lega assai più dannosa all'autorità
imperiale, una lega che dava maggior consistenza alle repubbliche
lombarde, rendendole affatto indipendenti.
Tutti i predecessori di Federico II avevano portato il titolo di re di
Lombardia, o d'Italia; titolo loro conferito col porgli sul capo la
corona ferrea conservata in Monza. Federico solo non avea ancora
ottenuto dai Milanesi questa corona, quantunque non lasciassero di
riguardarlo quale legittimo imperatore[506]. Federico aveva fin allora
dissimulato il suo risentimento; ma i Milanesi non ignoravano quanto un
simile rifiuto doveva offendere la sua vanità; e per mettersi al coperto
dalla sua collera, entrarono in trattati con quelle città che da più
anni avevano mostrato attaccamento al partito guelfo. Proposero di dare
maggior durata e consistenza alla loro alleanza, approfittando perciò
dell'espressa concessione di Federico Barbarossa stipulata nel trattato
di Costanza. Con questo trattato veniva alle città conservato il diritto
di allearsi fra di loro per difendere la propria libertà, ed in ispecie
di rinnovare, quando lo credessero conveniente, la confederazione o
società lombarda.
[506] _Galvan. Flamma Manip. Florum t. XI, c. 253, p. 668._
Queste negoziazioni eransi incominciate l'anno 1226 quando i Lombardi
ebbero avviso che Federico si disponeva di passare a Cremona, ove apriva
una dieta del suo regno d'Italia[507]. Sentirono il bisogno di
affrettare il trattato, onde il giorno due di marzo, in una chiesa del
distretto di Mantova detta san Zenone di Mozio, i deputati di Milano,
Bologna, Piacenza, Verona, Brescia, Faenza, Mantova, Vercelli, Lodi,
Bergamo, Torino, Alessandria, Vicenza, Padova e Treviso, rinnovarono per
venticinque anni l'antica lega lombarda. I deputati obbligaronsi a far
giurare quest'alleanza a tutti i cittadini di ogni città, e si promisero
i vicendevoli soccorsi in caso che l'una o l'altra delle città fosse
attaccata da qualsiasi nemico. Fin allora i termini del trattato non
indicavano verun oggetto ostile; ma intanto si era formata una dieta
delle repubbliche lombarde; i deputati a questa dieta, detti rettori, si
obbligavano di mantenere con tutte le loro forze libere le città e la
pace fra di loro; si adunavano assai spesso; e non potevano uscir di
carica senza aver prima nominati i loro successori. E per tal modo si
formava una nuova potenza atta di sua natura a tenere inquieto
l'imperatore.
[507] _Memorie della città e della campagna di Milano ne' secoli
bassi del conte Giorgio Giulini vol. VII, l. I, p. 404. — Corio
delle Istorie Milan. p. II, p. 88._
Infatti Federico fece di tutto per isciogliere questa lega; ma il papa,
sotto i di cui auspicj erasi formata, si affrettò di entrare mediatore
tra le città e l'imperatore, quale pacificatore dei fedeli. Del 1226
regnava ancora Onorio, il quale andava affrettando Federico a fare
l'impresa di Terra santa; e quando ottenne di essere arbitro tra i
confederati e l'imperatore, non aggravò i primi di altre condizioni, se
non che darebbero un determinato numero di soldati per la crociata, e
non farebbero ulteriore opposizione al castigo degli eretici che si
scoprissero fra i loro concittadini[508]. In forza di tali concessioni,
ch'egli chiedeva per sè medesimo, non per Federico, lo ridusse a
riconoscere la lega lombarda ed a lasciarla in pace.
[508] _Ann. Eccles. Raynaldi an. 1226, § 26, p. 329._
Quando Gregorio IX, che succedeva ad Onorio, si trovò impegnato in una
inconsiderata guerra coll'imperatore, angustiato dalle armi vittoriose
de' Tedeschi, ricorse alla lega lombarda. E perchè i chiesti soccorsi
non giugnevano abbastanza in tempo per riparare le sue perdite, accusava
la lentezza de' suoi alleati, e minacciava di abbandonarli ne' loro
bisogni[509]. Frattanto gli abitanti di Milano e di Piacenza avevano già
spedite le loro truppe; e perchè contro ogni aspettazione vedevansi
strascinati in una guerra offensiva, avevano in pari tempo cercato di
ristringere la lega nella Lombardia, che formava la loro sicurezza.
Molte città lombarde erano governate dai Ghibellini, le quali formavano
come una seconda lega opposta a quella delle città guelfe; e le
repubbliche di Parma, Cremona e Modena erano principalmente cagione di
gelosia e d'inquietudine. In una dieta guelfa, adunata in Mantova, si
stabilì che niuna repubblica confederata riceverebbe per podestà o
giudice un cittadino di città ghibellina[510], o un suddito
dell'imperatore; che non sarebbe permesso a verun cittadino lombardo
l'accettare pensioni, regali, feudi dall'imperatore o da' suoi aderenti;
che i danni che venisse a soffrire taluna delle città della lega per
cagione della guerra che intraprendevano, sarebbero proporzionatamente
compensati dalle altre. Ma i prosperi successi di Federico, già di
ritorno da Terra santa, furono tanto rapidi, che Gregorio IX si trovò
forzato ad entrare in trattative di pace: e perchè il pontefice non
ignorava che la lega lombarda era necessaria alla propria sicurezza,
l'anno 1230 la fece comprendere nel trattato di pace convenuto
coll'imperatore.
[509] _Ibid. 1229, § 33, p. 362._
[510] _Bernard. Corio Storia di Milano, p. II, d. 90._
Le città alleate avevano comperata a caro prezzo la protezione del papa,
perciocchè ogni città aveva acconsentito a pubblicare contro gli eretici
i sanguinarj editti dell'imperatore e della chiesa. Già da oltre
vent'anni aveva cominciato in Francia la persecuzione contro gli
Albigesi[511]: il racconto di queste crudeli spedizioni rendeva i popoli
feroci; lo zelo, allora nel colmo del fervore, dei due nuovi ordini
francescano e domenicano comunicavasi a tutte le classi dei cittadini, e
le repubbliche italiane non opponevano più un'insormontabile ripugnanza
allo stabilimento dell'inquisizione. Il 13 gennajo 1228 l'assemblea del
popolo, adunata in Milano, pronunciò sentenza di esigilo e di confisca
dei beni contro gli eretici[512]. Nel 1231 pubblicò un altro più severo
editto mandato a nome comune del papa e dell'imperatore. Finalmente due
anni dopo fu per la prima volta alzato il rogo in Milano, ed il podestà
Oldrado di Tresseno, che fabbricò nella Piazza de' Mercanti il palazzo
pubblico in cui oggi conservansi gli archivj, fece porre sulla facciata
di questo palazzo, sotto al basso rilievo che lo rappresenta a cavallo,
una iscrizione in suo onore onde perpetuare la memoria ch'egli aveva il
primo, siccome era doveroso, fatti abbruciare gli eretici[513].
[511] In Italia, ove questi settarj erano numerosi, chiamavansi
Cathari, vocabolo che avevano preso essi medesimi dal Greco,
corrispondente a quello di Puritani, che altri novatori presero
alcuni secoli dopo.
[512] _Corio p. II, p. 94._
[513] _Qui solium struxit, catharos, ut debuit, uxit. — Memorie
della città di Milano l. II, p. 469._
Non dobbiamo per altro risguardare i persecutori degli eretici quali
uomini essenzialmente feroci che facciano il male conoscendo di far
male; nè è possibile di farsi ammirare dal proprio secolo a cagione di
opere assolutamente malvage: e siccome a quest'epoca i Domenicani
acquistarono grandissima opinione di santità, devono riconoscersi in
loro grandi virtù associate a quella ardente sete di sangue che fa torto
alla causa cui essi servivano. Una religione mistica è un culto reso al
dolore[514]; ed i divoti trovano un certo che di divino nella violenta
scossa dell'anima pel tormento del corpo; il dolore diventa per loro
stessi l'unico mezzo di purificazione, il solo sacrifizio che piacer
possa alla divinità; inoltre si formarono un Dio che si assoggetta ai
patimenti; un Dio il di cui sacrificio rinnovasi ogni giorno, ogni ora,
in tutte le parti del mondo sull'altare ove il sacerdote celebra i
misterj; un Dio che creò l'inferno ed i tormenti eterni; che in questa
vita innalza l'uomo colle sofferenze; che dopo morte lo purifica colle
fiamme del purgatorio[515]. Tutto è concatenato in questo sistema
fondato sul dolore, e non se gli può rifiutare una specie d'ammirazione
mista di ribrezzo, non solo a motivo della bella connessione delle sue
parti, ma ancora per il disinteressamento e pel sacrifizio di sè
medesimo, di cui forma l'essenziale carattere dell'uomo; e per quel cupo
e poetico dolore che attribuisce a tutti i grandi caratteri. Appunto
perchè questo sistema non è incompatibile colle più nobili idee, sarà
prezzo dell'opera lo svilupparlo. La persecuzione ne forma la sua
essenza, considerandovisi i supplicj dei reprobi come un'offerta
espiatoria dovuta alla divinità e come una salutare penitenza per que'
medesimi che li dirigono: imperciocchè gl'inquisitori di mezzo alla
gioja infernale di cui facevano mostra nelle esecuzioni, non lasciavano
d'essere uomini, e fors'anco assai sensibili; sentivano profondamente
l'offesa che facevano alla natura, e compiacevansi del tormento che
provavano essi medesimi vedendo le pene che facevano soffrire, come
compiacevansi dell'altrui dolore espiatorio. Tengasi ben in guardia la
debole umanità dall'ammettere contraddizioni ne' sistemi che servono di
base alla morale, dal rendere schiava la sua ragione, e di ammettere
misteri assurdi sotto lo specioso pretesto di cose recondite; tengasi in
guardia di non separare giammai dalla idea di Dio quella della bontà. —
Questo carattere è quello per cui solo dobbiamo riconoscere il Padrone
dell'universo; giacchè dal momento in cui le basi del pensiero si
troveranno smosse, il delitto potrà associarsi ai più nobili sentimenti,
e quegli uomini che il cielo aveva formati per la virtù, saranno
egualmente disposti a diventare i carnefici de' loro fratelli, o a
maltrattare le proprie membra colle discipline.
[514] Devo parte delle idee che qui espongo all'eloquente Storia del
Politeismo di B. Constant, che mi fu comunicata manoscritta dalla
amicizia dell'autore.
[515] Convien dire che il sig. Sismondi sentisse l'esagerazione
delle presenti osservazioni, onde per non farsene garante, indicò
l'opera da cui le aveva prese. Il lettore cattolico darà loro il
peso che meritano. _N. d. T._
Tre Domenicani, ne' tempi in cui parliamo, acquistarono un'alta
riputazione di santità colla felice riuscita delle loro prediche contro
gli eretici e colle crudeli leggi che fecero adottare a quelle stesse
città, che molto tempo protessero la libertà di coscienza: erano questi
frate Filippo di Verona, detto poi san Pietro martire, frate Rolando di
Cremona, e frate Leone di Perego, in appresso arcivescovo di Milano.
Andavano costoro d'una in altra città predicando nelle pubbliche piazze,
per eccitare il popolo a vendicare col sangue l'offesa divinità; ed uno
di loro ottenne di formare in Milano una privata società che adunavasi
per l'estirpazione dell'eresia[516]. Vero è che i frati predicatori non
avevano il solo scopo di mantenere colle loro esortazioni la purità
della fede, scagliandosi ancora frequentemente contro la scostumatezza e
contro i progressi del lusso. Non pertanto, se dobbiamo credere agli
storici della susseguente generazione, i costumi non erano mai stati
così puri, ed il lusso non aveva mai chiesti minori sacrifici[517]. Le
donne non vestivano che una stoffa di lino semplicissima; ed una tela
bianca che loro avvolgeva il capo, si riuniva sotto il collo; l'oro e
l'argento non brillavano sulle loro vesti; le loro mense non
s'imbandivano di delicate vivande, bastandone una sola ad ogni famiglia;
una fiaccola di legno resinoso illuminava l'interno delle case; e tutto
il lusso di quel secolo ristringevasi alle armi, ai cavalli, alle torri,
alle fortezze.
[516] _Memorie della città e campagna di Milano, an. 1233, l. LI, p.
478-483._
[517] _Ricobaldi Ferrariensis Hist. Imperat. t. XI, p. 128._
Un altro importantissimo argomento delle prediche dei monaci, argomento
più degno della religione cristiana e di una divina missione, era quello
di ricondurre la pace tra le private famiglie e tra città e città.
Gl'Italiani non ne avevano giammai avuto così grande bisogno; tutte le
città trovavansi in armi contro le vicine città, e tutte le famiglie
erano divise dalle funeste fazioni guelfe e ghibelline; tutti gli ordini
de' cittadini battevansi tra di loro per togliersi a vicenda il potere e
le magistrature. Queste semi-private guerre, queste rivalità del popolo
colla nobiltà rendono tanto confusa, tanto oscura la storia del periodo
di tempo di cui parliamo, che abbiamo preso consiglio di non entrare
nella circostanziata narrazione dei diversi avvenimenti. Con quello
stesso zelo con cui poc'anni prima avevano i preti predicata dall'altare
la crociata e la distruzione degl'infedeli, si videro adesso nuovi
missionarj passare d'una in altra città, predicando ai popoli, e loro
ordinando in nome d'un Dio di pace il riconciliamento ed il perdono
delle ingiurie.
Un uomo di gran lunga superiore agli altri si distinse in questa nobile
carriera; fu questi fra Giovanni di Vicenza dell'ordine dei Domenicani.
Diede cominciamento alle sue prediche in Bologna l'anno 1233[518]; e ben
tosto i cittadini, i paesani delle vicine campagne, e soprattutto le
persone addette alla professione delle armi, trascinati dalla sua
eloquenza, unironsi intorno a lui. Portavano essi croci e bandiere in
mano, disposti non solo ad ubbidire alla voce del religioso, ma ancora
ad eseguirne gli ordini. In mezzo a questa folla ch'egli aveva scossa
co' suoi sermoni, vedeva tutti coloro, che in Bologna nutrivano antiche
nimistà, venire a deporle a' suoi piedi, e giurar pace coi loro vecchi
rivali. Gli stessi magistrati presentarongli gli statuti della città
perchè li riformasse come meglio credeva, togliendo tutto quanto poteva
essere cagione di nuove dissensioni.
[518] _Cronica di Bologna di F. Bartolameo della Pugliola t. XVIII,
p. 257._
Frate Giovanni passò in seguito a Padova precedutovi dalla sua fama.
Vennero ad incontrarlo fino a Monselice i magistrati col carroccio[519];
e fattolo salire su questo sacro carro, l'introdussero in trionfo nella
loro città, che di que' tempi era la più potente della Marca Trivigiana.
Tutto il popolo, affollato nella piazza della _valle_, ascoltò la
predica della pace, applaudì alle riconciliazioni che distrussero
all'istante le passate nimistà, e fece istanza a frate Giovanni di
riformare i loro statuti, ciò che praticò in tutte le città. Passò in
appresso a Treviso, a Feltre, a Belluno, ed ottenne gli stessi successi;
visitò i signori di Camino, di Conegliano, di Romano, di san Bonifacio;
ed i signori, come le città, lo fecero arbitro delle loro contese[520]:
le repubbliche di Vicenza, Verona, Mantova e Brescia, ove recossi
successivamente, accordarongli le medesime facoltà: ovunque potè
riformare gli statuti municipali, alterarli a modo suo, aggiugnendo o
levando tutto quanto credeva: finalmente gli fu in ogni luogo promesso
d'intervenire alla solenne assemblea dei popoli lombardi, ch'egli
convocò pel giorno 28 agosto susseguente nella campagna della Paquara,
in riva all'Adige, lontana tre miglia da Verona.
[519] _Rolandinus de factis in Marchia Tarvisana, t. VIII, l. III,
c. 7, p. 203._
[520] _Gerardi Maurisii Vicentini Hist. t. VIII, p. 30._
Niuna così nobile impresa erasi giammai tentata come quella di
pacificare venti popolazioni nemiche col solo suggerimento de'
sentimenti religiosi, coi soli motivi del cristianesimo, col solo impero
della parola: giammai un così grande spettacolo si presentò agli occhi
degli uomini[521]. L'intera popolazione di Verona, Mantova, Brescia,
Padova e Vicenza trovavasi adunata nella campagna di Paquara, ed i
cittadini di queste repubbliche avevano alla loro testa i proprj
magistrati col carroccio. Gli abitanti di Treviso, Venezia, Ferrara,
Modena, Reggio, Parma e Bologna vi erano altresì coi loro stendardi; i
vescovi di Verona, Brescia, Mantova Bologna, Modena, Reggio, Treviso,
Vicenza, Padova, il patriarca d'Aquilea, il marchese d'Este, i signori
da Romano, e quelli della Venezia, vi erano intervenuti coi loro
vassalli[522].
[521] Parisio da Cereta, autore coetaneo, dice che si trovarono a
quest'assemblea più di 400,000 persone. _Chron. Veron. t. VIII, p.
627._ Il Tiraboschi che in un modo assai interessante trattò la
storia di fra Giovanni, risguarda questo numero come esagerato.
_Stor. della Lett. d'Ital. t. IV, l. II, c. 4, § 6, p. 233._ Ma io
non trovo ragione per renderlo dubbioso.
[522] _Antonii Ledi Chron. Vicent. t. VIII, p. 80. — Riccardi
Comitis s. Bonifacii vita t. VIII, p. 128. — Monachus Patav. Chron.
t. VIII, p. 674._
Frate Giovanni si era fatto preparare in mezzo alla pianura un pulpito
altissimo, dal quale, se crediamo agli storici contemporanei, la canora
sua voce, che sembrava venire dal cielo, fu miracolosamente udita da
tutti gli astanti. Prese per testo le parole della Scrittura, _io vi
dono la mia pace, io vi lascio la mia pace_; e dopo avere con una
eloquenza fin allora senza esempio fatto uno spaventoso quadro dei mali
della guerra; dopo avere dimostrato che lo spirito del cristianesimo era
uno spirito di pace; facendo valere l'autorità della santa sede di cui
era rivestito[523], in nome di Dio e della Chiesa ordinò a' Lombardi di
rinunciare alle loro inimicizie; dettò loro un trattato di pacificazione
universale, per assicurare la quale fece sposare al marchese d'Este una
figliuola d'Alberico da Romano; destinò all'eterna maledizione coloro
che romperebbero questa pace; chiamò le distruggitrici pestilenze sulle
loro greggia, e dannò le loro messi, i loro giardini, le loro vigne ad
una perpetua sterilità[524].
[523] Lettera di Gregorio IX a frate Giovanni _ap. Raynald. an.
1233, § 37 e 37, p. 405_.
[524] L'atto stesso della pace, o a dir meglio quello di una delle
paci dettate questo giorno da fra Giovanni, ci fu conservato da
Muratori: _Antiq. Ital. Diss. XLI, t. IV. p. 641_. Quasi non
contiene altra condizione, che il perdono delle ingiurie.
Fin qui la condotta di frate Giovanni andava esente da ogni sospetto,
vista ambiziosa o interessata; sembrando che il suo zelo non avesse
altro motivo che la gloria di Dio, e l'amore degli uomini; ma
l'assemblea di Paquara pose fine alla gloriosa sua carriera.
L'entusiasmo ch'egli aveva eccitato, la pace universale che aveva
conchiusa, gli fecero concepire troppo alta opinione di se medesimo,
onde si credette fatto non solo per pacificare, ma ancora per governare
gli uomini. Tornato a Vicenza, subito dopo l'assemblea, entrò nel
consiglio del comune, e chiese che gli fosse affidato un illimitato
potere nella repubblica, coi titoli di duca e di conte[525]. Erasi
vociferato che questo santo uomo aveva colle sue preghiere tornati in
vita molti morti, e risanati infiniti infermi; ed il popolo, ben lontano
dal nodrire sospetti intorno alle intenzioni del santo, gli confidò
tutta la sua autorità, sperando di vedere con perfetta eguaglianza
divise tra i cittadini le cariche e gli onori. Di fatti fra Giovanni
prese a riformare gli statuti della città, ma il suo lavoro non
soddisfece all'universale. Da Vicenza passò a Verona, ove ugualmente
chiese ed ottenne la suprema signoria, in forza della quale fece tornare
in città il conte di san Bonifacio, allora esiliato; chiese ostaggi alle
fazioni nemiche, mise guarnigioni nei castelli di san Bonifacio,
d'Ilasio e d'Astiglia, fece abbruciare sulla pubblica piazza, dopo
averli egli stesso sentenziati, sessanta eretici che appartenevano alle
principali famiglie di Verona, e per ultimo pubblicò molte leggi e
regolamenti[526].
[525] _Gerardi Maurisii Hist. Vicent. p. 38._
[526] _Chron. Veron. Parisii de Cereta p. 627._
Intanto i Vicentini non tardarono ad accorgersi che il nuovo signore,
invece di accrescere i privilegi del popolo, andava consolidando la
propria sovranità: perchè aggiugnendosi ai loro timori i conforti de'
Padovani che li consigliavano a scuotere così vergognoso giogo, mentre
fra Giovanni trovavasi a Verona, il podestà di Vicenza, Uguzio Pilio,
introdusse in città i nemici dei signori da Romano, e le milizie
padovane per fortificarsi contro il nuovo sovrano. Un altro
ecclesiastico, frate Giordano, priore di san Benedetto a Padova, che
grandissima influenza aveva sul governo di questa città[527], geloso
della gloria del suo confratello, gli aveva probabilmente fatta
ribellare Vicenza. Tosto che frate Giovanni fu avvisato dell'accaduto,
accorse con alcuni soldati per reprimere i sediziosi, e già occupava il
palazzo del podestà, che abbandonava al saccheggio, quando giungendo a
Vicenza le milizie padovane, scacciarono i soldati di frate Giovanni,
che rimase prigioniere. Sebbene per l'intromessione del papa fosse ben
tosto rimesso in libertà, la sua prigionia aveva distrutto il suo potere
in Verona come a Vicenza; onde trovossi costretto di restituire gli
ostaggi che aveva ricevuti e le fortezze occupate dalle sue guarnigioni,
ritirandosi a Bologna, dopo avere perduta ogni sua gloria, e lasciata la
Lombardia in preda a tante guerre, quante la laceravano prima che desse
principio alle sue predicazioni.
[527] Intorno all'influenza di Giordano, vedasi: _Rolandini ad an.
1228, l. II, c. 17, p. 197_.
Il potere dell'eloquenza in questo secolo, quell'impero della parola con
cui il frate di Vicenza si traeva dietro i popoli, e ne regolava i
destini, fu il primo effetto del rinascimento delle lettere, o forse al
contrario il primo motivo dell'importanza che si diede allora allo
studio delle lettere, e dei rapidi avanzamenti che poi fecero. Non deve
sempre giudicarsi del merito d'un oratore dietro l'impressione che
produce nel popolo; imperciocchè assai più che l'eloquenza influiscono
sulla buona riuscita le disposizioni degli uomini, e quel rapido slancio
sull'immaginazione del popolo, ancora nuovo ai prestigi ed ai piaceri
della parola. Nè Demostene, nè Cicerone, nè Bossuet, scossero giammai
così profondamente i loro uditori, quanto i frati predicatori di san
Domenico, quanto san Francesco d'Assisi e sant'Antonio da Padova. Le
repentine conversioni de' principali personaggi del secolo, i dotti che
abbandonavano i loro studj, i principi che abdicavano il loro potere
ascoltando un discorso di taluno di questi oratori religiosi, la
facilità con cui le più gelose e turbolenti repubbliche rendevanli
arbitri dei proprj destini, lo zelo dei soldati e de' contadini che
seguivano il loro predicatore di città in città, e perfino ne' deserti,
ne ricordano i favolosi effetti della poesia d'Orfeo e la magica forza
della parola sui Greci, sopra una nazione troppo simile all'italiana,
egualmente nuova, egualmente entusiasta, egualmente dalla natura
destinata ad aprire la nuova strada della poesia e dell'eloquenza.
Di tanti celebri oratori di questo secolo non abbiamo che i discorsi di
sant'Antonio, dei quali il Tiraboschi, che era cattolico, ne parlò col
rispetto da lui dovuto alle opere d'un santo di primo ordine[528]; pure
non lasciò di osservare che questi discorsi, a fronte de' maravigliosi
effetti attestati dagli storici contemporanei, non sono che un tessuto
di passi scritturali e de' ss. Padri, con alcune riflessioni morali,
senza ornamenti di stile, senza forza o profondità, senza varietà di
figure, e per dirlo in una parola senza niente di tutto quanto forma il
carattere d'un eloquente oratore. Ma ciò che sembrerà ancora più strano,
si è che questi discorsi facevansi in latino. Vero è che, come l'osserva
Tiraboschi, in tal epoca la lingua latina era più vicina alla volgare
che si parlava comunemente, di quel che lo sia adesso la toscana ai
dialetti delle diverse province d'Italia, ove gli oratori e gli avvocati
non adoperano pure che questa elegante lingua[529]: e pure sono intesi
dalle ultime classi del popolo, che pur non sanno parlare lo stesso
linguaggio[530].
[528] _Stor. della Letter. Ital. t. IV, l. III, c. 5, § 24._
[529] Talvolta i predicatori parlavano al popolo in latino, ossia
_litteraliter et sapienter_: indi lo spiegavano in italiano, ossia
_maternaliter_. Veggansi le _Antich. Estensi ad an. 1189, t. I, c.
36_.
[530] Ciò s'intende facilmente ammettendo che la lingua dotta
d'Italia non è il dialetto toscano, comechè di tutti il migliore, ma
una lingua universale, a formare la quale concorsero più o meno
tutti i dialetti. Veggansi tra gli altri Dante _De vulgari eloquio_,
ed il bel dialogo di Pierio Valeriano da me pubblicato
nell'Appendice del primo Tomo della _Storia letteraria della Piave_.
Per altro in quest'epoca cominciavasi appunto a coltivare la lingua
italiana non più come un barbaro dialetto, ma come una lingua adattata
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