Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 09

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stendendosi al mezzogiorno d'Italia ricevette i giuramenti delle città
della Romagna, Ravenna, Rimini, Imola e Forlì; le quali per altro non
sostennero mai con molto zelo la guerra della libertà.
L'imperatore intanto non rimaneva affatto inerte; e, mentre andava
allestendo una nuova armata per invadere la Lombardia, cercava con
segrete pratiche di separare gli alleati che voleva attaccare. Si provò
pure d'entrare in privati trattati col papa, o con Guglielmo re di
Sicilia, o con ciascuna delle città; ma tutte le proposizioni che
miravano ad isolar gli alleati, furono costantemente rigettate. (1171)
Spedì in appresso ai suoi aderenti in Italia, per tenerli a se devoti,
Cristiano arcivescovo eletto di Magonza e cancelliere dell'Impero.
Questo prelato guerriero attraversò la Lombardia con tanta rapidità, che
non si pensò pure ad impedirne la marcia; e giunto in Toscana prese
parte nelle guerre di quelle città, strettamente collegandosi con quelle
del partito imperiale; ed in tal modo ottenne di formarsi colle loro
milizie una ragguardevole armata dipendente da' suoi voleri.
Intanto i Pisani ed i Genovesi continuavano a farsi un'arrabbiata
guerra, e la loro discordia aveva divisa tutta la Toscana. Fino del 1169
i Genovesi avevano guadagnata Lucca al loro partito, ed in appresso
contrassero pure alleanza con Siena e Pistoja e col conte Guido Guerra
il più potente feudatario della Toscana[196]. I Pisani invece eransi
collegati con Fiorenza e con Prato, ed essendosi avveduti che
l'arcivescovo Cristiano, rappresentante dell'imperatore d'Occidente in
Italia, stava per i loro nemici, si rivolsero a Manuele Comneno
imperatore d'Oriente, che abbracciava con piacere tutte le occasioni di
acquistar credito presso i Latini. Essi spedirono deputati a
Costantinopoli, e Manuele ne spedì a loro; ed un'alleanza onorevole e
vantaggiosa alla repubblica fu il frutto delle loro pratiche.
L'imperator Greco rese ai Pisani le franchigie di cui godevano ne' porti
del suo impero, e si obbligò per quindici anni a pagare ogni anno alla
città di Pisa cinquecento bisanti d'oro, e due tappeti di seta e
quaranta bisanti ed un tappeto al suo arcivescovo[197]. Poteva
risguardarsi il danaro come una pensione pagata da uno stato potente ad
un debole, ma quella del tappeto, o stoffa di seta è una condizione più
straordinaria, un tributo in apparenza umiliante per chi lo dà, glorioso
per chi lo riceve; e reca sorpresa che i ministri imperiali lo
accordassero. Pure gli ambasciatori greci che dimoravano in Pisa,
ammessi in piena adunanza del popolo, convalidarono col loro giuramento
questa nuova alleanza.
[196] Intorno ai dominj ed alla successione dei conti Guido veggansi
le _ricerche di Fr. Idelfonso da s. Luigi. Delizie degli eruditi
toscani t. VIII, p. 89 e 195_.
[197] _Breviar. Pisanae Hist. Rer. Ital. t. VI, p. 186._
Quando Cristiano seppe che i Pisani avevano fatto questo trattato,
s'indispose più che prima contro di loro; pure, dissimulando il suo mal
contento, visitò come ambasciatore di Federico la città di Pisa, siccome
quelle di Genova e di Lucca offrendo (1172) l'arbitramento del suo
padrone per decidere le loro liti; ma i Pisani che dovevano aver
sospetta la sua imparzialità, ricusarono l'offerta, onde l'arcivescovo
adirato li pose al bando dell'Impero, spogliandoli in pari tempo del
diritto di battere danaro e della sovranità dell'isola di Sardegna.
(1178) In luglio del susseguente anno, Cristiano finse di voler
ristabilire la concordia tra le comuni toscane, onde levò il bando
pubblicato contro di Pisa, ed essendosi portato in questa città, stabilì
avanti al di lei parlamento, ed alla presenza dei consoli delle città
rivali, i preliminari di una pace, della quale fece giurare l'osservanza
a tutti i consoli presenti. Non molto dopo convocò un'altra dieta a s.
Ginasio in Val d'Arno inferiore, ad oggetto, dicev'egli, di dar l'ultima
mano al trattato; ma quando v'arrivarono i magistrati di Pisa e di
Fiorenza, lì fece arrestare e chiudere in una carcere[198].
[198] _Cron. di Bern. Marangoni p. 436. Brev. Pis. Hist. t. VI, p.
187._
Siccome Pisa e Fiorenza non eransi ancora dichiarate contro
l'imperatore, nè avevano presa parte alla lega lombarda, avrebbe dovuto
risguardarsi come ingiusta ed impolitica la condotta di Cristiano, il
quale moltiplicava senza necessità i nemici del suo padrone[199]; pure
ottenne l'intento che si era proposto, perchè obbligò gli alleati
dell'Impero a porsi senza riserva sotto la sua dipendenza, ed a
sostenere più vigorosamente ciò che prima non era che una privata
contesa. S'egli si fosse limitato all'ufficio di mediatore, sarebbe
rimasto senza credito e senza forze: fatto capo di partito, fu posto
alla testa d'una potente armata, che allestirono i Pistojesi, i Sienesi,
i Lucchesi ed i gentiluomini della Toscana, dell'Ombria e della Romagna;
e con quest'armata si fece a devastare il territorio fiorentino.
[199] Le Cronache di Pisa accusano Cristiano d'essersi lasciato
guadagnare dall'oro de' Lucchesi.
Non tardarono i Pisani a spedire in soccorso dei loro alleati duecento
venticinque cavalli sotto il comando di due consoli; e facendo ad un
tempo una gagliarda diversione nel territorio lucchese, richiamarono i
Lucchesi a difendere il loro paese. Il 17 agosto a Ponte fosco, ed il 28
a Monte calvoli furono i Pisani vittoriosi dei loro nemici: ma non
furono ugualmente fortunati in mare, ove perdettero in un incontro avuto
colla flotta genovese più galere che i loro nemici[200].
[200] _Brev. Pisanae Hist. p. 188. An. Genuens. t. II, p. 347. e
seguenti._
Quantunque in questa prima campagna l'arcivescovo Cristiano non
riportasse alcun segnalato vantaggio, disciplinò la sua armata e la
rinforzò assoldando molti soldati tedeschi che, rimasti in Italia dopo
la ritirata di Federico, non tardarono a raggiungere gli stendardi
imperiali. In principio del susseguente anno Cristiano condusse le sue
truppe ad un'impresa di maggiore importanza.
Quantunque la città d'Ancona non avesse presa parte nella lega lombarda,
era diventata esosa all'imperatore Federico ponendosi sotto la
protezione di Manuele Comneno. Possessori del miglior porto che forse
abbia la costa orientale d'Italia, eransi gli Anconitani dedicati con
tanto profitto al commercio di Levante, che i Veneziani, i quali
pretendevano d'avere l'esclusivo dominio dell'Adriatico, eransi
ingelositi della loro concorrenza. Vero è che la repubblica veneta aveva
da principio dato il suo nome alla federazione lombarda, nè finora erasi
riconciliata coll'imperatore d'Occidente[201]: ma ad ogni modo
preponendo Cristiano a queste considerazioni l'interesse del suo
padrone, allorchè risolse d'intraprendere l'assedio d'Ancona, approfittò
della gelosia de' Veneziani, e fu potentemente soccorso[202].
[201] Eransi i Veneziani disgustati nel 1171 con Manuele Comneno, il
quale prima di dichiarar loro la guerra aveva fatto arrestare tutti
i negozianti veneti, e porre sotto custodia le loro mercanzie.
Questa nuova lite li consigliò a cercar l'alleanza di Federico,
abbandonando la lega lombarda amica di Manuele. _Jo. Cinnami Hist.
l. VI, c. 10. p. 128._
[202] Boncompagno dotto Fiorentino, che fu il primo professore di
belle lettere nell'università di Bologna, scrisse cinquant'anni più
tardi una elegante relazione di quest'assedio. Probabilmente è
questi lo scrittore indicato dal Sigonio col nome di Beno
Fiorentino. _L. V, anno 1218._ Tale relazione trovasi nel _tom. VI,
R. Ital. del Murat. p. 921_. sotto il titolo _Liber de obsidione
Anconae auctore Magistro Boncompagno Florentino_.
Il primo giorno d'aprile del 1174 una flotta veneziana provveduta di
baliste e di altre macchine guerresche entrò nel porto d'Ancona per
assediar la città dalla banda del mare, mentre l'arcivescovo di Magonza
s'avvicinava dall'altra parte alla testa di un'armata, che aveva
ingrossata in Toscana nel precedente anno con reclute tedesche e
recentemente colle milizie d'Osimo e dei feudatari della marca[203].
[203] _Boncomp. de obsid. Anconae p. 929._
Una diramazione delle montagne del Piceno forma il promontorio su cui è
fabbricata la città d'Ancona. Questo promontorio s'avanza nell'Adriatico
da ponente a levante, e ripiegandosi presso all'estremità verso
settentrione forma un vasto seno intorno al quale s'alza la città a
guisa d'anfiteatro lungo un ripido pendìo dal livello del mare fino alla
bipartita sommità della montagna. Una delle sommità trovasi adesso
occupata da un convento di cappuccini, l'altra dalla chiesa cattedrale,
dal di cui porticato vedonsi a destra le nevose montagne della Dalmazia,
a sinistra la ridente svariata costa dell'Emilia, mentre il sole sembra
nascere e coricarsi nelle onde. Il rovescio della montagna dalla banda
dell'alto mare è tanto scosceso, che rende inutili le fortificazioni
dell'arte. Di verso terra la città è accessibile da un solo lato; e la
stessa porta conduce a Sinigaglia posta a settentrione, come a Recanati
che trovasi a mezzogiorno, ed oggi a Loreto che allora non esisteva.
Apresi questa porta sopra un angusto piano fra il porto e le montagne,
colle quali si comunica per mezzo di una seconda porta. L'apertura del
porto verso settentrione viene in parte chiuso da un antico molo, lavoro
romano, ornato da un arco trionfale eretto in onore di Trajano; ma la
bocca del porto è tuttavia troppo larga tanto per assicurare le navi dai
colpi di vento, che la città dalle aggressioni nemiche. Le galee
veneziane ne approfittarono e vennero a dar fondo in faccia allo sbarco
della città.
La prima operazione che facesse l'arcivescovo di Magonza tostochè
s'avvicinò ad Ancona, fu quella di devastarne il territorio, facendo
svellere le viti, gli ulivi, ed ogni altro albero fruttifero, e
distruggendo tutto quanto poteva servire d'alimento agli uomini. Da
principio cercarono gli Anconitani di opporsi a tanta ruina, ma non
sentendosi abbastanza forti per mantenersi in campagna, perchè era assai
limitata la popolazione della città, e di questa ancora parte trovavasi
lontana per oggetti di commercio, si videro costretti a ridursi entro le
mura, dopo aver sofferto qualche perdita.
Ancona era mal provveduta di vittovaglie, sì perchè il raccolto del
precedente anno non fu abbondante, come perchè gli abitanti non
credendosi minacciati d'assedio vicino, aspettavano il prossimo raccolto
per riempire i loro granai. Ma la presente messe fu distrutta dal fuoco
nemico senza che gli Anconitani potessero mettere nulla in salvo, ed il
porto era chiuso dalla flotta veneziana, onde a mezza estate
incominciarono a soffrire la fame. N'ebbe avviso l'arcivescovo, il
quale, quantunque avesse già accostato alle mura e baliste e torri
movibili, aveva però evitato ogni incontro, nè tentato verun assalto
contro la città. Supponendo adesso di trovare i cittadini indeboliti
dalla fame, fece suonare la carica, ed avanzar l'armata fin sotto le
mura per dare un generale assalto. I cittadini riuniti dal martellare
delle campane uscirono contro ai nemici combattendo valorosamente. La
flotta veneziana approfittando del tumulto s'accostò alla città per
isbarcare la truppa sulla spiaggia; ma avendo i consoli opposte loro le
compagnie del porto, continuarono col rimanente della milizia a
combattere contro gl'imperiali, che furono respinti fino al di là delle
loro macchine, senza che però ardissero incendiarle, venendo difese
dagli arcieri che gettavano una grandine di freccie e di sassi. Ciò
vedendo una vedova nominata Stamura, prese un legno acceso, e
lanciandosi verso le torri in mezzo alle freccie, non si ritirò finchè
non fu sicura che il fuoco appiccato alle macchine non poteva più essere
spento. Incendiate tutte le macchine d'assedio, i Tedeschi battuti
allontanaronsi dalla città, e gli Anconitani levarono dal campo molti
cavalli, di cui nutrironsi alcun tempo. Anche i Veneziani furono
costretti di ritirarsi colla perdita di molti uomini, resa più grande
pochi giorni dopo. Gli Anconitani, approfittando di un vento di mare
gagliardissimo, fecero tagliare da alcuni palombari le gomene delle
ancore, e s'impadronirono di sette navi portate dal vento sulla spiaggia
della città[204].
[204] _Boncompagni Obsidio Anconae c. 4. p. 931._
Malgrado questi passaggieri avvenimenti, la situazione degli Anconitani
diventava ogni giorno peggiore. Cercarono perciò di far la pace coi loro
nemici; e fecero offrire a Cristiano una grossa somma d'oro perchè
levasse l'assedio; ma questi rispose che aveva giurato di non accordare
capitolazione, e che non rimaneva loro verun altro partito che di darsi
essi e la città a discrezione.
Il deputato fu ammesso a render conto della sua missione in presenza dei
consoli e del consiglio generale; i quali avanti di nulla risolvere
incaricarono dodici uomini probi di prender conoscenza in tutta la città
de' viveri che ancora rimanevano e di darne conto all'assemblea. A
fronte dell'estrema diligenza adoperata dai delegati non solo nelle case
dei cittadini, ma ancora ne' ripostigli delle chiese, non trovarono che
sei sacchi di frumento e nove sacchi di grano primaticcio[205]. Pochi
giorni avanti erasi fatta ricerca di uovi per medicare le ferite, e non
se ne trovarono dodici in tutta la città, che allora aveva dodici mila
abitanti d'ambo i sessi.
[205] L'autore dice due, e tre moggia. La misura attuale d'Ancona si
chiama rubbia, e pesa seicento quaranta libbre di dodici once. Ho
supposto che sia l'antico moggio.
All'indomani i dodici delegati esposero all'assemblea il risultato delle
loro ricerche, cui i cittadini non risposero che coi gemiti. Sembrava
omai impossibile a tutti il poter sottrarsi all'infelice loro destino; e
molti proponevano d'arrendersi, altri esser meglio morire combattendo
che sopravvivere alla ruina della patria, quando un vecchio cieco di
quasi cent'anni, appoggiandosi al suo bastone, si levò in mezzo
dell'assemblea e disse: «Cittadini d'Ancona, io ero console di questa
città quando il re Lotario l'assediò con una potente armata. Pretendeva
ridurci in servitù; ma fu forzato di ritirarsi vergognosamente. Prima e
dopo di lui altri re ed imperatori che assalirono la nostra patria, non
ebbero miglior successo. Qual vergogna per noi se questa città che
resistette alla loro potenza, cedesse ora ad un prete, ed un vescovo
trionfasse dei nostri soldati? Rammentate, o cittadini, la mala fede de'
nemici e l'odio de' Tedeschi contro il nome latino: non vi sovviene più
di Milano che Federico ha poc'anzi distrutto malgrado le contrarie
promesse? e tenete per fermo che la vostra dedizione all'arcivescovo di
Magonza sarebbe il maggiore de' vostri mali. Fate adunque un estremo
sforzo per ottener soccorso dai vostri alleati; e, se non riesce,
gettiamo in mare colle nostre mani tutte le nostre ricchezze per
toglierle al vincitore, ed andiamo a morire combattendo valorosamente
contro di lui[206].»
[206] _Boncompagni Obsidio Anconae c. 10. p. 933._ I discorsi che si
attribuiscono ai personaggi storici sogliono considerarsi come
verosimili invenzioni dello scrittore: ma quand'anche il presente
fosse di Buoncompagni e non del vecchio cui viene attribuito,
l'avversione che l'autore manifesta per la servitù dei preti non
sarebbe meno notabile in un professore guelfo di Bologna, che in un
abitante d'Ancona. Sono in un modo o nell'altro le opinioni di quel
secolo, e poco monta il sapere chi le manifestasse. Ho abbreviato
alquanto il discorso, senza farvi verun altro cambiamento.
Degli alleati d'Ancona che potessero soccorrerla in così pressanti
strettezze, non eranvi che la contessa di Bertinoro della nobile
famiglia de' Frangipani di Roma, padrona del ricco feudo di Bertinoro in
Romagna[207], e Guglielmo degli Aderaldi di Marchesella, uno de' capi
del partito guelfo in Ferrara. I cittadini d'Ancona scelsero tre
gentiluomini, i quali montati sopra una barca con quanto danaro poteron
raccogliere, furono abbastanza avveduti o fortunati per uscir dal porto
bloccato dalla flotta veneziana.
[207] Il castello di Bertinoro, che già appartenne alla contessa
Matilde, è posto tra Forlì e Cesena vicino a Forlimpopoli.
Intanto la fame non era omai più sopportabile; e consumati tutti i cibi
salubri gli si sostituivano carni infette, cuoi, erbe selvatiche,
ortiche di mare che strappavansi sotto agli scogli benchè si credessero
velenose. Erano gli Anconitani in così misero stato ridotti che appena
potevan reggersi in piedi e portar le armi, e soltanto quando erano
chiamati dal martellar della campana, l'amor di patria e di libertà
rendeva loro lo smarrito vigore, e lanciavansi tra i nemici con tanta
forza ed ardire, che questi ne rimanevano sorpresi ed avviliti. Una
gentildonna giovane e bella, recandosi con un fanciullo in braccio
ch'ella allattava, presso a porta Balista, vide uno de' soldati di
guardia giacente in terra, al quale chiedendo la nobil donna perchè
rimanesse inattivo, risposele trovarsi in modo consumato dalla fame, che
non credeva poter vivere più d'un'ora. «Sono già quindici giorni,
soggiunse l'altra, che io non mangio che cuojo bollito, ed il latte
incomincia a scemarsi; pure alzati, e se il mio seno ne contiene ancora,
avvicina le tue labbra e ristorati per difendere la patria.» Il soldato
scosso da queste parole alzò il capo e vergognandosi della generosa
offerta della conosciuta gentildonna, presa la rotella e la spada si
lanciò con tanto furore tra gli assedianti, che ne uccise quattro avanti
di cadere sotto i loro colpi[208].
[208] _Boncomp. Obsidio Anconae c. 11, p. 37._
Gli Anconitani sostennero tante miserie con una costanza senza esempio,
perchè da più giorni non avevano veruna notizia de' loro deputati.
Giunti questi a Ferrara trovarono in Guglielmo Marchesella e nella
contessa di Bertinoro due fedeli e zelanti amici. Il primo, non bastando
il danaro portato dagli Anconitani per assoldare la truppa che credeva
necessaria all'impresa, obbligò tutto il suo patrimonio ed il suo
credito per una grossa somma presa a censo. Alle truppe di Marchesella
la contessa aggiunse tutti i suoi vassalli; in modo che si formò
un'armata di dodici coorti di cavalleria, cadauna di duecento uomini, e
d'un corpo ancora più numeroso di pedoni; la quale s'avanzò all'istante
per il territorio di Ravenna, da cui con uno stratagemma eransi fatti
allontanare i nemici, che ne occupavano la strada. Il quarto giorno
s'accampò sul monte di Falcognara, dalla di cui sommità scoprivasi in
distanza di quattro miglia Ancona ed il magnifico suo golfo. Quando fu
notte Guglielmo Marchesella ordinò ad ogni soldato di attaccare alla sua
lancia due o tre lumi; poi discese alla loro testa il rovescio della
montagna, facendo occupare alle sue genti la maggiore estensione
possibile. Gli avamposti dell'arcivescovo, ingannati dalla quantità dei
lumi, credettero l'armata più numerosa di quel ch'era veramente.
L'arcivescovo stesso, spaventato dalle grida di gioja dei soldati, che
facevan eco alle esortazioni di Guglielmo e della contessa, e dalle
grida degli Anconitani che dal portico della cattedrale vedevano
avanzarsi i loro liberatori, diede ordine di ritirarsi. La medesima
notte trasportò il campo sulla prima montagna del Piceno, di dove, dopo
poche ore di riposo, si rimise in cammino per entrare nel ducato di
Spoleti. I Veneziani, vedendosi abbandonati dall'armata di terra,
s'allontanarono dalla liberata città, i di cui cittadini, soccorsi dai
loro fedeli alleati, approfittarono di quel subito terrore ch'erasi
impadronito dei loro nemici, per introdurre in città tanta quantità di
viveri che non avessero ad essere affamati da più lungo assedio.
Guglielmo Marchesella lasciò presto Ancona per recarsi a Costantinopoli,
ove da Manuele Comneno fu magnificamente ricevuto e splendidamente
regalato per i soccorsi dati ai suoi protetti[209].
[209] _Boncompagni Obsidio Anconae c. 24. p. 944. — Joan. Cinnami
Hist. l. VI, c. 12. p. 131. Bisan. Ven. t. XI._ — Il Cinnamo non
parla che della contessa, e le attribuisce una compiuta vittoria
sull'armata del prelato. — _Romuald. Salernit. Chron, p. 214._
In quest'anno finalmente furono ridotti a termine i grandi apparecchi di
cui occupossi Federico nella lunga sua permanenza in Germania; ed i
Lombardi seppero in ottobre, che l'imperatore attraversava le Alpi con
un'armata non meno potente di quelle che aveva altre volte condotte
contro di loro. Dopo aver superate le Alpi della Savoja, calò in Italia
dal monte Cenisio e diede alle fiamme Susa posta a piè dell'Alpi per
vendicarsi dell'umiliazione che vi aveva sofferta sei anni prima quando
vi passò fuggiasco. Si diresse in seguito contro d'Asti, città da lungo
tempo associata alla lega lombarda[210].
[210] _Vita Alex. III, a Card. Arrag. p. 463._
I confederati preferivano all'incertezza di una battaglia generale nella
quale tutte le probabilità della vittoria erano per Federico, la
lentezza degli assedj in cui le truppe allemanne spossavansi e
s'annoiavano. Si ristrinsero perciò a mandare alcuni deputati ai
cittadini d'Asti, esortandoli a difendersi coraggiosamente e promettendo
loro che, quando stringesse il pericolo, farebbero avanzare un'armata in
loro soccorso. Ma gli abitanti d'Asti, spaventati dal numero e dalla
ferocia delle truppe condotte da Federico, e soprattutto temendo i
Fiamminghi che formavano il nerbo della sua armata, si arresero,
recandogli le chiave della città senza combattere.
Allora l'imperatore si mosse verso Alessandria, ove dovevano
raggiungerlo le milizie pavesi e quelle del marchese di Monferrato.
Intanto le piogge autunnali avevano a dismisura ingrossati i fiumi e
ritardata la marcia dell'armata imperiale; lo che accrebbe il coraggio
degli Alessandrini, che risguardarono quest'avvenimento come un soccorso
del cielo.
Ma a fronte delle piogge, delle nevi e dei rigori dell'imminente
inverno, malgrado il terreno fangoso, Federico s'accampò avanti
Alessandria. Conobbe a colpo d'occhio che la sola difesa della città
dopo il Tanaro, era la fossa che la circondava; non essendosi ancora
innalzate nè mura nè torri per sostenere i baluardi, che formati essendo
di fango e legati colla paglia, gli fecero dare il nome, che gli è
rimasto fino ai nostri giorni di _Alessandria della paglia_[211].
Lusingavasi per ciò di poterla prendere d'assalto, sicchè dopo aver
distribuite le macchine da guerra lungo i baluardi, fece suonar la
carica: ma gli Alessandrini si difesero così valorosamente, che
rispinsero gli assalitori fino al di là delle loro baliste, che furono
prese ed abbruciate, mentre i tedeschi fuggivano disordinati verso il
campo.
[211] _Romualdi Salern. Chron. p. 213._
Federico non si lasciò ributtare da questa perdita, risoluto di
continuare fino all'estremo l'assedio d'una città fabbricata in onta
sua. Invano cercarono i suoi generali di sconsigliarlo da un'impresa in
cui dovevasi più combattere contro gli elementi che contro gli uomini:
il freddo crebbe ben tosto a dismisura, mancarono i viveri al campo, e
la diserzione facevasi ogni giorno maggiore. (1175) Egli solo non si
scoraggiava, e quattro mesi continui di rigoroso inverno, sempre
contrariato dalle inondazioni, dalla fame, dalle malattie, non lo
rimossero dall'assedio che andava stringendo sempre più con maggior
ardore. Niuno dei mezzi praticati per vincere le città fu da lui
trascurato, e l'ultimo fu la mina. Egli fece aprire una galleria che
avanzavasi sotto la città: questo lavoro assai malagevole in una
stagione piovosa e più in un terreno pantanoso, fu malgrado l'estrema
sua lunghezza continuato con tanto segreto, che gli Alessandrini non se
ne avvidero che all'istante in cui le truppe imperiali uscivano dalla
galleria nella pubblica piazza. Ma prima di questo avvenimento, gli
Alessandrini, dopo un assedio di quattro mesi, avevano chiesto soccorso
alla lega lombarda.
La dieta erasi adunata in Modena, ove fu appena informata dello stato
d'Alessandria, che determinò di far levare l'assedio e di
approvvisionarla. Ordinò pertanto di far marciare tutte le truppe delle
repubbliche alleate, facendo tener dietro all'armata un convoglio di
vittovaglie. Il contingente di tutte le città in cavalleria, in fanteria
e danaro per far acquisto di viveri, fu tosto stabilito, ed i consoli di
tutti i comuni ne giurarono l'esecuzione. A mezza quaresima l'armata
alleata trovossi unita presso Piacenza, di dove si pose in cammino
accompagnata da un convoglio di carri, mentre un altro convoglio di
battelli rimontava le acque par raggiungerlo sulle rive del Tanaro. La
domenica delle palme i confederati s'accamparono presso Tortona in
distanza di sole dieci miglia dal quartier generale di Federico; il
quale, avvertito del loro arrivo, e disperato[212] di veder andata a
vuoto un'impresa cui sembrava attaccato il suo onore e la sua potenza,
scese fino al tradimento. Egli offrì agli assediati una tregua per
celebrare il venerdì santo, e mentre questi riposavansi sicuri sulla
santità del giuramento, fece entrare a notte non molto innoltrata i suoi
soldati nella città per la mina che aveva fatto aprire[213]. Per buona
sorte le scolte repubblicane s'accorsero del tradimento, e chiamarono
all'armi i cittadini. Lo sdegno accresceva le forze degli assediati.
Tutti i Tedeschi entrati in città furono uccisi o forzati di
precipitarsi dai bastioni, e coloro che trovavansi nella galleria della
mina soffocati dal terreno che si fece smottare. Gli Alessandrini
aprirono in seguito le porte, e gettandosi furibondi sulle truppe
imperiali le fugarono, ed incenerirono la torre di legno preparata per
attaccare le loro fortificazioni.
[212] _Sigonius de Regno Ital. Lib. XIV, p. 326._
[213] _Vita Alex. III p. 464 — Sire Raul p. 1292 — Romualdi Saler.
Chron. p. 213 — Trist. Calchi Hist. patr. Lib. XII, p. 227 — Ottob.
Scribæ Annal. Genuens. l. III, p. 552 — Olio de Sancto Blasio c. 25.
p. 881._
Federico respinto dagli assediati, e minacciato dall'armata lombarda,
non poteva più lusingarsi di ridurre Alessandria in suo potere; onde la
susseguente notte fece metter fuoco al suo campo, ed il giorno di Pasqua
s'avviò verso Pavia. I confederati erano accampati in luogo di poter
impedirgli il passaggio, e la loro armata assai più numerosa
dell'imperiale ne assicurava la disfatta ove fosse stata costretta di
venire a battaglia. Ma Federico si credette guarentito dal rispetto che
imprimeva ancora la dignità imperiale sull'animo di nemici poc'anzi suoi
sudditi, persuadendosi che non lo avrebbero attaccato i primi, e
l'avvenimento giustificò i suoi calcoli.
Quando i Lombardi videro le truppe imperiali avvicinarsi a bandiere
spiegate, si disposero a sostenere l'urto de' Tedeschi, ma mentre
credevano d'essere attaccati, videro i Tedeschi far alto, ed occuparsi
come fossero amici a piantare il loro campo. I Lombardi esitarono un
istante, e dubitando di farsi colpevoli di lesa maestà, se attaccavano
il loro imperatore che s'avanzava confidentemente in mezzo a loro,
lasciarono passare la giornata senza decidersi.
La susseguente mattina alcuni nobili, che non erano sospetti ad alcuna
parte, si fecero a trattar di pace. L'imperatore rispose alle proposte
loro, «che, salvi i diritti dell'Impero, era disposto di porre in
arbitrio di giudici scelti dalle parti le contese che aveva co' suoi
sudditi.» L'armata lombarda rispose dal canto suo, «che, salva la
devozione dovuta alla chiesa romana, e la libertà per cui le città
confederate avevano prese le armi, era disposta a sottomettersi al
giudizio degli arbitri.» Furono in conseguenza nominati sei commissarj,
ai quali le parti affidarono la decisione della loro contesa. I più
principali dei Lombardi furono in seguito presentati all'imperatore, che
li ricevette in un modo assai lusinghiero. Si convenne da ambo le parti
di licenziare le armate; e l'imperatore s'affrettò di congedare la sua,
ritirandosi col seguito delle sole guardie e della famiglia a Pavia ove
si riposò dalle fatiche sostenute in una campagna d'inverno. I Lombardi
presero la strada di Piacenza per restituirsi alle proprie case, e
quando giunsero presso questa città si scontrarono nei Cremonesi che
preceduti dai loro consoli s'avanzavano per raggiungerli[214].
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