Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 08

Total number of words is 4187
Total number of unique words is 1716
36.7 of words are in the 2000 most common words
53.5 of words are in the 5000 most common words
61.9 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
riclamare unitamente il ristabilimento degli antichi loro privilegi.
Risposero concordemente i Lodigiani, che più tosto che mancar di
riconoscenza al loro liberatore, a colui che aveva rialzate le loro
mura, erano tutti disposti a sacrificare i loro beni e le loro vite.
I Cremonesi gli mandarono una seconda ambasciata, che non ebbe miglior
successo; onde esposero ai deputati riuniti, di Milano, di Bergamo, di
Brescia e di Mantova, il cattivo esito delle loro pratiche. La lega
lombarda, e specialmente queste quattro città rimanevano sommamente
esposte finchè Lodi teneva le parti dell'imperatore, onde i confederati
risolsero di ottenere colla forza ciò che le amichevoli insinuazioni non
avevano ottenuto. Allora riunirono le loro milizie, che furono precedute
da una terza deputazione de' Cremonesi, i quali aggiungendo le minacce
alle preghiere, avvertirono gli antichi loro alleati che una inevitabile
ruina terrebbe dietro all'inconsiderata opposizione ai voti de'
Lombardi.
Risposero i Lodigiani che non potevano credere che i Cremonesi, i quali
a proprie spese e colle loro mani medesime rialzate avevano le loro
mura, volessero oggi assediarle e distruggerle; che volessero massacrare
coloro che gli erano affezionati, amici, ospiti, perchè mantenevansi
costanti nel partito che anch'essi avevano fin allora sostenuto; che
Cremona era sempre stata l'alleata dell'antica Lodi fino all'epoca della
sua ruina; che aveva con tutte le sue forze protette le borgate
ov'eransi riparati i Lodigiani ne' quarant'anni della loro servitù; che
lo stesso affetto aveva fino al presente conservato alla novella Lodi.
Ma che se adesso volevano opprimere i loro antichi amici, i Lodigiani si
esporrebbero al pericolo ond'erano minacciati, piuttosto che mancare ai
giuramenti che li legavano all'imperatore loro benefattore[179].
[179] _Acerbus Morena Hist. Laud. p. 1135.-1136._
Non consentendo la comune salvezza di lasciarsi smuovere da così
toccanti preghiere, l'armata confederata intraprese l'assedio di Lodi,
facendo ben tosto soffrire agli abitanti una crudel fame. Abbandonati
dall'imperatore che, in luogo di soccorrerli, aveva seco condotta verso
il mezzo dì dell'Italia buona parte delle loro milizie, dopo avere
difesa con tutte le loro forze la sua causa, finirono coll'emettere il
giuramento della lega, ed unirsi ai confederati. Ritirandosi l'armata
che aveva assediato Lodi, attaccò il castello di Trezzo posto tra Milano
e Bergamo, ove l'imperatore aveva lasciati i suoi tesori sotto la
guardia d'una guarnigione tedesca, e presolo dopo lungo assedio, lo
distrussero fino ai fondamenti.
Così prosperi successi aggiungevano ogni giorno nuovi associati alla
confederazione, di modo che avanti che si chiudesse la campagna, la lega
lombarda comprendeva Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara,
Brescia, Bergamo, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena e
Bologna[180].
[180] Giuramento dei confederati in decembre del 1167, _ap. Murat.
Diss. XLVIII, t. IV, p. 261_.
L'imperatore erasi poco prima fatti dare trenta ostaggi da quest'ultima
città, e l'aveva forzata a pagare una grossa contribuzione; ma quando
l'armata tedesca ebbe appena abbandonato il suo territorio, i cittadini
scacciarono il podestà imperiale, ed entrarono nella lega lombarda[181].
Le città d'Imola, Faenza e Forlì che i Tedeschi occuparono nel loro
passaggio, non poterono sottrarsi all'istante al loro giogo.
[181] _Sigon. de Reg. Ital. l. XIV, p. 320._
Intanto Federico era giunto ad Ancona. L'imperatore di Costantinopoli,
Manuele Comneno, adombrato dall'ambizione del monarca tedesco, aveva
stretta alleanza cogli Anconitani che facevano ne' suoi stati un
commercio assai vivo. Per ajutarli a difendersi aveva loro mandata una
guarnigione greca e molto danaro. Federico dal canto suo desiderava di
scacciare i Greci da quella città, ma perchè interessi di molta
importanza chiamavanlo a Roma, dopo alcuni infruttuosi tentativi,
vendette per una grossa taglia la libertà alla repubblica d'Ancona[182].
[182] _Vita Alex. III; a Card. Arag. p. 457._
Gli abitanti d'Albano e di Tuscolo, dichiaratisi a favor
dell'imperatore, negavano di pagare ai Romani i tributi da loro pretesi.
Un'antica animosità nutrivano i Romani contro queste due città, per
soddisfare la quale, più tosto che per vendicare la Chiesa, marciarono
alla fine di maggio contro i Tuscolani, attaccandone le mura, dopo avere
abbruciate le messi e le viti. Rayno conte di Tuscolo, troppo debole per
difenderlo, aveva implorato l'ajuto di Federico, il quale mandò in suo
soccorso Rinaldo arcivescovo eletto di Colonia, che si chiuse nella
città assediata. Non molto dopo Cristiano, arcivescovo eletto di
Magonza, ed il conte di Basville ebbero ordine di avanzarsi con mille
cavalli per obbligare i Romani a levare l'assedio; ma le milizie romane
osarono di marciare contro questa truppa che, quantunque assai minore di
numero, le superava di lunga mano per disciplina e per valore. I
repubblicani non sostennero il primo attacco, ed essendosi posti in
fuga, perdettero circa cinque mila uomini parte uccisi e parte
prigionieri. Giammai, dice lo storico di papa Alessandro che sognava
d'essere ai tempi delle guerre puniche, giammai i Romani, dopo la fatale
disfatta di Canne, avevano perduto tanta gente[183].
[183] _Vita Alex. III, a Card. Arag. p. 458._
Le milizie romane, vedendo di non poter tenere la campagna, si
affrettarono di riparare le mura della loro città, che si prepararono a
difendere; mentre il papa implorava i soccorsi del re Guglielmo, le di
cui truppe avevano già presa la strada di Roma. Questi furono gli
avvenimenti che determinarono Federico a levar l'assedio d'Ancona,
sentendo quanto importante fosse di arrivare sotto le mura di Roma prima
che venisse fortificata in modo di non temerlo. Il 24 di luglio giunse
avanti la città Leonina, e ne intraprese subito l'attacco. L'imperatore
occupò ben tosto questo quartiere della città debolmente difeso; se non
che trovò una più lunga resistenza nelle guardie del papa che guardavano
la basilica Vaticana trasformata in fortezza, che più volte resero vani
gli attacchi delle truppe tedesche. Riuscendo vana l'opera delle baliste
e delle altre macchine di guerra, Federico ordinò di dar fuoco alla
vicina chiesa di santa Maria[184], le di cui fiamme alzaronsi con tanta
violenza, che coloro che difendevano la basilica Vaticana, temendo di
vederla ad ogni istante investita, convennero di arrendersi. Il papa
spaventato abbandonò il palazzo Laterano, e si rinchiuse nel Coliseo coi
Frangipani, i quali sopra alle grandi volte di questo imponente
monumento avevano formata una fortezza che tenevasi come inespugnabile.
[184] Sonovi in Roma cinquanta chiese di questo titolo. Questa
doveva probabilmente essere quella di santa Maria della pietà in
Campo Santo, eretta da Leone IV. _Vasi Itiner. di Roma, p. 656._
Mentre Federico spingeva caldamente l'assedio di Roma, cercava di
alienare i cittadini da papa Alessandro, offrendo loro moderate
condizioni; cioè che i due competitori rinunciassero alla dignità,
incaricandosi egli di ottenere l'abdicazione di Pasquale, purchè anche i
Romani riducessero a fare tale sacrificio lo stesso Alessandro;
promettendo inoltre di lasciare poi alla Chiesa la piena libertà
d'eleggere il nuovo pontefice. A queste condizioni offriva di levare
l'assedio e di restituire ai Romani tutto quanto aveva fin allora
occupato. Nello stato in cui trovavansi gli assediati, erano queste
troppo vantaggiose condizioni per essere rifiutate; onde pregavano il
papa a fare un sacrificio reso necessario dalle circostanze. Ma
Alessandro fece rispondere dai suoi cardinali, che il sommo pontefice
non era subordinato ad alcun tribunale della terra, nè a quello dei re,
nè a quello de' popoli, nè a quello della Chiesa; e che niuna cosa lo
farebbe scendere dall'alto rango in cui Dio lo aveva collocato. E perchè
temeva che, ammutinandosi il popolo, non lo forzasse ad abdicare il
papato, fuggì segretamente dal Coliseo de' Frangipani, di dove scendendo
per il Tevere fino al mare, andò prima a Terracina, indi a Gaeta, poi a
Benevento. Come i Romani seppero la fuga d'Alessandro, trattarono di
pace coll'imperatore, ammettendo nella loro città i suoi deputati, uno
de' quali fu lo storico Acerbo Morena, ai quali prestarono giuramento
d'essere fedeli a Federico, che dal canto suo confermò i privilegi del
loro senato[185].
[185] _Vita Alex. III, p. 458. — Ann. Eccles. Baronis. an. 1167, §
11. — Acerbus Morena p. 1151, 1153. — Romualdus Salern. Chron. p.
208._
L'armata imperiale aveva incominciato l'assedio di Roma in sul finire di
luglio, quando l'eccessivo ardore dell'estate rende quel clima insalubre
ancora agli abitanti, non che agli uomini del settentrione. Perchè
mentre trovavasi accampata fuori della città, la _febbre maremmana_,
terribile malattia, la di cui violenza non è tutti gli anni uguale, si
manifestò tra i soldati, accompagnata dai più spaventosi caratteri, resi
ancora più terribili dalla loro immaginazione che raddoppiò ben tosto le
stragi della malattia: essi vedevansi sempre avanti agli occhi la chiesa
di santa Maria incenerita dalle sacrileghe loro mani, la basilica
Vaticana sottratta per caso alla medesima sorte, sulla di cui faccia
erano state distrutte dalla violenza del fuoco le miracolose immagini di
Gesù Cristo e di s. Pietro. I preti continuavano a minacciar loro le
vendette del cielo, di cui credevansi già vittima: lo scoraggiamento ed
il terrore erano i primi sintomi della malattia: uguale alla peste per
la prontezza e l'estensione de' suoi guasti, la superava nella durata
del pericolo e per lo stato di debolezza e di spossamento cui trovavansi
ridotti coloro che non morivano. Alcuni perivano lo stesso giorno in cui
cadevano infermi, altri, come accadde allo storico Morena, dopo lunghe
sofferenze. Morena si sentì assalito dalla febbre, ottenne di ritirarsi
dall'armata, e si fece trasportare in lettiga nelle vicinanze di Siena,
ove morì dopo due mesi di languore. I più distinti personaggi
dell'armata e dell'Impero caddero vittime di tanto infortunio.
L'imperatore perdette suo cugino Federico duca di Rotemburgo figliuolo
di Corrado, Guelfo duca di Baviera, Rinaldo suo arcicancelliere
arcivescovo eletto di Baviera, i vescovi di Spira, di Liegi, di
Ratisbona, di Verden, i conti di Nassau, d'Altemont, di Lippa, di
Sultzbach, di Tubinga, più di due mila gentiluomini, ed un numero di
soldati proporzionato a così illustri vittime[186].
[186] _Contin. Acerbi Morenae p. 1153, 1155. — Vita Alex. III, p.
459. — Otto de Sancto Blasio Chron. c. 20, p. 878. — Conrad. Abbas
Usperg. Chron. p. 294._
Questa terribile epidemia fu il colpo più funesto alla causa
dell'imperatore. La perdita di una floridissima armata senza combattere
lo affliggeva assai meno dello scoraggiamento universale de' suoi
sudditi, del giudizio celeste che sembrava aver rovesciato sopra di lui
e sopra i suoi partigiani le disgrazie provocate dalle scomuniche di
Alessandro. I suoi antichi commilitoni, che l'onore e l'affetto verso la
sua persona tenevano sempre a lui vicini, quelli che del 1161
vergognaronsi di lasciarlo in mano degl'Italiani e spontaneamente
vennero a soccorrerlo con una potente armata, erano periti: i due capi
delle case guelfa e ghibellina, ch'egli sapeva mantenere amici al campo,
erano caduti ugualmente vittime della fatal malattia, come pure
l'arcivescovo di Colonia che da molti anni governava per lui la Toscana
e teneva in dovere gl'Italiani. Tutto perdeva in un istante.
Federico oppose il suo coraggio a tante sventure: confidava gli ammalati
della sua armata ai Romani, che, per assicurarlo delle loro cure verso
quegl'infelici, gli davano alcuni ostaggi. Dopo di che, radunando tutti
gli uomini capaci di portar l'armi, s'incamminò verso più salubri climi.
Attraversò egli la Toscana e lo stato lucchese, e penetrando le Alpi
Apuane, condusse gli avanzi della sua armata in val di Magra. Non aveva
in questo viaggio toccato il territorio della confederazione lombarda,
ed era lontano da Pavia soltanto sessanta miglia, ove poteva recarsi
senza avvicinarsi ad alcuna città. Quella di Pontremoli che non aveva
preso parte nella guerra e che non troviamo dopo unita alla lega, gli
rifiutò il passaggio. Quantunque mal fortificata, Federico non credette
di poter ottenere colla forza ciò che veniva negato alle sue preghiere.
Chiuso tra il mare e le montagne omai disperava di poter sottrarsi a
tanto pericolo, quando gli venne incontro il marchese Malaspina, il
quale conducendolo per le strette gole delle montagne de' suoi feudi, lo
ridusse senza incontrar nemici fino a Pavia, ove giunse alla metà di
settembre.
Colà Federico convocò subito una dieta, ordinando ai suoi vassalli
d'andarvi con tutte le milizie di cui potevano disporre; ma il piccolo
numero degl'intervenuti lo convinse dell'abbassamento della pubblica
opinione. I deputati di Pavia, di Novara, di Vercelli e di Como, il
marchese Obizzo Malaspina, il conte di Biandrate, Guglielmo marchese di
Monferrato ed i signori di Belfort, del Seprio e della Martesana,
formarono soli l'assemblea. L'imperatore dipinse nel discorso d'apertura
la condotta delle città federate come un'odiosa ribellione, che non
poteva lasciare impunita senza pregiudizio del suo onore; e, gettando il
guanto in mezzo all'assemblea, giurò di castigare la loro insolenza.
Pose quindi al bando dell'Impero tutte le città confederate, ad
eccezione di Cremona e di Lodi, rispetto alle quali, in vista de' grandi
servigi prestatigli in addietro, non volle giudicarne severamente
l'attuale condotta[187].
[187] _Continuator Acerbi Morenae p. 1137._
Nel sortire dall'assemblea marciò, alla testa delle truppe de' vassalli
intervenuti, sulle terre di Milano, devastando quella parte di
territorio che confinava con quello di Pavia, cioè i distretti di
Rosate, d'Abbiategrasso, di Corbetta, di Magenta, ed i paesi posti sulla
riva sinistra del Ticino. Le città confederate, prevenute del decreto di
proscrizione, radunarono ancor esse un'assemblea, nella quale si
obbligarono vicendevolmente a scacciar dall'Italia colui che aveva
voluto ridurle a vergognosa servitù. Fissarono in Lodi un corpo di
cavalleria bresciana e bergamasca; un altro in Piacenza di Cremonesi e
Parmigiani; i quali tosto che seppero invaso dalla truppa imperiale il
territorio milanese si avanzarono di concerto colle milizie di Milano
per attaccarla[188]. Ma Federico non osò di avventurare una battaglia
con gente inferiore di numero ai nemici e di dubbia fede. Egli non aveva
che pochissimi soldati tedeschi, perchè quelli che sopravvissero
all'epidemia, credendo d'essere stati salvati per particolare favore del
cielo, o avevano rinunciato al mondo ed abbracciata la vita monastica, o
languivano ancora negli spedali, o vivevano dispersi nella Germania.
Colle milizie pavesi e comasche non altro proponendosi l'imperatore, che
d'arricchire i suoi partigiani colle spoglie de' villaggi nemici, si
ritirò all'avvicinarsi delle truppe della lega al di là dei ponti che i
Pavesi avevano gettati sul Ticino e sul Po, ed andò a foraggiare sul
territorio piacentino.
[188] _Vita Alex. III, p. 460. — Contin. Acerbi Mor. 1155.-1159. —
Trist. Calchi Hist. l. XI, p. 271._
Continuando lo stesso metodo di guerreggiare tutto l'inverno, non tardò
ad accorgersi che, invece d'agguerrire con queste piccole scaramuccie i
suoi soldati, andava perdendo in faccia ai medesimi tutta la sua
riputazione, non essendo permesso ad un imperatore il retrocedere ad
ogni istante in presenza di coloro ch'egli trattava da ribelli. (1168)
Risolse perciò di passare in Germania nel mese di marzo 1168, ed eseguì
con tanta segretezza la presa risoluzione, che i Lombardi stessi che
militavano sotto di lui, non ebbero sentore della sua partenza che
quando trovavasi già fuori d'Italia nelle terre del conte Umberto di
Savoja. Passando per Susa quegli abitanti lo sforzarono a rilasciare
tutti gli ostaggi che aveva seco presi, e non gli permisero
d'innoltrarsi sulle montagne finchè non ebbero piena contezza, che niuno
dei trenta cavalieri o poco più che lo accompagnavano, apparteneva
all'Italia[189].
[189] _Baron. An. 1168, § 75.-78. Epist. Johannis Saresberensis ad
Sanctum Thomam l. II, ep. 62. In Codice Vaticano._
Il partito imperiale tenuto in piedi soltanto dal coraggio e dai talenti
militari di Federico, cadde affatto dopo la sua partenza. I confederati
ne approfittarono per attaccare il castello di Biandrate, che presero e
distrussero, dopo aver liberati molti ostaggi che v'erano detenuti.
Allora gli abitanti di Novara, di Vercelli, di Como, i feudatarj di
Belforte e del Seprio domandarono caldamente d'essere ammessi nella lega
lombarda, abiurando il partito imperiale[190]. Fecero lo stesso Asti e
Tortona: ed il marchese Obizzo Malaspina, che in principio della guerra
aveva combattuto per la libertà, approfittò della ricordanza degli
antichi servigi, per far dimenticare quelli che aveva di fresco prestati
a Federico, ed entrò anch'esso nella lega lombarda[191].
[190] _Contin. Acerbi Mor. p. 1139._ Qui termina il racconto di
questo storico, che malgrado la sua parzialità ci riusciva molto
utile.
[191] Questo trattato viene riportato dal Muratori nella _diss.
XLVIII, t. IV, p. 263_.
E per tal modo non si mantenevano fedeli al partito imperiale che la
città di Pavia ed il marchese Guglielmo di Monferrato. O sia che i
confederati non si credessero abbastanza forti per ridurli colla forza,
o che le vecchie alleanze di molti di loro ne arrestassero le armi, i
confederati si astennero dall'usare la violenza per sottometterli, e si
limitarono a ridurli in istato di non poter nuocere ai federati,
fabbricando fra loro una città soggetta alla lega, che tagliasse la
comunicazione fra i due territorj. Per colorire questo progetto tutte le
truppe di Cremona, Milano e Piacenza portaronsi al confine dei due stati
tra l'alto Monferrato ed il territorio pavese oltre Po, ed in quella
vasta e magnifica pianura scelsero un luogo fortificato dalla natura al
confluente del Tanaro e della Bormida, due de' più grossi fiumi che
scendono dalle montagne poste alla destra del Po. Questi torrenti di un
andamento affatto irregolare, non presentano da per tutto una linea
insormontabile alle armate, perchè non ugualmente profondi, pure i loro
_guadi_ non essendo frequenti nè stabili, e l'ingrossamento delle loro
acque accadendo ogni anno nella stagione in cui i Tedeschi sogliono
stare in campagna, potevano formare una bastante difesa. Altronde la
terra argillosa di quel territorio e profondamente penetrata dall'acqua,
si oppone in tempo d'inverno alla marcia de' soldati, ed al collocamento
del campo; e nella state gl'immensi strati di ghiaja che i fiumi
lasciano scoperti, privi affatto di cespugli e d'arbusti, oltre
l'insoffribile calore che tramandano quando sono percossi dal sole,
espongono da pertutto ai dardi lanciati dalle mura le truppe che
osassero d'avvicinarsi. In questo luogo distante venticinque miglia
all'ovest-sud-ovest da Pavia, quindici miglia al nord da Acqui,
venticinque al sud da Novara, quindici all'oriente da Asti e quaranta da
Milano, i Lombardi fondarono una città destinata a perpetuare la memoria
del loro coraggio e del loro zelo per la causa della religione e della
libertà; la quale città dal nome del capo della lega, e padre dei fedeli
fu chiamata Alessandria. Per renderla più sicura fu circondata di larga
fossa in cui si fecero entrare le acque dei vicini fiumi; e per farla ad
un tempo potente per ricchezze e per gente, vi traslocarono gli abitanti
de' vicini villaggi di Marengo, Garaundia, Berguglio, Unilla e Solestia;
ai quali costruirono sufficienti case, e permisero di darsi un governo
libero e repubblicano. Gli ammisero inoltre a partecipare di tutti i
privilegi per cui i Lombardi avevano prese le armi, e determinarono il
papa a fondare in favor loro un nuovo vescovado. Dopo un anno gli
Alessandrini misero in campagna quindici mila combattenti di ogni
arma[192].
[192] _Vita Alex. III, a card. Arag. p. 460. — Otto de s. Blas. c.
22, p. 880. — Benv. de s. Georg. Hist. Montifter. p. 345. t. XXIII,
Rer. Ital. — Trist. Calchi Hist. Patr. l. XI, p. 272. — Oberti
Cancel. Ann. Genuenses l. II, p. 324._


CAPITOLO XI.
_Natura della lega lombarda. — Guerre dell'arcivescovo Cristiano
luogotenente dell'imperatore contro le città libere. — Assedio
d'Ancona. — Federico respinto avanti Alessandria, e battuto a
Lignago; tregua di Venezia; pace di Costanza._
1168 = 1183.

Tutti gli affari della lega lombarda prosperavano; l'imperatore era
stato vergognosamente scacciato dall'Italia ed abbassati i suoi
partigiani, e tranne una sola città, ed un solo gentiluomo, avevano
tutti dovuto abbandonare il partito reale ed abbracciar quello delle
repubbliche. Milano e Tortona, che Federico aveva voluto distruggere,
rialzavansi più floride che mai dalle loro ruine; ed una nuova città,
fondata in onta del suo potere, gli chiudeva la marca del Piemonte, la
sola che, dopo la lega della marca veronese, gli rimaneva aperta:
finalmente quantunque egli dividesse tra i suoi figli l'eredità de'
commilitoni che aveva perduti nella fatale impresa di Roma, infiniti
ostacoli incontrava nell'allestimento d'una nuova armata che lo
mettevano fuor di speranza di vincere la triplice alleanza che gli
opponevano la religione, la libertà ed il clima.
Da ambo le parti consumaronsi sei anni in approvigionamenti per nuove
guerre. Momento importante, momento unico nella successione de' secoli,
in cui l'Italia poteva fondare una repubblica federativa; momento
sgraziatamente perduto perchè non produsse che una lega passaggiera, una
semplice coalizione.
La circostanza singolarmente favorevole per formare un governo
federativo è quella di popoli liberi minacciati da potente invasione.
Dove regna la libertà, il principio della forza è l'amor di patria; e
quest'amore non è mai così appassionato, nè ricerca l'anima più
profondamente che allorquando la patria trovasi chiusa entro stretti
limiti, ed entro il ricinto delle stesse mura vi presenta la culla della
vostra infanzia, i testimonj, i compagni, i rivali tra i quali dovete
distinguervi nella carriera che unica vi è aperta, infine l'intero
stato, di cui voi ne dividete la sovranità coi vostri concittadini.
Nelle piccole repubbliche ognuno si sforza di elevarsi fino al più alto
grado cui può giungere l'uomo; e nelle repubbliche federate finchè la
libertà è minacciata da potente nemico, ogni piccolo stato che la
compone spiega tutta l'energia di cui è suscettibile. Non lentezza nelle
deliberazioni, non esitanza nelle misure, perchè un sommo interesse
maggiore d'ogni altro riunisce tutti gli animi. È forza difendersi,
vincere, rispingere l'invasione, spezzare il giogo del dispotismo.
L'entusiasmo, la di cui potenza è sempre superiore a quella d'un
governo, comunque forte si creda, riunisce gli stati separati, e dà un
centro d'azione, un centro di potenza a quell'ammasso di repubbliche che
risguardavasi come sì debole. Le fazioni che sovente dividono le città,
si calmano quando possono riuscir dannose alla indipendenza nazionale; o
se si agitano ancora, i loro movimenti rimangono stranieri
all'amministrazione generale, ed allora poco importa che trionfi l'una
fazione o l'altra, perchè la massa del popolo si dirigerà sempre verso
lo stesso scopo. Le federazioni che mancano d'unione e di forza allorchè
trattasi di conquistare lontane province, fino dalla loro nascita sono
eminentemente energiche per difendere la loro libertà[193].
[193] Il nostro autore avrebbe dovuto avvertire l'enorme
disuguaglianza delle città componenti la lega e la ricchezza del
loro territorio, potentissimi ostacoli al mantenimento di un governo
federativo. _N. d. T._
Se diamo un'occhiata alla storia di tutte le federazioni, non ne
incontreremo una sola che nata non sia nell'istante di dover respingere
l'attacco d'un oppressore; niuna che non abbia trionfato di nemici
infinitamente superiori in numero ed in forze. I re macedoni furono
vinti dagli Ateniesi, il duca d'Austria dagli Svizzeri, Filippo re di
Spagna dagli Olandesi, Giorgio III d'Inghilterra dagli Americani.
L'esempio de' Lombardi è ancora più notabile; non ebbero bisogno d'una
federazione, ma bastò loro una semplice lega mal organizzata per
iscuotere il giogo del più valoroso e potente imperator d'Occidente.
Tanto è vero che ne' piccoli stati in cui il sentimento della patria ha
tutto il suo vigore, l'amore della libertà è un'arma vittoriosa contro
il despotismo.
Una repubblica federativa in Lombardia non poteva trionfare di Federico
Barbarossa che nel modo medesimo con cui trionfò la _società lombarda_;
ma la prima dopo il suo trionfo avrebbe saputo meglio preservarsi dalle
fazioni, dalle guerre senz'oggetto, dalla corruzione, o dalla tirannia:
con una costituzione federativa l'Italia sarebbesi mantenuta libera, e
le sue porte non sarebbero rimaste sempre aperte ai conquistatori che si
fan giuoco della felicità de' popoli.
Ma il concepimento d'una costituzione federativa è una delle più elevate
ed astratte idee che possa produrre lo studio delle combinazioni
politiche. Non è quindi maraviglia che uomini appena civilizzati non
abbiano potuto afferrarla; che uomini che abborrivano il legame sociale
cui erano stati subordinati, uomini che confondevano l'idea della loro
salvezza con quella dell'indipendenza della propria città, non volessero
ad alcun patto limitare questa indipendenza e rigettassero il pensiero
di subordinare alle decisioni di un congresso straniero la pace, la
guerra, le imposte, le spese, nel tempo stesso che ricuperavano appunto
il diritto di regolare da se medesimi tutti questi oggetti. Dobbiamo
compiangerli che non abbiano saputo approfittare più vantaggiosamente
della loro situazione, ma dobbiamo ancora scusarli se non seppero
innalzarsi a quelle idee che sfuggono talvolta alle meditazioni de'
popoli assai più illuminati.
Troppo mancò alla lega lombarda perchè possa risguardarsi come una
repubblica federativa, il di cui governo centrale dirizza le relazioni
esterne, e ne mantiene la dignità; che anzi si troverà mancante,
considerandola solamente come semplice coalizione. Da alcuni atti
originali di adesione alla società lombarda, che ci sono stati
conservati, vediamo che i confederati promettevano soltanto di non far
pace o tregua coll'imperadore e suoi partigiani e di non rallentare la
guerra contro di lui senza l'assenso di tutti[194]; promettendo, se
Federico scendesse ancora in Italia, d'impugnare le armi contro di lui e
contro i suoi aderenti finchè venisse forzato a ripassar in Germania.
[194] _Murat. Diss. XLVIII, p. 265, 266._ — Nella formola del
giuramento trovansi queste parole: _neque pacem, neque treguam,
neque guerram recruditam cum imperatore faciam_.
Niuna convenzione determinava il numero de' soldati che ogni città
doveva all'armata confederata, perchè si suppose che ciascuna
adoprerebbe tutte le sue forze per respingere il comune nemico; che
quando una delle città più esposte agli attentati del nemico chiederebbe
il soccorso delle altre, e si manderebbero tutti i soldati di cui
potrebbero disporre senza pericolo. La lega non pensò pure a formare un
tesoro pubblico, ed i federati non si obbligavano che all'eventuale
contribuzione destinata a rifare i danni della guerra, nel caso che
qualche città, soggiacesse alle armi imperiali.
La lega mancava pure di adunanze regolari, alle quali supplivano
accidentali unioni dei consoli e dei podestà delle città, che adunavansi
per prendere qualche deliberazione in comune, che poi, ritornando alla
rispettiva città, assoggettavano all'approvazione de' loro concittadini.
I membri del congresso avevano il titolo di rettori dell'associazione
delle città, e sceglievano tra di loro un presidente[195].
[195] Giuramento del reggente dell'associazione delle città in
gennajo 1176. _Murat. Ant. It. Diss. XLVIII, p. 269._
Nell'assenza dell'imperatore la lega acquistò maggior consistenza, e
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 09