Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 19

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patriarca, e danzava e cantava in mezzo ai soldati ubbriachi per
insultare il culto de' Greci. Questi stessi soldati scorrevano in
seguito la città conquistata, vestiti d'abiti pomposi, che avevano tolti
a uomini o a donne della corte, e portando sulle loro teste penne
d'airone, le sole armi dei vinti Greci.
[453] _Nicetas Choniates in Murzuflum. § 4. p. 303._
Mentre i Latini esalavano con pubblici insulti il loro sdegno, che i
soldati svergognavano le matrone, le fanciulle e perfino le vergini
consacrate agli altari; la loro condotta nell'interno delle case non era
meno odiosa. «Lo stesso giorno, dice Niceta, in cui fu presa la città, i
soldati errando per le strade incominciarono ad introdursi nelle case,
ove, dopo essersi impadroniti di tutto quanto loro veniva alle mani, si
facevano ad interpellare i padroni sul conto delle ricchezze che
potessero avere nascoste: agli uni strappavano il segreto a forza di
percosse, ad altri ingannandoli colle promesse, a tutti spaventandoli
colle minacce. Ma tutto ciò che i Greci possedevano, tutto quello che
manifestavano, tutto quello che presentavano ai loro ospiti, era preso:
giammai non si ebbe di loro compassione; giammai non si permetteva di
dividere l'alloggio, i viveri, i beni che pur erano poc'anzi suoi. Erano
senza umanità scacciati dalle loro case[454].»
[454] _Nicetas Choniates Constantini status, § 2. p. 310._
In fatti quasi tutti i nobili, i ricchi, coperti di miseri cenci,
smagrati e deboli, coll'impronta in volto de' sofferti patimenti,
sortirono a piedi dalla città piangendo la loro patria, la loro fortuna
e spesso una figlia nubile, o una giovane sposa loro rapita; e perchè la
condizione loro fosse ancora più crudele, trovavansi sulla strada
esposti agl'insulti de' più abbietti loro concittadini; e questo era
pure un altro indizio della _disorganizzazione_ sociale. Il popolaccio
di Costantinopoli, geloso dei senatori e dei ricchi, invece di unirsi
con loro per difendere la patria, compiacevasi di vederli sventurati; e
la gente di contado, ugualmente cieca, si rallegrava della rovina d'una
capitale che gli aveva dominati tanti secoli[455]. «A noi, scrive
Niceta, altra volta membri del senato, attribuiscono la perdita della
città; essi non temono l'occhio perspicace del Signore; essi che
tradirono noi e la patria, non si vergognano di tanta falsità. Qual vi
può essere oggetto più compassionevole che il delirio e la sventura di
questi uomini stupidi, che non solo non pregano per il ristabilimento
della città, ma che accusano Dio di lentezza, perchè non abbia
sovvertiti assai più presto e noi e la città ed in maniera ancor più
terribile, perchè abbia dilazionata la nostra morte, e mostrato ne' suoi
giudizj il suo amore per gli uomini? Questo popolo non dovrebb'essere
commosso per simpatia de' nostri mali? Noi più non abbiamo città, non
case, non alimenti per vivere; noi che prima eravamo illustrati dalle
nostre ricchezze e dal nostro potere.» Difatti Niceta, sortendo colla
sua famiglia da Costantinopoli, aveva trovato nella Tracia le stesse
disposizioni; di già i paesani riandando le passate memorie, che ne'
lontani secoli in differente governo dava alla Grecia maggior gloria,
volgevano in ridicolo la nudità e la mendicità de' fuorusciti,
chiamandola eguaglianza repubblicana[456].
[455] _Nicetas Choniates in Balduin. Flandrum § II. p. 340._
[456] Ισοπολιτειαν. _Nicetas Const. Status, § 5. p. 313._
Quantunque siavi luogo a credere che molta parte del bottino si mettesse
in comune, pure quando coll'ammasso totale furono pagati i Veneziani, e
che questi ebbero la metà loro spettante, rimase pei Francesi la somma
di 500,000 marche d'argento. Era questo ben più di quanto sarebbe
abbisognato per dissipare la burrasca che da lungo tempo minacciava
Costantinopoli[457].
[457] _Villehard. § 135. p. 42._ In un'altra edizione leggesi
400,000; la maggiore delle due somme equivale a ventiquattro
milioni, con cinquanta mila marche, o due milioni quattrocento mila
dovute ai Veneziani, e la parte di questi, fa montare a 50,400,000
il valor totale del bottino diviso. Altrettanto probabilmente era
andato a profitto particolare. I tre incendj che avevano consumata
più di mezza la città, avevano distrutte altrettante e più
ricchezze, e nella profusione che seguiva il saccheggio, i più
preziosi effetti avevano talmente perduto di valore, che il profitto
de' Latini non equivaleva forse al quarto di quanto costava ai
Greci. E per tal modo Costantinopoli avanti di essere attaccata
possedeva probabilmente per 690,000,0000 di ricchezze.
L'armata crociata passò in seguito ad eleggere l'imperatore. Sei baroni
francesi e sei veneziani furono scelti per farla a norma della
precedente convenzione. Assicurasi che uno de' Francesi indicò come
degno dell'impero il doge Dandolo, di cui ricordò le imprese; ma un
vecchio veneziano, Pantaleone Barbo, prese subito la parola, e facendo
sentire che il primo magistrato di una repubblica libera non poteva
essere nello stesso tempo capo d'una monarchia, diede il suo voto a
Baldovino conte di Fiandra, ed ottenne subito per lui il voto de' suoi
colleghi[458].
[458] _Rhamnusius l. III, p. 136 citato nelle osservazioni
sull'istoria di Villehard. p. 155_, nomina i Veneziani, Vitale
Dandolo, Ottone Querini, Bertuccio Contarini, Pantaleone Barbo e
Giovanni Baseggio. _Dand. in Chron. l. X, c. 3. p. 35. p. 330._
La sola capitale era stata sottomessa, e la debole armata de' crociati,
perduta in mezzo d'un vasto Impero, lungi dal potersi lusingare di
conquistarlo, doveva aspettarsi d'essere oppressa tosto che si
dividerebbe. Pure il consiglio dei Latini si occupò della divisione
delle province fra i conquistatori, ed assegnò in feudo ad ogni
guerriero città di cui appena sapeva il nome. Si eressero in regno per
il marchese di Monferrato Tessalonica e la Tessaglia; l'Acaja fu divisa
in ducati e principati, nomi feudali che feriscono l'orecchio associati
a vocaboli greci; le province dell'Asia furono egualmente assegnate a
coloro che dovevano conquistarle; ma i Latini non vi ottennero mai uno
stabilimento. Malgrado l'anarchia cui la caduta di Costantinopoli dava
in preda tutto l'Oriente, e quantunque i Greci, in cambio di sostenersi,
si trovassero divisi tra sette oppure otto piccoli tiranni, che tutti
pretendevano alla dominazione dell'Impero[459], i crociati non erano
certo in istato di fare conquiste, meno poi di conservarle: le loro
spedizioni nella Tracia e nella Grecia non ad altro servirono che a
disvelarne la debolezza; e la guerra che loro dichiarò Giovaniccio re
de' Bulgari[460] e de' Valacchi li ridusse ben tosto alle ultime
estremità, accrescendo in pari tempo le sofferenze e la miseria de'
sudditi greci. Ma dopo l'assedio così gloriosamente condotto dai
Veneziani, l'Oriente diviene straniero alla nostra storia; e la rapida
decadenza e la totale caduta dell'Impero de' Latini rientrano nella
storia di Costantinopoli. Ciò che soltanto deve ancora occuparci è il
frutto che i Veneziani ottennero dalle loro conquiste.
[459] _Gregor. Arcopolita Hist. c. 4.-9.-etc. Hist. Byzant._
[460] Il nome di Bulgari leggermente alterato da Villehardovin
coll'ommissione d'una sola vocale, ne disvela l'origine d'un epiteto
ingiurioso, che ai tempi delle crociate era nome d'una nazione, ma
d'una nazione rispettabile e feroce.
Il trattato di divisione che doveva farli padroni d'un quarto e mezzo
dell'Impero, giusta il titolo che lungo tempo portarono, è pervenuto
fino a noi[461]; ma i nomi greci sfigurati da barbari geografi, sono a
stento riconoscibili; nè il possesso fu abbastanza lungo perchè tale
geografia potesse rettificarsi[462]. Distinguiamo però tra le province e
le città date loro in dominio Lacedemone, Diracchio, Rodosto, Agios,
Potamos, Gallipoli, Egine, Zacinto, Cefalonia; ma pare che molte città e
province fossero dimenticate dai redattori del trattato di divisione,
che non le conoscevano. L'isola di Candia era stata assegnata al
marchese di Monferrato, Bonifacio, re di Tessalonica; ma egli la cambiò
coi Veneziani con terre più vicine alla sua capitale; e quest'isola che
prese il titolo di regno, diventò in appresso uno de' più importanti
possedimenti della repubblica[463].
[461] _In notis ad Chron. And. Danduli p. 328._
[462] Rannusio, _De Bello Constan. l. IV, p. 162_, si sforza di
rettificare e spiegare questa divisione dell'Impero.
[463] Il cambio fu convenuto il 12 agosto 1204. _Hist. de Costant.
sous les emp. Franc. par Dufresne Ducange, l. I._
Giammai alcuna nazione aveva intraprese conquiste meno proporzionate
alle sue forze. La repubblica di Venezia non possedeva propriamente
allora che la città ed il dogado, e la sua popolazione non doveva
oltrepassare le 200,000 anime. Vero è che da più anni aveva fatte alcune
conquiste in Dalmazia ed in Istria; ma non aveva mai incorporate alla
nazione queste province suddite; e lungi dal potervi trovare generali e
soldati per le sue armate, era in necessità di spedirvi magistrati e
guarnigioni veneziane per contenerli. Frattanto la recente divisione gli
accordava per lo meno sette in otto mila leghe quadrate di territorio e
sette in otto milioni di sudditi. Venezia che ancora non aveva potuto
stendere la sua autorità sulla vicina Padova, ebbe il carico non solo di
sottomettere un paese che poteva solo formare un potente regno, ma
inoltre di difenderlo contro i Turchi, i Bulgari, i Valacchi, e forse
contro i medesimi Latini di Costantinopoli e di Tessalonica, se veniva a
nascere tra loro qualche gelosia.
Dopo una breve deliberazione, la repubblica provò il vivo e profondo
sentimento della sua debolezza. Il senato dichiarò che rinunciava a
conquiste lontane che avrebbero esaurita la nazione, e che non avrebbe
in verun modo potuto conservare; e del 1207 pubblicò un editto che
accordava a tutti i cittadini veneziani il permesso di armare a proprie
spese vascelli di guerra, e di sottomettere per loro conto le isole
dell'Arcipelago e le città greche poste sulle spiagge[464]. Con
quest'editto cedeva loro la proprietà delle conquiste in feudo perpetuo,
riservandosene soltanto la protezione. I mercanti veneziani ne
approfittarono, ed aprendo il loro cuore a nuova ambizione, intrapresero
la conquista delle terre abbandonate. Nella storia di queste guerre
private si mostrano sempre il piccolo numero degli assalitori e la viltà
de' Greci vinti. Con questo titolo Marco Dandolo e Giacomo Viaro
fondarono il ducato di Gallipoli, Marco Sannuto quello di Nasso, il
quale era composto delle isole di Nasso, Paros, Melos ed Erinea, e si
conservò fino al 1570 in cui fu tolto dai Turchi al XXI duca. Marino
Dandolo sottomise l'isola d'Andros; Andrea e Gerolamo Ghisi quelle di
Teone, Micone e Soiros; Pietro Zustinian e Domenico Micheli quelle di
Ceos, Filocolo Navagero quella di Lemnos ch'ebbe il titolo di gran
ducato.
[464] _Dufresne du Cange Hist. de Costant. l. II. — Rhamnus. de
Bello Costant. l. VI, p. 272._
D'altra parte i Genovesi vollero pur fare qualche conquista in paesi
quasi abbandonati al primo occupante. Armarono cinque vascelli rotondi e
venti galee, ed andarono a fondare uno stabilimento nell'isola di Creta
o Candia[465]; ma ne furono ben tosto scacciati dai Veneziani.
S'impadronirono ancora di Modone e Corone nella Morea, poi dell'isola di
Corfù. Pareva che la Grecia bastar dovesse a saziare i desiderj delle
repubbliche marittime d'Italia; ma non potendo i Veneziani soffrire che
i loro emuli vi avessero alcun principato, le spogliarono delle loro
conquiste.
[465] _Nicet. Choniat. in Bald. Flandrum § 10. p. 337._ Gli Annali
di Genova parlano di tali conquiste, come di affari privati d'Enrico
conte di Malta, cittadino genovese, ch'erasi reso padrone di Malta,
che gli serviva per esercitare la pirateria. _Ogerius Panis Contin.
Caffari An. Genuen. l. IV, ad an. 1206, 1209, p. 394.-400._
Se la divisione dell'Impero greco, distruggendo le ricchezze, la
popolazione, ed ogni avanzo della potenza di queste province, le diede
in preda alle invasioni di tutti i barbari del Nord e dell'Oriente; se
dobbiamo considerarla come la principal cagione della distruzione di
quest'Impero operata dai Turchi due secoli e mezzo dopo, ed accusarla
perciò di aver distrutta la civiltà, le lettere e la filosofia in un
paese, che, malgrado la sua corruzione, dava loro asilo; troveremo che
tanti mali non furono compensati dalla limitata potenza reale aggiunta
alla repubblica di Venezia. La saviezza e la moderazione del senato
impedirono che i tesori e la popolazione dello stato andassero a
seppellirsi in lontane province, come vi si perdettero tanti battaglioni
di crociati, e tante nobili famiglie francesi. Ma l'ambizione de'
particolari, cui si abbandonò così vasto campo, costò pure alla nazione
una parte importante de' suoi capitali, e le braccia di molti soldati.
Il commercio e la navigazione che formavano la principale forza dello
stato, furono da molti abbandonati per dedicarsi ad intraprese
cavalleresche; e poco mancò che la divisione di questa preda non mutasse
il carattere nazionale. Probabilmente il governo dispotico delle
province conquistate riuscì dannoso alla capitale, che non tardò a
sentirne gli effetti; per ultimo Venezia perdette ne' Greci utili
alleati che formavano una barriera contro i Musulmani, la di cui
vicinanza costò poscia a Venezia tante ricchezze e tanto sangue. Essa
non conservò lungo tempo le città e province di terra ferma; ma tenne le
isole quattro secoli, che furono cagione di continue guerre coi Turchi.
In tal maniera adunque tutta la gloria acquistata in questa maravigliosa
impresa fu a caro prezzo comperata colle lagrime e la miseria de' popoli
sottomessi, e coll'indebolimento e la corruzione de' vincitori[466].
[466] Congedandomi per lungo tempo dagli storici bizantini,
soggiugnerò alcune osservazioni intorno a quelli di cui ho fatto uso
in questo capitolo. Abbiamo avuta la fortuna di poter esaminare
quattro ragguardevoli autori, quasi tutti contemporanei, cadauno de'
quali scrisse con opposte mire per quattro differenti nazioni.
Niceta, senatore di Costantinopoli, e _grande logoteta_ dell'Impero,
rifugiatosi a Nicea dopo la ruina della sua patria, scrisse la
storia degl'imperatori de' suoi tempi dalla morte d'Alessio Comneno
fino al Baldoino di Fiandra. A fronte della inopportuna sua
eloquenza, della ricercatezza dello stile, e forse anco delle sue
esagerazioni, vuol essere annoverato tra i buoni storici di
Costantinopoli. Le particolari sue sventure, aggiunte a quelle della
sua patria, rendono ancora più interessante la sua storia. Rispetto
a questo storico, ed agli altri che hanno scritto in altre lingue,
mi sono fatto un preciso dovere di esaminare il testo originale, e
di non citare che le mie traduzioni. I miei lettori conoscono oramai
sufficientemente le azioni, il carattere e lo stile di Goffredo
_Villehardovin_, lo storico francese della crociata. Questo valoroso
soldato, l'amico del venerabile Dandolo, e del marchese-re
Bonifacio, nella spartizione dell'Impero orientale fu fatto
maniscalco della Romelia, come prima lo era della Sciampagna: ebbe
in feudo Messinopoli e Masianopoli nel regno di Tessaglia, e suo
nipote dello stesso nome, giunto in Grecia dopo la presa di
Costantinopoli, conquistò il principato dell'Acaja che trasmise alla
sua discendenza. Anche i Veneziani hanno in quest'epoca il loro
storico. È questi Andrea Dandolo discendente del vincitore di
Costantinopoli, e doge anch'egli due secoli dopo. Non abbagliato
dalla gloria della sua patria o della famiglia, riferisce
imparzialmente i più importanti avvenimenti: ma questa sua scipita
imparzialità, che ne fa essere forastieri in Venezia come nella
Grecia, è un difetto forse più spiacevole che le appassionate
esagerazioni di Niceta. La storia di Dandolo viene arricchita da
importanti note, da diplomi e trattati riferiti per intero. Per
ultimo, rispetto alla storia della crociata, l'anonimo autore della
vita d'Innocenzo III ci mette sott'occhio tutto quanto può favorire
gl'interessi degli ecclesiastici. Nel precedente capitolo ci siamo
frequentemente valsi di questa vita, pubblicata la prima volta da
Stefano Baluzio, la quale non arriva che all'anno undecimo
d'Innocenzo. Forse l'autore morì prima del suo eroe: ad ogni modo
sparse molta luce su questo pontificato, e contiene molti documenti
originali, e fra gli altri le lunghe lettere che Baldovino
imperatore di Costantinopoli scrisse al papa per giustificare la sua
conquista e la sua elezione.
Ho citati pochi altri scrittori greci e latini, dai quali ho presi
vari fatti, poichè non volli abusare della sofferenza de' miei
lettori citando nomi di scrittori affatto inutili alla mia storia.
Nel quinto tomo della storia di Francia del Duchesne trovansi
riportate alcune lettere scritte da Costantinopoli dal conte Ugo di
san Paolo e dallo stesso Baldovino, le quali, sebbene nulla
aggiungano di particolare ai fatti raccontati da altri storici, ne
interessano per rispetto di coloro che le scrissero. _Histor.
Francor. Script. t. V, p. 272.-283._ Due moderni scrittori
Rahmnusius, _de Bello Constantinopolitano_, e d'Outreman,
_Constantinopolis Belgica_, cercarono nelle voluminose loro opere di
dare maggiore risalto, il primo alla gloria veneta, l'altro alla
fiamminga.


CAPITOLO XV.
_Stato delle repubbliche italiane. — Guerre civili. —
Rinnovamento della Lega lombarda._
1216 = 1233.

Ottone IV e Federico II disputavansi ancora la corona imperiale quando
venne a mancare Innocenzo III. Federico aveva già sperimentato il
potente patrocinio della santa sede, la quale, finchè Ottone fu il più
forte, lo favoreggiò caldamente; ma dopo la battaglia di Bouvines,
Ottone non essendo più in grado di tenere contro alla crescente potenza
del giovane rivale, il papa dichiarossi nemico del suo protetto, e tanto
Innocenzo III, che Onorio III, rifiutarono, vivente Ottone, anzi fino al
1220, di accordare a Federico il titolo d'imperatore, e di porre sul di
lui capo la corona d'oro, che pure gli avevano promessa.
Se l'interregno che precedette l'elezione di Ottone, aveva resa malferma
l'autorità imperiale in Italia, la lotta tra le fazioni guelfa e
ghibellina, tenuta viva dal papa, opponendo un imperatore all'altro, le
diede l'ultimo colpo. Dall'una all'altra estremità d'Italia tutto era
discordia e guerra civile.
Abbiamo già mentovate in più luoghi le guerre di Lombardia senza per
altro entrare in circostanziati racconti, perchè abbiamo diffidato di
poter dare interesse a guerre sempre simili in ogni loro particolare,
che cominciavano col saccheggio di alcune campagne, e terminavano dopo
pochi giorni con una battaglia tra gli abitanti delle due città nemiche;
guerre nelle quali l'arte era affatto sconosciuta, e nelle quali il solo
valore, sempre adoperato nello stesso modo, decideva della vittoria.
Per quanto si voglia attentamente studiare la storia delle città
lombarde, non si otterrà mai di togliere quella confusione che producono
nella nostra memoria le loro rivalità, le alleanze, le guerre, nelle
quali i soli nomi diversificano gli avvenimenti. Se ci fosse dato di
penetrare nell'interno di queste città, conoscere le passioni che
agitavano i popoli, i loro desiderj, le loro speranze, la politica delle
loro assemblee e dei loro magistrati; potremmo forse indentificarci coi
cittadini di queste repubbliche; ma sgraziatamente dopo la metà del XII
secolo fino alla fine del XIII, dobbiamo sormontare un lungo spazio di
tempo, nel quale veruna città dell'Italia settentrionale, tranne
Venezia, ebbe storici contemporanei. Abbiamo bensì alcune informi
cronache nelle quali qualche monaco segnò il nome del podestà d'ogni
anno, ed indicò il luogo in cui seguì la tale o tal altra importante
battaglia. Nel tale anno, dicono, v'ebbe pace tra Cremona e Piacenza;
nel tale altro vi fu guerra; senza però mai riferire i motivi delle
guerre o le condizioni delle paci. In ventuna cronache lombarde ch'io
lessi rapidamente e con tedio estremo, per cercarvi i materiali di
questo capitolo, non trovai un solo pezzo che mi facesse conoscere le
opinioni del secolo in quelle dello scrittore. Non per questo possiamo
omettere di dare un'occhiata agl'interessi di queste città, che tanto
essenzialmente appartengono alla nostra storia; onde soffermandoci un
istante nelle principali, cercheremo almeno di conoscere le loro
alleanze e le loro inimicizie.
Poichè Milano venne rifabbricato dagli sforzi generosi della lega
lombarda, Milano aveva costantemente prosperato. Numerosa erane la
popolazione, ricco e fertile il territorio, le milizie agguerrite, e le
sue fortificazioni potevano sfidare le più potenti armate. Dall'epoca
della battaglia di Legnano che aveva consolidata la libertà lombarda,
erano fino al presente passati quarantacinque anni, ed i capi dei
consigli della repubblica, i vecchi ne' quali riponeva la sua maggiore
confidenza, erano facilmente stati portati tra le braccia de' fuggitivi
genitori, quando quindici anni prima di quella battaglia, la loro città
venne spianata; e forse s'erano anch'essi strascinati nel fango, quando
gli esiliati Milanesi si recarono sul luogo per cui doveva passare
Federico Barbarossa, per chiedere grazia.
In seguito quando si rifabbricò la città, tutti furono testimonj dei
nobili sforzi dei loro concittadini, e delle riportate vittorie. Erano
le memorie dell'infanzia e della gioventù, di que' tempi ne' quali
l'immaginazione più vivace riceve le più profonde impressioni. Perciò i
Milanesi non seppero mai perdonare ai figliuoli di Barbarossa le
battaglie e la severità del loro padre; e mentre i cittadini che avevano
combattuto contro Federico I, aprivangli essi medesimi le porte della
loro città dopo la pace di Costanza, e celebravano la perfetta loro
riconciliazione con isplendide feste, le due susseguenti generazioni non
istancaronsi di eccitare nemici al suo nipote Federico II, e di fargli
guerra.
A questo sentimento di vendetta nazionale deve attribuirsi la costanza
colla quale i Milanesi rimasero attaccati alle parti d'Ottone IV,
malgrado che il capo del partito guelfo si fosse dichiarato il difensore
delle prerogative dell'Impero, malgrado che Ottone fosse il nemico della
santa sede, e che i fulmini della Chiesa piovessero contro i suoi
partigiani.
Mentre viveva ancora Innocenzo, i Milanesi erano stati citati a
presentarsi al concilio di Laterano e ad abbandonare un imperatore
scomunicato: e nel susseguente anno s'erano portati a Milano due
cardinali, ed avevano da parte del papa ordinato alla repubblica di
soccorrere Federico contro Ottone suo antico alleato[467]. In questo
secolo le corti dei re obbedivano tremando a tali intimazioni; ma le
repubbliche italiane erano più indipendenti; onde i due cardinali non
tardarono ad accorgersi che non solo non avrebbero ottenuti i chiesti
soccorsi, ma nemmeno avrebbero ridotti i Milanesi a lasciare l'alleanza
di Ottone, onde si ritirarono fulminando l'interdetto contro la città.
[467] _Galvan. Flammæ Manip. Flor. c. 248, e 249. t. XI, p. 666._
(1217) Di quest'epoca i Milanesi avevano fatta alleanza con Tomaso,
conte di Savoja: le loro città confederate erano, in quest'epoca, Crema,
Piacenza, Lodi, Vercelli, Novara, Tortona, Como ed Alessandria.
L'interdetto del papa parve che in vece di sciogliere questa lega, ne
riserrasse più strettamente i legami. Le città di Pavia, Cremona, Parma,
Reggio, Modena ed Asti avevano abbracciato il contrario partito, ossia
quello de' Ghibellini; e Brescia, d'ordinario alleata di Milano, dovette
a quest'epoca conservarsi indifferente nelle contese delle altre
città[468], perchè indebolita da una lunga guerra civile, e ruinata dal
tremuoto che aveva atterrati i suoi più nobili edificj, doveva cercare
di rifarsi con un lungo riposo. Bergamo non è pur rammentata dagli
storici di questi tempi.
[468] _Jacobi Malvecii Chron. Brix. distinct. VII, c. 96, p. 900_.
Ogni città si ascrive nelle proprie cronache qualche vittoria nella
guerra quasi generale che tenne dietro all'interdetto papale; onde può
conchiudersi che i successi furono presso a poco compensati. Pare non
pertanto che la città di Pavia soffrisse una continuata serie di
perdite, che la Lomellina fosse saccheggiata ed incendiati molti
castelli sulla destra del Po; per cui questa repubblica si risolvesse di
abbandonare le antiche alleanze, unendosi ai Milanesi[469]. La città
d'Asti non fu meno maltrattata di Pavia, prima dagli Alessandrini da lei
provocati, poi dagli stessi Milanesi[470]; ma Cremona assalita dalla
stessa lega, le oppose una più ferma resistenza. Il sei giugno del 1218
le armate delle due leghe vennero a battaglia avanti a Ghibello: i
Pavesi erano stati forzati di unirsi ai Milanesi, coi quali trovavansi
pure i Vercellesi, Novaresi, Tortonesi, Comaschi, Alessandrini,
Lodigiani e Cremaschi: i Cremonesi avevano con loro le milizie di Parma,
di Reggio e di Modena. La battaglia si protrasse dal mezzogiorno fino a
notte innoltrata, e terminò colla rotta totale dei Milanesi[471].
[469] _Galvan. Flammæ Manip. Flor. c. 250. p. 667._
[470] _Chron. Astense, ab Ogerio Alferio edit. t. XI, p. 142._
[471] _Chron. Breve Cremon. t. VII, p. 640. — Joh. de Musis Chron.
Plac. t. XVI, p. 458. — Chron. Parm. t. IX, p. 764._
Oltre queste guerre tra le città, altre se ne manifestavano ancora
nell'interno di ogni repubblica, cui davano motivo l'insolenza dei
nobili, o la gelosia dei cittadini. I primi, dopo essere stati forzati
ad abbandonare i loro castelli per farsi abitatori delle città che gli
avevano ammessi alla loro cittadinanza, trovaronsi resi più potenti
dalla loro sconfitta. Essi non erano più, come per lo innanzi, dispersi
e senza relazione gli uni cogli altri; anzi per l'opposto trovavansi
uniti coi loro uguali, e più a portata di contrarre nuove alleanze;
quindi maggiore erasi fatto il loro disprezzo pei borghesi, ai quali
momentaneamente avevano dovuto cedere, e si credevano destinati a
dominarli. Attribuivansi esclusivamente il nome di soldati (_milites_);
e, quantunque a quest'epoca il valore fosse comune a tutti gl'Italiani,
è probabile che superassero in virtù militari i loro concittadini, pei
quali la guerra non era il principale affare. La rivoluzione che si fece
in tutte le repubbliche, allorchè fu confidato ai podestà il supremo
potere, era riuscita favorevole ai nobili. Un popolo geloso poteva bensì
volere esclusi dagl'impieghi i suoi proprj gentiluomini; ma qualunque
volta passava a scegliere in paese straniero un uomo sconosciuto per
sottomettersi al suo governo, non sapeva liberarsi dall'antica
prevenzione di tutti gli uomini in favore della nascita; prevenzione che
tanto naturalmente decide delle scelte, quando non conosconsi le altre
qualità. Fu legge fondamentale di tutte le repubbliche italiane di non
iscegliersi per podestà che un gentiluomo; e questa legge non fu pure
violata quando, nel calore delle guerre civili, i nobili appartenenti ad
ogni repubblica vennero degradati ed esclusi da ogni diritto di
cittadinanza. Intanto i podestà gentiluomini cercavano d'avere ne'
consiglj persone del loro ordine; quando terminate le loro funzioni
tornavano in patria, vi portavano l'attitudine ai pubblici affari,
talenti esercitati, ed il sentimento della loro superiorità sui borghesi
e gli artigiani, che occupavano le principali cariche. Provavano allora,
colle minacce e con un procedere arrogante, di ricuperare quelle
prerogative ch'essi credevano usurpate al loro ordine. Per l'opposto i
borghesi avevano fatta conoscenza degli affari nelle deliberazioni della
piazza pubblica; erano armati; avverano combattuto per essere liberi, e
non per passare sotto un diverso giogo. Protetti da un governo benefico
avevano veduto prosperare il loro commercio e le loro manifatture,
avevano appreso ad apprezzarsi più assai che per lo innanzi, perchè la
loro fortuna era quasi affatto indipendente. Erano perciò troppo alieni
dal voler rinunciare a tutti i pubblici affari, e dal permettere che i
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