Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 11

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allestire un alloggio. All'indomani mattina il papa montò sulle galere
siciliane, e coll'accompagnamento degli ambasciatori di quella corte, e
dei rettori delle città lombarde, venne a sbarcare sulla piazza di S.
Marco. Nel tempo stesso il doge Ziani, il patriarca, il clero ed il
popolo di Venezia condussero colle loro galee sulla stessa piazza
l'imperator Federico, il quale, vedendo il pontefice, si sciolse il suo
mantello, e prostratosegli avanti gli baciò i piedi. Dopo quest'atto
ricevette il bacio di pace, e quindi entrarono insieme in chiesa, ove il
popolo intuonò il _Te Deum_[232]. Terminato il divino ufficio, e
rivocata la scomunica fulminata contro il monarca ed i suoi sudditi,
Federico condusse il papa al suo cavallo, e gli tenne la staffa; indi
ricevette la briglia dallo scudiere, e preparavasi a far le veci di
questo, ufficiale in conformità del ceremoniale cui eransi sottomessi i
suoi predecessori; ma il papa vedendo che la strada che doveva ancora
fare non era breve, lo dispensò da così umiliante formalità[233]. In una
privata visita ch'egli ricevette il successivo giorno, i due capi
dell'Impero e della Chiesa felicitaronsi a vicenda della loro
riconciliazione[234].
[232] _Baron. §. 98 et 99 — Romual. Saler. Chron. t. VII, p. 231._
[233] _Vita Alexan. III. a Card. Arag., p. 471._
[234] Tra i prelati scismatici ch'entravano in tal epoca in seno
della Chiesa, contavansi i vescovi di Padova, Pavia, Piacenza,
Cremona, Brescia, Novara, Acqui, Mantova e Fano, che quasi tutti
tenevano le parti dell'imperatore, perchè le loro gregge, con cui
erano poche volte d'accordo, seguivano il partito della Chiesa.
Resa per tal modo la pace all'Italia, si sciolse il congresso di
Venezia, ed il papa si ritirò nella piccola città d'Anagni ove dopo le
turbolenze di Roma aveva stabilita la sua residenza. Ne' primi mesi del
1178, ricevette una deputazione di quel senato che lo invitava a
riprendere il governo della sua greggia, ed a rientrare nella sua
capitale. Ma perchè il papa non ardiva darsi in mano del popolo senza
che la sua persona venisse assicurata da ogni molestia, si convenne che
i senatori giurerebbero in mano del papa fedeltà alla chiesa di S.
Pietro, pel consueto omaggio; che gli ritornerebbero i diritti di
suprema signoria, e prometterebbero di non attentare alla sua libertà,
nè a quella de' cardinali suoi fratelli. Poichè queste condizioni furono
accettate da ambo le parti, i senatori si presentarono al pontefice con
tutti i magistrati di Roma, e lo accompagnarono pomposamente in
città[235].
[235] _Vita Alex. III, p. 475._
Anche Federico aveva abbandonata Venezia, e, dopo aver visitate le città
toscane che avevano per lui combattuto con tanta fedeltà, passò a
Genova, e di là per il Monte Cenisio ne' suoi stati di Germania e di
Borgogna.
I sei anni della tregua si consumarono in trattati di più stabile pace,
i quali per altro non distoglievano Federico dal tentar la fede dei
popoli confederati, staccandoli dalla lega l'un dopo l'altro, e facendo
separate paci. Poco dopo proclamata la tregua, ammise a segrete
conferenze alcuni gentiluomini trivigiani legati alla confederazione,
da' quali ricevette un giuramento di cui rimase segreto l'oggetto. Il
popolo di Treviso n'ebbe sentore, e prese le armi contro di loro quando
tornavano in città, volendo che come traditori della patria e spergiuri
fossero condannati ad ignominiosa morte. I consoli trovaron modo di
conoscere il trattato stipulato da questi gentiluomini, e ne diedero
parte alla dieta della lega, la quale avendo dichiarato manifesto il
tradimento, condannò i colpevoli a severo castigo, e pensò a
precauzionarsi contro i maneggi della fazione imperiale[236].
[236] _Vita Alexan. III. p. 473._
Non perciò ottenne di sventarne tutte le trame. In febbrajo del 1183,
Federico rinnovò il trattato che aveva precedentemente conchiuso col
popolo di Tortona, dandogli la più grande pubblicità, onde avvertire le
altre città confederate che, prevenendo la pace generale, potevano da
lui sperare vantaggiose condizioni. Con questa carta, che tuttavia
conservasi, Federico promette di non pretendere dai Tortonesi tasse
maggiori di quelle imposte ai Pavesi proporzionatamente alle ricchezze
delle due città; promette d'annullare le infeudazioni accordate in
pregiudizio del popolo, di rinovare la pace tra lui ed i suoi vicini; di
lasciare i castellani del suo territorio dipendenti dal comune,
conservandogli il privilegio del consolato e dei diritti feudali,
siccome lo conserva al popolo di Pavia[237].
[237] _Charta reconciliationis Federici I Aug. cum populo
Dertonensis Urbis. Murat, dissert. XLVIII, p. 289._
Videsi allora staccarsi dalla lega una città che doveva alla lega la
propria esistenza, e che più di tutt'altre doveva esserle fedele.
Alessandria temeva la particolare animosità di Federico contro di lei,
perciocchè discacciato vergognosamente innanzi alle sue mura, egli
risguardava quest'avvenimento siccome un testimonio dell'odio del
popolo, e sembrava risoluto di far abbattere le fortificazioni della
città tosto che terminasse la tregua, e di rimandare i suoi abitanti
negli otto villaggi da cui erano usciti. Per mettersi in salvo dalla sua
collera, e procurarsi anticipatamente i privilegi pei quali gli altri
confederati erano ancora in disputa, i cittadini d'Alessandria
acconsentirono di sottomettersi ad una ceremonia umiliante che doveva
appagare l'orgoglio di Federico. Il quinto giorno degl'idi di marzo del
1183 promisero di sortire tutti dalla città per aspettare al di fuori
delle mura il deputato dell'imperatore che doveva introdurli di nuovo in
città, quasi loro dando una nuova patria, la quale d'allora in poi
chiamerebbesi _Cesarea_. A tali condizioni prometteva loro il diritto
d'eleggere i consoli, di averli sotto la sua protezione, e difenderli
dalle aggressioni dei loro vicini[238].
[238] _Sigonius de Regno, p. 340._ Vero è ch'egli riferisce
quest'avvenimento all'anno 1184 con manifesto errore, imperciocchè
l'anno 1183 la città d'Alessandria fu compresa nel trattato di
Costanza tra le città alleate dell'imperatore sotto il nome di
Cesarea.
Appressavasi intanto il fine della tregua senza che il trattato
definitivo fosse ancora conchiuso. Fortunatamente per la lega, che il
principe che in appresso regnò sotto il nome d'Enrico VI, desiderava che
suo padre nella vicina dieta convocata a Costanza lo associasse alle due
corone di Germania e d'Italia. Rinnovandosi la guerra in Lombardia
temeva che potesse mettersi ostacolo alla promessagli associazione, onde
si adoperò perchè si riprendessero i trattati, ed ottenne
dall'imperatore di far partire per l'Italia quattro plenipotenziari,
Guglielmo vescovo d'Asti, il marchese Enrico Guercio, il fratello
Teodorico e Rodolfo suo gran cameriere[239]. Questi deputati andarono a
Piacenza ov'erasi unita la dieta delle città e convennero intorno ai
preliminari della pace[240]. Dopo ciò indussero i consoli ed i rettori
della lega a seguirli a Costanza, ove in presenza dell'imperatore fa
data l'ultima mano al celebre trattato che porta il nome di questa
città; trattato che per lungo tempo fu la base del diritto pubblico
italiano, ed in conseguenza inserito nel corpo del diritto romano di cui
forma l'ultima parte[241]. Fu firmato dalle due parti il giorno 7 delle
calende di luglio, ossia il 26 giugno del 1183[242].
[239] _Sigonius l. XIV, p. 338._ — Il loro pieno potere presso
_Murat, dissert. XLVIII, p. 291_.
[240] Questi preliminari conservati nell'archivio di Modena furono
impressi dal Muratori nella dissertazione XLVIII, _p. 295. Antiq.
Ital._
[241] _Corpus Juris Civilis ad calcem, liber de pace Constantiæ._
[242] L'imperatore dichiara nel preambolo di questo trattato che la
sua dolcezza e la sua clemenza sono tali, che, quantunque avesse il
potere di castigare i colpevoli, ha voluto perdonar loro e far loro
del bene; che per conseguenza accoglie nell'ampiezza della sua
grazia la società dei Lombardi ed i loro fautori che una volta
offesero il suo impero. Questo è un prendere ben dall'alto le mosse
per accordar poi così importanti concessioni.
L'imperatore cedeva col trattato di Costanza alle città senza eccezione
tutti i diritti di suprema signoria ch'egli possedeva nell'interno delle
loro mura. Loro cedeva ugualmente nel rispettivo distretto tutti i
diritti signorili ch'esse avevano acquistato coll'uso o colla
prescrizione; e nominatamente accordava loro il diritto di levare
armate, fortificare le città e di esercitare nel loro circondario ogni
giurisdizione civile e criminale.
Quando si facesse luogo a contestazioni intorno ai diritti regali
riclamati dai comuni in virtù d'una prescrizione, si convenne che il
vescovo d'ogni città avrebbe l'autorità di nominare gli arbitri da
scegliersi tra i cittadini e gli abitanti del distretto, scevri da
parzialità tanto per l'imperatore che per la città. E qualora questi
arbitri non credessero di poter sentenziare intorno alle controverse
pretese portate al loro giudizio, venivano autorizzati a mutare le
prestazioni contestate contro l'annuo censo di due mila marche
d'argento, che, volendolo l'equità, potrebb'essere dall'imperatore
ridotto a minor somma.
Furono annullate tutte le infeudazioni fatte dopo la guerra in
pregiudizio delle città, e restituite senza frutti e danni tutte le
possessioni apprese. Prometteva l'imperatore di non soggiornare troppo
lungamente in una città o nel suo territorio, onde non arrecarle
pregiudizio; ed acconsentì che le città conservassero la loro
confederazione e la rinnovassero a loro beneplacito.
D'altra parte furono conservate alcune prerogative all'Impero ancora
nell'interno delle nuove repubbliche. Il consolato fu riconosciuto, ma i
consoli dovevano ricevere, bensì gratuitamente, l'investitura della loro
carica da un legato dell'imperatore, quando però in forza di una
costumanza locale non la ricevessero dal vescovo conte della città.
L'imperatore venne autorizzato a stabilire in ogni città un giudice
d'appello, cui potrebbero deferirsi le cause civili per somma maggiore
di venticinque lire imperiali[243]. Questo giudice, entrando in carica,
doveva giurare di conformarsi alle costumanze della città e di non
permettere che una causa rimanesse indecisa più di due mesi.
[243] La lira allora valeva circa lire 63 peso per peso, e lire 25
equivalevano a lir. 1575 d'Italia.
Ogni città doveva giurare di sostenere in Italia i diritti imperiali
rispetto a coloro che non erano membri della lega. Prometteva
all'imperatore di corrispondergli il _fodero_ reale quando entrava in
Lombardia, di ristabilire i ponti e riparar le strade, tanto in
occasione del suo arrivo, che del ritorno, e di preparargli un
sufficiente mercato per l'approvigionamento della sua casa e
dell'armata. Finalmente promettevano tutte le città di rinnovare ogni
dieci anni il giuramento di fedeltà[244].
[244] In questo trattato furono comprese come confederate le città
di Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova,
Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio,
Parma e Piacenza. L'imperadore dichiarava sue alleate Pavia,
Cremona, Como, Tortona, Asti, Cesarea ossia Alessandria, Genova ed
Alba. Si lasciò Ferrara in libertà di dichiarare entro due mesi se
accedeva al trattato, dal qual favore furono escluse Imola, Castro,
san Cassiano, Bobbio, Gravedona, Feltre, Belluno e Ceneda. Venezia
non fu nominata perchè, risguardandosi affatto indipendente
dall'Impero, non volle con questo trattato sottoporsi alla più
leggiere dipendenza.
In tale maniera ebbe fine la lunga contesa della libertà d'Italia; e le
repubbliche lombarde, ch'ebbero fino a tal epoca una precaria esistenza,
furono legalmente riconosciute e costituite.


CAPITOLO XII.
_Ultimi anni di Federico Barbarossa. — Suo figliuolo Enrico VI
riunisce all'Impero il regno delle due Sicilie. — Tumulti
eccitati dalla nobiltà nelle repubbliche italiane._
1183 = 1200.

Dopo la lunga e pericolosa guerra che con tanto valore avevano le
repubbliche italiane sostenuta per la libertà, non gustarono i vantaggi
che loro assicurava la pace di Costanza. Le civili discordie e le
rivalità fra gli altri stati vicini sconvolsero ben tosto la pubblica
tranquillità; l'autorità nazionale cadde in mano di una nobiltà
prepotente, o di sanguinarj tiranni; e più d'una volta il furore delle
fazioni ricondusse volontariamente le città a quella dipendenza, per
sottrarsi dalla quale avevano versato torrenti di sangue.
Un popolo non può vantare una libera costituzione quando il suo governo
non sia contenuto entro giusti limiti da un potere qualunque, che possa
continuamente richiamarlo e sottometterlo al tribunale della pubblica
opinione. D'uopo è che un sentimento di timore comprima le passioni del
governante qualunque volta s'oppongono all'interesse dei governati; ma
l'istituzione di un potere repressivo e forse la più difficil parte
della legislazione repubblicana. Perciocchè se si stabilisce nello stato
un nuovo potere d'un'autorità abbastanza grande per frenare il governo e
per giudicarlo, questo stesso potere diventerà la molla principale del
governo, onde sarà poi necessario di comprimerlo ugualmente perchè non
degeneri in aperta tirannia. Se poi si vuol rendere il popolo
depositario di questo poter compressivo, tostochè avrà l'autorità di
mutare il governo, o di deporre i suoi magistrati, ridurrà la
costituzione ad un'assoluta democrazia, la sua potenza diventerà
tirannica, ed egli sarà il principal nemico della libertà.
Ma in tempo che le politiche combinazioni riescono d'ordinario inutili
per istabilire un equilibrio manutentore della libertà, accade talvolta
che quest'equilibrio sia il risultato d'estranee circostanze, e, per
così dire, l'opera dell'accidente. E per tal modo un sommo pericolo
nazionale, un eminente interesse comune ai governanti ed ai governati ha
potuto alcune volte riunire i loro sforzi per il conseguimento del ben
pubblico. In faccia a questo tacciono le private passioni, le rivalità
non hanno occasione di manifestarsi, il popolo conosce il bisogno di
essere governato da persone che uniscano ai talenti la virtù, e non
accorda la sua confidenza che agli ottimi. Gli amministratori della
repubblica sentono allora il bisogno di meritarsi questa confidenza onde
poter mettere in opera tutta la forza nazionale contro l'imminente
pericolo; allora la più grossolana ed imperfetta costituzione basta per
contenere ne' giusti limiti i governanti e per rendere i cittadini
docili, zelanti, disinteressati. I repubblicani italiani ebbero questi
vantaggi finchè durò la guerra di Lombardia, e li perdettero dopo la
pace di Costanza. Tosto che l'indipendenza delle città fu riconosciuta
dall'imperatore, credette il popolo che fosse venuto il tempo di farsi
render conto del potere dei gentiluomini che avevano fino a tal epoca
amministrati i suoi affari con sommo patriottismo, valore ed
avvedutezza: e quantunque questa nuova diffidenza cadesse sopra uomini
cui tanto dovevano le repubbliche, non si deve però attribuirlo soltanto
allo sviluppo dell'ambizione e della vanità dei plebei, nè accusarli
d'ingratitudine. Cessati i pericoli che minacciavano le città,
gl'interessi de' nobili e del popolo si separarono. I primi non avendo
più di mira la pubblica difesa, eransi di nuovo abbandonati a progetti
d'ingrandimento e d'ambizione. Ad una libertà divisa cogl'ignobili
dovevano preferire un'indipendenza solitaria nei loro castelli; e
desiderando procacciarsi il favore d'una potenza cui non volevano essere
ubbidienti, preferivano l'imperatore al popolo. La quasi assoluta
mancanza di storici contemporanei che scrivessero degli ultimi anni del
secolo dodicesimo, non ci permette di sapere se prima si manifestasse la
gelosia de' plebei, o l'ambizione de' nobili; tanto più che diversi
furono in ogni città i motivi delle prime dissensioni, comechè per altro
in ogni città queste passioni armassero l'un contro l'altro gli opposti
partiti.
Quantunque ne sia incerta l'epoca, sappiamo che dopo la pace di Costanza
i Milanesi fecero alcune mutazioni alla loro costituzione, separando con
maggior precisione i suoi diversi poteri. Nel 1185, Federico Barbarossa
aveva loro accordato il privilegio di nominare il podestà e di
conferirgli coi soli suffragi del popolo il titolo e le prerogative di
conte della loro città[245]. Privarono perciò degli attributi giudiziarj
i loro consoli, dandogli allo straniero podestà, che nominavano ogni
anno per essere nel tempo medesimo il depositario della forza pubblica.
A questo magistrato spettava esclusivamente il diritto d'ordinare
l'esecuzioni capitali, e per insegna di questo _poter di sangue_, che
così allora si chiamava, il podestà era preceduto da un uomo che portava
una spada sguainata. Dopo tal epoca v'ebbero in Milano tre diversi
poteri, dell'arcivescovo, del podestà e dei consoli. Perchè il primo fu
anticamente conte della città, venivano in suo nome pronunciate ancora
tutte le sentenze, benchè attualmente non vi prendesse alcuna parte;
erasi pure conservato all'arcivescovo il diritto di coniare le monete,
di fissare ed alterare il valore della specie; come pure in suo nome e
per suo conto esigevasi un pedaggio alle porte di Milano[246].
Quantunque gli fossero dalle leggi conservate queste prerogative, il
popolo teneva aperti gli occhi sul suo prelato, pronto a scacciarlo
dalla città qualunque volta s'accorgesse che avesse oltrepassati i
limiti dei diritti conservatigli. Il podestà era, più che giudice, il
generale del popolo, in di cui nome faceva la guerra ai nemici
dell'ordine pubblico; ed anco l'amministrazione della giustizia era in
sua mano affatto militare. Per ultimo i consoli erano depositari di
tutti gli altri diritti governativi. In Milano erano dodici, e la loro
adunanza formava il _consiglio di confidenza_[247], cui erano attribuite
tutte le relazioni esteriori dello stato, le nomine degl'impiegati,
l'amministrazione delle finanze, tutte in somma le più importanti
attribuzioni della sovranità. Pretendevano i nobili che il consiglio
avesse il diritto di nominare i consoli dell'anno seguente; e questa
prerogativa fu la prima a risvegliare la gelosia de' plebei, onde si
alterò la buona armonia dei due ordini. Il popolo emanò una legge che
affidava il diritto di eleggere i consoli a cento elettori scelti dal
consiglio generale tra gli artigiani della città, obbligando però questi
elettori a prendere tutti i consoli nel corpo della nobiltà. Non
era dunque ancora il possedimento delle magistrature che si
contrastasse ai gentiluomini; si voleva solamente, che fossero
gl'immediati rappresentanti della nazione. Ma più volte a dispetto
dell'incontrastabile diritto dei cittadini i consoli regnanti
s'arrogarono l'elezione dei loro successori.
[245] _Galv. Flam. Man. Flor. c. 215. Scr. Rer. Ital. XI, p. 655._
[246] _Galv. Flam. Man. Flor. c. 223. Scr. Rer. It. t. XI, p. 657._
[247] _Il consiglio di credenza._
Forse in un modo più preciso e conveniente aveva la repubblica di
Bologna divisi i suoi poteri, comechè non sia facile il precisar l'epoca
della costituzione di cui ci danno notizia i suoi storici[248].
L'autorità sovrana era in Bologna divisa fra tre consigli, i consoli ed
il podestà. La città dividevasi in quattro tribù e quaranta elettori,
scelti a sorte dieci in ogni tribù, eleggevano ogni anno,
rispettivamente nella propria, i cittadini degni di formare i tre
consigli. Tutti i cittadini giunti all'età di diciott'anni erano ammessi
al consiglio generale, esclusi però i bassi artigiani e quelli
ch'esercitavano una vile professione; il consiglio speciale era composto
di seicento cittadini; e quello di confidenza, nel quale avevano luogo
di pieno diritto tutti i giureconsulti di Bologna, di un numero assai
minore. Tutte le decisioni di qualche importanza dovevano ricevere la
sanzione da questi consigli, ma ne era riservata l'iniziativa ai soli
consoli ed al podestà, o per lo meno un cittadino non poteva senza il
loro assenso proporre un progetto e prender parte alla discussione. Il
più delle volte le proposizioni fatte dai consoli si discutevano
soltanto da quattro oratori che avevano l'incarico di parlare a nome del
popolo; e gli altri consiglieri non avevano la parola e davano il loro
voto con palle bianche e nere. A questa influenza dei magistrati sulle
deliberazioni, la nobiltà, in onta d'una costituzione quasi democratica,
andò lungo tempo debitrice della conservazione del suo potere. Il
Ghirardacci, lo storico migliore di Bologna, non ritrovò sicure notizie
intorno al modo con cui eleggevansi i consoli: il podestà nominavasi
ogni anno in settembre in tal maniera. Fra i membri del consiglio
generale e speciale estraevansi a sorte quaranta cittadini, che venivano
rinchiusi assieme, e sotto pena di perdere il diritto d'elezione
dovevano entro ventiquattr'ore aver fatta la nomina colla maggiorità di
ventisette voti. Spesse volte i consigli indicavano agli elettori la
città in cui dovevano prendere il podestà. Questo magistrato non poteva
scegliersi tra i parenti di verun elettore fino al terzo grado, non
poteva possedere beni stabili nel territorio della repubblica, doveva
esser nobile, d'età non minore di trentasei anni, ed avere buon nome.
Fatta la scelta, scrivevasi a nome del comune all'eletto per invitarlo a
venire a prendere possesso della carica che gli era offerta, ed
accettare l'onore che la repubblica gli faceva[249].
[248] _Il Sigonio de Reb. op. omn. t. III, ad an. ed il Ghirardacci
l. II, p. 63_, riportano questa costituzione all'anno 1128. Tale
epoca parmi anteriore assai all'origine di quasi tutte le
istituzioni di cui parlano.
[249] Il Ghirardacci scrive che i consoli ed i pretori governavano a
vicenda la repubblica e talvolta congiuntamente, e che l'ultimo
aveva la stessa autorità dei consoli, ed inoltre le insegne del
potere, cioè il cappello, lo stocco e lo scettro, e che dall'usare
queste insegne di podestà venne ai pretori il nome di podestà. _N.
d. T._
Somiglianti leggi press'a poco erano state fatte dalle altre città
libere: in ogni luogo la costituzione aveva sofferto qualche
cambiamento, e le contrarie pretese dei due opposti partiti che
desideravano introdurvene di più grandi, eransi già apertamente
manifestate. Le generali rivoluzioni dell'Impero tennero alcuni anni
sospesi questi umori, che si svilupparono nuovamente con terribili
sintomi quando gl'imperatori ed i papi, venuti tra loro a nuove contese,
si procacciarono in tutte le città il favore delle fazioni da loro
tenute vive.
Queste rivoluzioni dell'Impero diventano adesso l'argomento delle nostre
indagini; ma è d'uopo ricordarsi che nel campo della storia incontransi
vasti deserti: sono questi i tempi in cui verun sentimento generalmente
diffuso anima i popoli, in cui nessun personaggio d'alta riputazione a
se richiama l'interesse generale; i tempi inoltre ne' quali nessuno
scrittore mediocre lasciò ne' suoi racconti l'impressione di questi
sentimenti, nessuno comunicò alle sue scritture il carattere del secolo.
Dalla pace di Costanza al regno di Federico II, abbiamo uno spazio di
quindici anni affatto deserto. In questo tempo presentaronsi sulla scena
per iscomparire all'istante alcuni personaggi affatto nuovi senza far
sugli animi veruna impressione; uomini inetti che non potevano fissare
l'attenzione de' popoli. Guglielmo II e Federico, Tancredi e suo figlio
Ruggiero, Sibilla vedova del primo, Guglielmo III fratello del secondo;
Enrico IV e Costanza; Lucio III, Urbano III, Gregorio VIII, Clemente
III, Celestino III, si mostrarono un istante per ricadere in una
perpetua oscurità. Il dodicesimo secolo pareva che, terminando,
strascinasse con se tutti i nomi che gli appartenevano, per non lasciare
al nuovo che personaggi nuovi.
Quest'epoca novella ricevette il suo carattere dall'interregno
dell'Impero con cui incominciò: allora fu che le fazioni impiegarono
tutta la loro energia; che i nomi dei Guelfi e dei Ghibellini
diventarono motivi di proscrizione; che le città toscane fin allora
subordinate all'Impero posero i fondamenti della loro libertà,
riunendosi al partito della Chiesa; e che molte di quelle della
Lombardia e della Marca Trivigiana, abbracciando l'opposto, caddero la
prima volta sotto il giogo d'alcuni piccoli ma feroci tiranni.
Dobbiamo perciò chiedere l'indulgenza del leggitore intorno ad aride
ricerche e la sua attenzione sopra fatti complicati che mal si legano
gli uni cogli altri, e che non ci furono tramandati con sufficienti
particolarità per interessarci; ma che non pertanto è necessario di
conoscere, perchè spiegano le rivoluzioni cui diedero origine nel
susseguente secolo.
La storia della casa di Svevia e dei diritti ch'ella acquistò sul regno
delle due Sicilie trovasi essenzialmente legata ai destini di tutte le
repubbliche italiane, perchè alcune atterrite da tanta grandezza
diventarono implacabili nemiche degl'imperatori, mentre le altre, memori
de' ricevuti beneficj, consacrarono i loro tesori, le armi, i cittadini
in difesa del vacillante trono dei monarchi di Germania e di Sicilia.
La storia di certe nobili famiglie che ne' quindici anni che abbraccia
questo capitolo incominciarono a sortire dall'oscurità, minacciando
colle loro querele perfino l'esistenza delle vicine repubbliche, è forse
ugualmente arida, ma ugualmente ancora importante per le conseguenze che
ebbe, essendo usciti più tardi da queste famiglie i tiranni di tante
illustri città.
Questi due oggetti fisseranno dunque pressochè soli la nostra attenzione
fino alla fine del secolo dodicesimo: omettendo di fermarci intorno alle
animosità di alcune città rivali ed alle passeggieri guerre di alcuni
popoli quando non influirono sulla loro sorte, o non furono illustrate
da avvenimenti degni della nostra curiosità.
L'anno dopo la pace di Costanza, venendo Federico in Italia con il
figliuolo Enrico, cui destinava la corona dell'Impero, quelle città, che
avevano più valorosamente contro di lui combattuto, rivalizzarono
nell'onorarlo. I Milanesi tra gli altri nulla omisero per guadagnarsi la
sua affezione, e l'imperatore dal canto suo, dopo avere sperimentata la
debolezza delle comuni già sue amiche, credette di appoggiarsi sopra una
lega più potente procacciandosi l'amicizia de' Milanesi, a' quali
accordava perciò nuovi privilegi e permetteva di rifare la città di
Crema, le di cui mura non eransi più rialzate dopo ch'egli,
ventiquattr'anni prima, le aveva spianate. I Cremonesi che vi si erano
opposti quando la lega lombarda dispiegava tutta la sua potenza, si
offesero gravemente e diedero così aperti segni del loro malcontento
verso l'imperatore per avere, mosso dalle preghiere dei Milanesi,
perdonato agl'infelici Cremaschi, che Federico irritato si pose alla
testa delle milizie di Milano, e, facendo marciare innanzi il Carroccio
del comune, entrò nel territorio cremonese, bruciò molti castelli di
quel popolo ammutinato, e lo forzò ad implorare la sua clemenza[250].
[250] _Sicard. Ep. Crem. Chron. t. VII, p. 602._
Federico era venuto in Italia per trattare il matrimonio di suo figlio
Enrico con Costanza, la più prossima erede della casa normanna che
regnava a Palermo. Questa principessa, figliuola postuma di Ruggiero
primo re di Sicilia, quantunque in età di soli trent'anni, era zia di
Guglielmo II allora regnante. Prevedevasi che questi, benchè ammogliato,
non lascerebbe figli, onde lo sposo di Costanza, Enrico, sarebbe
chiamato alla corona delle due Sicilie ed a quella di Lombardia.
Sembrava con ciò che la casa di Svevia acquistar dovesse una
preponderanza tale, cui non potrebbero resistere nè la Santa Sede, nè le
città libere, nè i grandi feudatarj.
Il regno normanno, nato nel precedente secolo, aveva nel corso di due
sole generazioni cambiato natura e governo. Ruggiero, primo re di
Sicilia, e figliuolo del gran conte dello stesso nome, aveva steso il
suo dominio non solo su tutte le province che formano oggi il regno di
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