Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 16

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settarj, cui Raimondo, conte di Tolosa, accordò ricovero in Linguadocca
presso Albi, s'andarono moltiplicando ancora in Italia, ov'ebbero il
nome di _Paterini_, non sarà inutile il dirne alcuna cosa[367].
[366] Si ha ragione di sperare che il sig. Muller celebre storico
tedesco, darà sulla migrazione delle sette riformate grandissimi
schiarimenti, essendo l'argomento delle sue più erudite indagini.
[367] Quasi si dicesse, che si consacrano a soffrire: _pati_. Pietro
dalle Vigne e Federico II danno questa etimologia al loro nome in
una legge pubblica contro i medesimi.
I persecutori dei Pauliciani e degli Albigesi sostennero costantemente
che il fondamento della loro dottrina era il domma dei due principj, che
in ogni tempo ebbe partigiani moltissimi in Oriente; nè sembra affatto
straniero alla religione de' giudei, nè a quella dei cattolici[368]. I
difensori degli Albigesi e sopra tutto i riformatori negarono che i
Pauliciani professassero mai questo domma, ma sarebbe forse assai
difficile lo scolparli da tale errore. I cattolici loro contemporanei,
parlando della loro dottrina, mostrano una troppo raffinata filosofia
orientale, perchè possa credersi inventata da Pietro Valiserniense o da
san Domenico. Gli Albigesi, dicono essi, riconoscono nell'universo due
potenze creatrici, quella del mondo invisibile, ch'essi chiamano il _Dio
buono_, e quella del mondo visibile che chiamano il _Dio cattivo_. E
questo non è altro che il sistema di Manete intorno all'eternità dello
spirito e della materia. Attribuivano al primo il nuovo testamento,
l'antico al secondo; e per provare che l'ultimo era effettivamente
l'opera del Dio del male, davano risalto a tutti i delitti che sono nel
medesimo accennati, e a quelle qualità di Dio geloso, vendicatore e
terribile che gli Ebrei credevano vedere nell'Essere supremo. Non
ammettevano l'incarnazione del salvatore, insegnando che era disceso
soltanto spiritualmente, senza giammai investire un corpo; credevano gli
uomini essere angioli decaduti dalla primitiva loro grandezza, le di cui
anime dopo alcune trasmigrazioni dovevano poi rientrare nell'antica loro
gloria[369]. Tali erano almeno le opinioni di un piccol numero, giacchè
non sembra che la credenza loro fosse uniforme; dal che deve
conchiudersi che lasciavano a tutti la libertà di esaminare la propria
fede.
[368] Forse il nostro autore deferì ad alcune frasi della scrittura
— _Non potestis duobus dominis servire_ ec. — _Spiritus promtus,
caro autem infirma_ ec. — ed alle opinioni volgari intorno agli
spiriti cattivi e simili: ma gli era troppo facile il convincersi
del contrario.
[369] _Duchesne Historiæ Franc. Scriptores t. V. — Petrus
Vallisernensis Hist. Albigensium c. 2. p. 556. — Odericus Raynald.
ann. 1206. § 59., e seguenti p. 118._ Il cattolico anche non
istrutto riconosce e la concupiscenza, sottomessa alla grazia, ed i
demonj creature incapaci di nuocere senza la divina permissione.
Nello stato di corruzione in cui a que' tempi trovavasi la Chiesa
romana, avrebbela esposta a gravi pericoli il permesso di entrare in
troppo minute discussioni. I capi di setta smarriti negli andirivieni di
un'oscura metafisica, ammettevano probabilmente sistemi che derogavano
alla maestà dell'Essere supremo: ma quando volgevano lo sguardo verso la
Chiesa cattolica trovavano troppo aperti abusi da attaccare e troppe
contraddizioni nelle pratiche de' grandi prelati e nelle cose
disciplinari da rivelare. Negando l'autorità de' vescovi, le indulgenze,
il fuoco del purgatorio, i miracoli della Chiesa, la transustanziazione,
il culto della Vergine, la dannazione de' bambini morti senza battesimo,
prepararono la strada alla riforma[370].
[370] _Guido Elnensis Episc. de Haeret. comment. apud Oder. Rayn. §
64. p. 119. ann. 1204._
Grande era il numero de' Patarini o Pauliciani in tutte le città
d'Italia, perciocchè questa era la parte d'Europa meno predominata dalla
superstizione; e perchè i governi popolari non avevano fino allora
permesso che si perseguitassero i cittadini per le loro opinioni. Il
codice Teodosiano aveva bensì decretata la pena di morte contro certi
eretici risguardati come più colpevoli degli altri[371]; ma ne' tempi in
cui tal legge fu tenuta in vigore, i vescovi avevano costantemente
riclamato contro l'applicazione della pena. S. Agostino scriveva a
Donato, proconsole d'Affrica, che s'egli non cessava dal punire gli
eretici colla morte, i vescovi lascerebbero di denunciarli. E quando i
vescovi mostraronsi proclivi allo spargimento del sangue, i principi non
erano più persecutori; e non fu che del 1220, che il successore
d'Innocenzo ottenne da Federico II la prima legge di morte contro gli
eretici, come prezzo della corona che gli aveva data[372].
[371] _Cod. Teod. de Haeret. Lex 9, 34, 36, 38, 43, 44._
[372] _Frid. II, Authenticae Constit. Tit. I, Lex 5.-8._
Non trascurava per altro Innocenzo d'eccitare con calde lettere i
vescovi di Fiorenza, di Prato, di Faenza, di Bologna, a cacciare gli
eretici fuori delle mura; e quando le sue lettere ottenevano l'intento,
non lasciava di felicitarli d'essere entrati sul buon sentiere
dell'eterna salute[373]. Avendo saputo trovarsi alcuni Paterini in
Viterbo, città del dominio della Chiesa, vi si recò egli medesimo, e
fece abbruciare le case degli eretici che avevano colla fuga prevenuto
il suo arrivo. Promulgò in seguito una legge intorno alla pena da
infliggersi a costoro: era la morte[374], che per altro enunciò
copertamente colla frase _che la loro persona sia abbandonata al braccio
secolare_. Dichiarava poi che le loro case si distruggessero, ed i loro
beni divisi tra il delatore, il comune, ed il tribunale che
pronuncierebbe la condanna; e per ultimo che dovessero pure atterrarsi
le case di coloro che osavano dar ricovero agli eretici.
[373] _Innoc. III, Epist. l. IX, ec. — Oder. Ray. ad ann. 1206._
[374] _Dat. Viterb. 9. cal. act. Pontif. an. X. — Ray. ad an. 1207._
E temendo di non bastar solo a contenere la piena dell'eresia, chiamò
due collaboratori in suo ajuto: il primo, italiano, doveva adoperare la
dolcezza e l'esempio; spagnuolo l'altro, lo spionaggio ed i supplicj:
erano questi san Francesco e san Domenico[375][376]. Protestò il papa
d'averli veduti in sogno sostenere sulle loro spalle san Giovanni di
Laterano, e perciò diede loro il carico d'associarsi dei fratelli che
gli ajutassero a sostenere la pericolante fede. San Francesco
raccomandava ai suoi discepoli, allora chiamati fratelli minori, di
ricondurre gli eretici in seno della Chiesa coll'esempio della loro
povertà ed ubbidienza[377]; e san Domenico ordinava più espressamente ai
suoi di predicare contro gli eretici, d'informarsi del loro numero,
della loro credenza e dello zelo de' vescovi nel reprimerli; indi
riferire a Roma tutto quanto verrebbe a loro notizia; ed eccitare i
principi cristiani a prendere le armi contro gli eretici. Un tribunale,
che condannasse direttamente a morte gli eretici, non fu accordato ai
Domenicani che parecchi anni dopo da Innocenzo IV; ma fino dalla prima
loro istituzione si presero il titolo d'inquisitori, val a dire delatori
della fede[378].
[375] _Giovanni Villani Lib. V, c. 24, e 25. p. 143._
[376] L'autore rovescia sopra san Domenico tutta la fierezza de'
meno moderati inquisitori che vennero dopo di lui. Intorno a
quest'argomento possono leggersi la storia dell'inquisizione di F.
Paolo Sarpi, che pure non può cadere in sospetto di parzialità. N.
d. T.
[377] _Antiq. Ital. Maed. Aevi Dissert. LXV._ — Leggasi intorno alla
fondazione di questi due ordini la Cronaca dell'abb. Uspergense a p.
318. Dice che questi due ordini rivalizzavano con quello degli
umiliati, coi poveri di Lione e con altri entusiasti, che pure
avevano tentato di formare anch'essi un ordine religioso sotto la
protezione del papa; ma che, vittime di questa gelosia, furono
perseguitati e bruciati come eretici.
[378] _Istoria civile del regno di Napoli l. XV, c. 4._
L'anno 1203 san Domenico prese per impulso proprio a predicare contro
gli Albigesi; e l'anno 1206 fu spedito dal papa nella Gallia Narbonese,
con ampie facoltà di promettere a coloro che prenderebbero la croce per
l'esterminio degli eretici, tutte le indulgenze riserbate fin allora ai
soli liberatori di Terra santa[379]. Del 1209 Simone di Monfort, sempre
accompagnato dai Domenicani, entrò ne' dominj del conte di Tolosa alla
testa de' crocesegnati. Gli scrittori ecclesiastici di que' tempi ne
esaltano la condotta; tacciono i posteriori ed arrossiscono. Pochi
estratti dei primi non devono sembrare stranieri alla storia delle
nostre repubbliche; facendo chiaramente conoscere l'impulso che il papa
voleva dare alla religione del suo secolo, e gli orrori risparmiati
all'Italia dal libero governo delle sue città.
[379] Vedasi la lettera d'Innocenzo III, per eccitare alla crociata
contro Raimondo conte di Tolosa, presso Oderico Rainaldo all'anno
1208. § 15. p. 161.
«L'anno del Signore 1209, dice Bernardo Guidone[380], il giorno di santa
Maria Maddalena, l'armata crociata contro gli eretici d'Albi, Tolosa e
Carcassona, entrò nelle terre soggette al conte di Tolosa, prese la
città di Bezier e la diede alle fiamme. Nella chiesa di santa Maria
Maddalena, ov'eransi rifugiati i cittadini che prima eransi opposti
all'armata vittoriosa, furono uccise sette mila persone. E ciò era
troppo giusto, perchè avevano ricusato al proprio vescovo di consegnare
all'armata tutti gli eretici che trovavansi nelle loro mura.» Di fatti
la più parte di coloro che venivano trucidati in tal maniera, erano
cattolici. In un consiglio di guerra i crociati avevano domandato come
sarebbersi potuti distinguere i cattolici dagli eretici, onde
risparmiarli. Rispose Arnoldo, abate di _Citeaux_: «Colpite tutti, il
Signore conoscerà bene i suoi fedeli!» ed il massacro fu
universale[381].
[380] _Vita Innocentii III, ex MS. Bernardi Guid. Scrip. Rer. Ital.
t. III, p. I. p. 480._ — Lo stesso racconto viene confermato da
Amalrico Augerio. _Vita Innoc. III, t. III. p. II. p. 379._
[381] _Cæsarius l. V, c. 21. ap. Raynald. ad ann. 1209._
«L'anno del Signore 1211, il conte di Monfort, l'atleta di Cristo,
assediò coll'armata crociata il forte castello di _Vaure_ nella diocesi
di Tolosa, ove si erano rinchiusi molti eretici; e l'ebbe a patti, dopo
essersi coraggiosamente battuti d'ambe le parti. Avendovi trovati circa
quattrocento eretici perfetti che non vollero convertirsi, il principe
cattolico li fece consumare il giorno dell'Invenzione di Santa Croce col
fuoco materiale, destinandoli così all'eterno che deve divorarli.
Aymerico, nobile signore di Monreale e di Lauriat, che con altri
gentiluomini aveva presa la difesa di questo castello, fu condannato ad
essere appiccato dallo stesso conte, che fece morire sotto la scure più
di novanta gentiluomini, e gettare in un pozzo e ricoprire di sassi
Geralda signora del castello, eretica, e sorella d'Aymerico[382].»
[382] _Vita Innoc. III, ex MS. Bern. Guid. p. 482. Vedasi pure Petri
Monoeci Vallium Cernaii, seu Vallisernensis Hist. Alb. apud Duchesne
Hist. Franc. Sc. t. V, c. 52._
In mezzo a tali massacri che rinnovavansi ogni giorno, col di cui
racconto non rattristerò più a lungo i miei lettori, san Domenico spiegò
più manifestamente il suo carattere. Passava egli senza guardia a
traverso di un paese abitato dagli eretici, e dove aveva fatto spargere
molto sangue. Tutto ad un tratto vien colto in mezzo da costoro: «non
hai tu timore della morte? gli dissero: che farai tu allorchè noi ti
avremo preso? Allora l'atleta del Signore (tale è il racconto fattone
dal Beato Giordano suo compagno, che ne scrisse la vita), infiammato
d'ardore per il martirio, gli rispose: in tal caso vi pregherei di non
terminare troppo presto il mio supplizio; di non uccidermi subito sotto
i vostri colpi, ma poc'a poco e successivamente; di mutilare ad uno ad
uno i miei membri e pormeli innanzi agli occhi; vi pregherei inoltre di
cavarmi gli occhi, e di permettere allora che il mio corpo così mutilato
si ravvolgesse entro il proprio sangue fino all'istante in cui
credereste di uccidermi[383].» In tal modo quest'uomo intrepido
rivolgeva la sua feroce immaginazione sopra di se medesimo,
compiacendosi dell'aspetto del proprio dolore, come di quello degli
altri. Pure una così strana inchiesta parve atto di mirabile costanza
agli stessi Albigesi, e lo lasciarono in libertà di proseguire il suo
viaggio.
[383] _Vita san. Dom. a B. Jordano l. I, c. 8. — Ray. ad ann. 1209.
§ 3. p. 152._
L'ultimo più notabile avvenimento del pontificato d'Innocenzo III fu
l'assemblea del quarto Concilio ecumenico di Laterano. L'anno 1215, nel
mese di novembre, settant'uno metropolitani e quattrocento vescovi, più
di ottocento abati e priori di monasteri, adunaronsi in Roma sotto la
sua presidenza per deliberare intorno agl'interessi della Chiesa.
Quest'adunanza parve che adottasse tutte le viste ed i sentimenti del
pontefice che la presedeva. Si condannarono gli errori de' Pauliciani e
quelli d'altri oscuri eretici che disputavano intorno alla Trinità; fu
confermata la preferenza data da Innocenzo a Federico II, sopra Ottone
IV, e per ultimo sanzionò questo concilio la recente obbligazione
imposta ai fedeli dell'uno e dell'altro sesso di confessare almeno una
volta all'anno i proprj peccati ad un sacerdote[384][385].
[384] _In Canon. 21 e 22. Concil. Labbei. — Ray. 1215. § I, p.
219.-222._
[385] Leggansi intorno a quest'argomento gli autori cattolici, e tra
questi Fleury _stor. Eccles._ all'anno 1216. _N. d. T._
Terminato il concilio, Innocenzo III si mosse del 1216 alla volta della
Toscana per rappacificare i Pisani ed i Genovesi, onde valersi di loro
nella difesa di Terra santa; ma giunto a Perugia, s'infermò gravemente,
e nel giorno 6 luglio cessò di vivere. Siccome gli scrittori
ecclesiastici hanno il privilegio di seguire oltre la tomba i loro eroi,
possiamo prendere da loro un curioso aneddoto, che malgrado il sommo
rispetto che gli professavano, ci hanno conservato d'Innocenzo III. Era
appena morto quando la sua anima, circondata da una orrenda fascia di
fuoco, apparve a santa Liutgarde. «Io sono papa Innocenzo, le disse, e
per tre motivi avrei meritata l'eterna dannazione, se l'intercessione
della Beata Vergine, in onore della quale ho fabbricato un monastero,
non me n'avesse liberato: soffrirò invece il tormento che tu vedi fino
al giorno del giudizio: per raccomandarmi alle benefiche tue preghiere e
delle tue sorelle in Gesù Cristo, io sono apparso a te:» dette queste
parole, scomparve. «Sappia il lettore, soggiunge Tomaso Cantipratense,
biografo della Santa, che Liutgarde ci ha rivelati questi tre titoli: ma
che per il rispetto dovuto a così grande pontefice, non abbiamo voluto
indicarli[386].» Forse il lettore troverà Innocenzo colpevole ben più
che di tre delitti in faccia alla divina Maestà; che più misericordiosa
di santa Liutgarde e di san Domenico, non lo avrà per la sua grazia
condannato alle pene di molte migliaja d'anni.
[386] _Thom. Cantip. Vita Liutgardæ Virginis l. II, c. 7. apud
Surium, t. III, die 16. Jun. — Rayn., 1216. § II._


CAPITOLO XIV.
_Digressione intorno alla quarta crociata[387]. — Conquiste
delle repubbliche italiane in Oriente._
[387] La prima crociata è quella di Gotifredo di Bouillon l'anno
1096; la seconda quella dell'Imp. Corrado e di Luigi VII, l'anno
1148; la terza quella di Federico Barbarossa, Filippo Augusto e
Riccardo cuor di leone l'anno 1189: ma di mezzo a queste grandi
spedizioni, altre armate crociate passarono in Oriente, motivo per
il quale alcuni storici chiamano la presente la quinta crociata. _N.
d. T._

Il pontificato d'Innocenzo III è famoso per le guerre sacre ch'egli
provocò, facendole promulgare dai predicatori. Mentre alcune armate
cattoliche soffocavano nelle province occidentali e presso gli Albigesi
i primi germogli dell'eresia e dello spirito d'indipendenza, altre
ugualmente condotte da predicatori cristiani sottomettevano al poter
papale il patriarca dell'Oriente, il più antico rivale della sede
romana, e la chiesa greca, che fino dalla metà del secolo XI i Latini
avevano colpita d'anatema siccome infetta d'eresia[388].
[388] Sentenza pronunciata contro i Greci il 16 luglio del 1054.
Vedi Collectio concil. _t. XI, p. 1457.-1460_.
Se la prima di queste guerre religiose richiamò a se un istante la
nostra attenzione, soltanto perchè Innocenzo III l'adoperò come
stromento per istabilire la sua monarchia temporale, e quel potere de'
papi che doveva alternativamente appoggiare le repubbliche ed
opprimerle; la seconda appartiene assai più, e direi quasi
essenzialmente alla nostra storia, poichè l'acquisto di Costantinopoli
non fu meno l'opera di Venezia, che degli altri Latini assieme riuniti;
e mentre questa fiera signora dell'Adriatico attaccava i Greci, Pisa li
difendeva, e finalmente le tre repubbliche marittime d'Italia ebbero
parte nella divisione dell'impero d'Oriente.
Ma questa spedizione di tanta importanza è stata già descritta da tutti
gli storici delle crociate, e da tutti quelli di Costantinopoli; e ciò
che più monta, da Gibbon[389]: e dopo che questo ammirabile scrittore ha
presentato drammaticamente, ma con tutta verità e con profonda
erudizione, il quadro di un'epoca della storia, difficile riesce, senza
dubbio, il richiamare sugli stessi avvenimenti l'attenzione del lettore.
Ciò null'ostante ho seguito l'esempio di Gibbon, attingendo, com'egli ha
fatto, agli scrittori originali, e non copiandoli: e la conquista di
Costantinopoli considerata sotto i rapporti che la legano alla storia
veneziana, si mostrerà in parte sotto un punto di veduta affatto nuovo.
[389] _Decline and fall of the Roman Empire c. 60.-61._
Dopo la fondazione di Costantinopoli il governo di questa capitale e del
suo impero era sempre stato puramente dispotico e non monarchico,
secondo il liberale significato dato dalle moderne nazioni a questo
vocabolo. Giammai veruno spirito di libertà, o nazionale o di corpo,
aveva per un solo istante fatto ostacolo ai criminosi arbitrj del poter
reale, nè pensato forse che si potesse tener in bilico il solo
onnipotente volere del governo. Abbiamo già osservato come gl'Italiani,
dopo avere scosso un'eguale potere, avevano fatto acquisto di nobili e
generose idee; mentre ai tempi d'Innocenzo III, un governo invariabile,
sempre regolare ed apparentemente incivilito esercitava già da otto
secoli l'uniforme sua influenza sui Greci. Il despotismo degl'imperatori
di Costantinopoli, sempre intero e sempre favorito da tutte le
circostanze, è una compiuta incontrastabile prova dei naturali e
necessarj effetti del più pessimo governo.
Infatti potrebbersi impugnare gli esempj delle torbide dinastie fondate
colla forza delle armi, perchè la violenza della loro origine trae
sempre seco un'eguale violenza, che l'accompagna finchè dura; perchè i
soldati che fecero il loro monarca possono ancora disfarlo; e perchè
finalmente la sovranità confidata una volta alla forza brutale, non può
giammai impiegarsi con discernimento al comune beneficio. L'autorità di
Cesare in Roma fu tutta militare; ma Costantino trasportando la sede
dell'impero nella sua nuova città, tolse lo scettro di mano ai soldati;
il despotismo greco fu una costituzione civile; e quando la corona fu
trasferita dall'una all'altra famiglia, lo fu per gl'intrighi del
palazzo, e non col mezzo de' clamori e dell'ammutinamento delle armate.
Potrebbesi pure impugnare l'esperienza d'una nazione barbara ed
ignorante, che giammai non avesse riflettuto intorno allo scopo delle
civili società, ed il di cui capo non avesse mai pensato che il suo
interesse è legato a quello del popolo. Ma i Bizantini avevano raccolta
la sapienza di tutto l'universo, l'immensa eredità della esperienza di
tutte le antiche repubbliche, di tutte le antiche monarchie. Erano tra
le loro mani i libri di tutti i filosofi greci e romani, e quelli delle
più moderne scuole apertesi ai tempi di Adriano e degli Antonini, colle
memorie delle dinastie dell'Asia e dell'Egitto, ch'ebbero regno nelle
stesse province del loro impero. Giammai altri despoti montarono sul
trono con maggiore facilità di riunire una più grande quantità di lumi.
Nè tutte queste cognizioni pratiche andarono neglette o perdute; il
dispotismo greco, per mezzo di felici e rare circostanze, si trovò al
possesso di un bel sistema di giustizia, di un bel sistema
d'imposizioni, i quali risparmiarono ai sudditi dell'impero molte
private sofferenze. La giurisprudenza di Giustiniano è forse, fino a'
nostri giorni, la più equa e meglio ordinata legislazione. Il sistema
delle imposte stendevasi a tutti i ranghi, ad ogni genere di ricchezze,
e procurava allo stato le maggiori entrate possibili, proporzionatamente
alle somme che pagavansi dai sudditi.
Niun governo può esistere indipendente dalle circostanze esteriori o
accidentali della nazione, ed i partigiani del despotismo potrebbero
confutare le conclusioni che si deducessero contro di loro coll'esempio
dell'impero greco, se questo impero fosse stato così vasto da non
permettere alcun legame tra i suoi abitanti, ristretto in modo di non
avere bastanti forze per difendersi; se fosse stato circondato da troppo
bellicose o troppo potenti nazioni per poter loro resistere; se i
cittadini avessero affatto perduto ogni carattere militare; se fossero
stati poveri in modo di non poter pagare le imposte; finalmente se una
nazionale inimicizia gli avesse alienati dal loro proprio governo. Ma
l'impero greco, quando si divise dall'occidentale, era più vasto, più
ricco e più popolato di quel che lo sia mai stato l'impero di Carlo
Magno, ed essendo le antiche conquiste di cui era formato andate in
dimenticanza, il corpo intero della nazione parlava lo stesso idioma, e
l'abitante della Siria risguardavasi come un cittadino della Tracia. I
successi ottenuti dalle barbare nazioni che lo attaccarono non devono
illuderci intorno alle loro forze, che tutte insieme non pareggiavano la
popolazione o la ricchezza del solo impero greco; la loro arte militare,
la loro disciplina, le loro armi non erano altrimenti paragonabili a
quelle de' Romani; tra le varie orde di barbari che uscirono dalla
Tartaria, dalla Persia, o dall'Arabia per movere guerra ai Greci, non
eravi alcun popolo che possedesse quel valore fermo ed ostinato, che i
Galli ed i Germani opposero invano alle romane legioni. Non eravi alcun
popolo abbastanza istrutto delle cose politiche per sapere trattare
alleanze, e combinare contro Costantinopoli una pericolosa colleganza;
veruno che tentasse di corrompere i sudditi dell'Impero e di eccitare la
ribellione nel suo seno; veruno che coll'esempio di un prospero governo,
o per mezzo de' principj sui quali si fondasse, facesse crollare i
fondamenti dell'autorità de' Cesari. Il valore militare era, a dir vero,
quando si divise lo stato di Roma, già venuto meno per la lunga durata
del precedente despotismo; ma in sul cominciare di questo despotismo,
era ancora nel suo pieno vigore; ed anche dopo Costantino, le legioni
romane, capitanate da Giuliano, mostrarono che l'antico valore non era
spento. Finalmente il ritorno della sovrana autorità tra le mani dei
Greci, era per essi come una vittoria nazionale, che doveva attaccarli
al loro monarca. Tutto prometteva all'Impero greco una costante
prosperità, se il despotismo era mai capace di renderla stabile.
Non è qui bisogno di tener dietro alla vergognosa storia de' monarchi di
Costantinopoli ed ai deboli intrighi della loro corte, per sapere a qual
punto di avvilimento questo governo, tanto favorito dalle circostanze,
aveva ridotta la razza umana: basta osservare cosa fosse l'Impero greco
quando i crociati risolsero di conquistarlo; senza armate, senza flotte,
senza tesori, senza coraggio, senza talenti; non contava un solo
generale che avesse saputo meritarsi la stima de' soldati, quantunque
l'Impero si trovasse sempre impegnato in guerre civili e straniere. Nel
lungo corso di dieci secoli non produsse una sola opera scientifica o
letteraria che s'innalzasse al di sopra della mediocrità, sebbene siansi
sempre più o meno coltivate le lettere, e che i Greci fossero
intimamente persuasi d'essere i soli al mondo capaci di scrivere, e che
senza di loro tutti i popoli da essi chiamati barbari sarebbero
condannati a perpetua obblivione[390]. Ogni energia era talmente spenta
ch'erano perfino cessate le dispute religiose; ed i sofisti greci non si
occupavano più delle interminabili loro controversie; e dopo l'ottavo
secolo niuna nuova eresia aveva turbata la tranquillità di quella
Chiesa[391]. Un'altra prova di questo indebolimento è che i Greci
avevano rinunciato ad ogni commercio straniero, malgrado la superiorità
delle loro ricchezze, malgrado i sommi vantaggi de' loro porti e delle
loro posizioni, e malgrado l'esclusivo possesso lungo tempo conservato:
erano i repubblicani d'Italia, che stabilitisi tra di loro, ne facevano
tutto il traffico. I Greci contenti del commercio spicciolato e delle
manifatture che non richiedevano l'occupazione d'alcuna facoltà
dell'anima, e dove gli uomini potevano agire come semplici macchine,
abbandonavansi ad una profonda mollizie. I piaceri sensuali ed il riposo
erano i soli oggetti dei loro desiderj: essi ignoravano perfino
l'esistenza del punto d'onore, ed erano diventati insensibili alla
vergogna[392]. Questo carattere nazionale verrà bastantemente sviluppato
quando li vedremo alle mani coi Latini.
[390] Niceta quando fu presa Costantinopoli non volle più scrivere
la storia, per vendicare la sua patria offesa dai barbari, e perchè
il loro nome non passasse alla posterità. _Nicetas Choniates in
Murzuflum, c. 6. Edit. Venet. p. 307. a_
[391] _Gibbon decline and fall, c. 54. ad init._
[392] _Nicetas Chron. Constant. status. p. 309. a b_
Le cronache delle città marittime d'Italia ci somministrano poche
notizie intorno alle colonie stabilite dai loro cittadini in
Costantinopoli o in altre città dell'Oriente: queste colonie
governavansi da se medesime, nominavano i propri ufficiali senza
riceverli dalla metropoli; e qualunque si fossero la popolazione e la
ricchezza loro, non potevano ritenersi appartenenti allo stato. Quindi
gli storici nazionali diedero pochissima importanza alle guerre de'
privati veneziani e pisani nell'altra estremità dell'Europa, comechè le
conseguenze che ne derivarono siano ai nostri tempi risguardate con
sorpresa; mentre le continue guerre de' Pisani e dei Genovesi, che hanno
più che altro l'aria di pirateria, attiravano potentemente tutta
l'attenzione delle loro città.
Già da molto tempo, i Veneziani, siccome più vicini alla Grecia, avevano
ottenuti grandissimi vantaggi commerciando colla medesima; e per
compensare i beneficj di cui godevano, somministravano le loro flotte
agl'imperatori di Costantinopoli per valersene nelle guerre di mare; ma
da cinquant'anni in qua questa buona armonia erasi non poco alterata. I
Veneziani troppo fidando al proprio coraggio, non dissimulavano il loro
disprezzo per la viltà greca, e vendicavansi colle armi alla mano de'
più leggeri insulti che loro fossero fatti.
Dopo l'assedio di Corcira, nel quale i Greci ed i Veneziani avevano
combattuto assieme sotto gli stessi stendardi, Manuele Comneno fu
costretto di calmare la subita collera degli ultimi con umilianti
sommissioni[393]. Ciò era accaduto del 1152, ma nel 1169 lo stesso
imperatore, irritato senza dubbio da recenti offese, li fece tutti
imprigionare nel medesimo giorno, assicurandosi delle loro proprietà in
tutti i porti de' suoi stati. Non furono tardi i Veneziani a
vendicarsene, devastando con una flotta di cinquanta galee l'Eubea, Chio
ed altre isole, e forzando l'imperatore a domandare la pace, ed a
promettere in compenso de' beni confiscati che non poteva restituire, il
pagamento di ragguardevole somma. Una grande popolazione umiliata da un
pugno di gente non può non sentire per questi valorosi un odio eguale al
terrore che la comprese. Quantunque i Veneziani, stabiliti a
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