Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 15
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III, tronco comune delle due linee che fino all'età nostra regnarono a
Brunswich ed a Modena: d'altra parte Ezzelino era il più caldo
partigiano delle prerogative imperiali; e quantunque fino al presente
tali prerogative avessero servito ad umiliare la famiglia d'Ottone, da
che si trovò in possesso della corona, rivolse il suo favore ai loro
difensori. Per tali motivi accolse con eguale dimostrazione i due capi
di partito, e cercò di porli in pace tra di loro.
Uno de' più zelanti partigiani d'Ezzelino, che a quanto sembra dovette
esser presente a tale accoglimento, ce ne lasciò una relazione nella sua
storia[333]. Quando Ezzelino si trovò in faccia al marchese in presenza
di tutta la corte, alzossi per accusare il suo rivale di tradimento e di
fellonia. «Noi, diss'egli, fummo compagni nella nostra fanciullezza, e
lo credetti amico; ci trovammo insieme a Venezia, e passeggiavo con lui
nella piazza di S. Marco, quando alcuni assassini mi si avventarono
contro per pugnalarmi, e nel medesimo istante il marchese mi prese il
braccio per impedire di difendermi; e se con uno sforzo violento non mi
fossi da lui svincolato, sarei stato infallibilmente ucciso, come lo fu
un mio soldato che stavami ai fianchi. Perciò io lo denuncio a
quest'assemblea quale traditore; e chiedo a vostra maestà di permettermi
ch'io provi in singolare battaglia i tradimenti orditi a me, a
Salinguerra, ed al podestà di Vicenza».
[333] _Gerard. Maurisius, p. 19._
Poco dopo arrivò Salinguerra seguìto da cento uomini d'arme, il quale
gittandosi a' piedi dell'imperatore rinnovò contro il marchese l'accusa
d'Ezzelino, e domandò egualmente la prova della battaglia singolare.
Azzo rispose che aveva ne' suoi dominj molti gentiluomini più nobili di
Salinguerra, che sarebbero pronti a battersi con lui, se aveva tanta
sete di battaglie. Allora Ottone dichiarò a tutti tre che per le passate
contese non permetterà loro di battersi.
Ottone, che ad ogni modo voleva mettere in pace questi due capi di
parte, dai quali sperava d'avere più importanti servigi che da tutti gli
altri signori italiani, sortì il giorno dopo a cavallo con loro, e,
avendone uno alla diritta, alla sinistra l'altro (m'attengo sempre allo
storico Maurisio partigiano d'Ezzelino), volse da prima il discorso in
lingua francese ad Ezzelino: _Sire Ycelin, saluons le marquis_,
diss'egli; onde Ezzelino levandosi il cappello e piegando il corpo,
disse ad Azzo: Signor Marchese che Dio vi salvi; e perchè questi rispose
senza scoprirsi il capo, Ottone rivoltossi a lui ugualmente: _Sire
marquis, saluons Ycelin_, ed il marchese soggiunse, _que Dieu vous
sauve_. La loro riconciliazione non pareva ancora troppo avanzata,
quando ristringendosi la strada, Ottone passò avanti, lasciando i due
rivali ai fianchi l'uno dell'altro; perchè voltosi a dietro vide che si
parlavano affettuosamente, come avessero dimenticate affatto le vecchie
offese. Quest'amichevole conversazione durò quanto la corsa che fu di
oltre due miglia, e finì col dare qualche inquietudine all'imperatore,
il quale poichè rientrò nella sua tenda, fatto a se chiamare Ezzelino,
gli chiese quale fosse stato il soggetto della sua conversazione col
marchese: «i giorni della nostra fanciullezza, rispose Ezzelino; e noi
eravamo rientrati nell'antica nostra amicizia.»
Dopo di aver riconciliati i due capi di partito, volle Ottone
assicurarsi ancora del loro attaccamento alla propria causa,
coll'accordare a' medesimi dei beneficj. Innocenzo III dubitando, dopo
aver conquistata la Marca, della validità del suo titolo, conobbe che
assai difficilmente avrebbe potuto conservarla, e perciò l'anno 1208 ne
investì il marchese d'Este[334]. Ottone quando giunse in Italia riclamò
la Marca come proprietà dell'Impero, ma ne lasciò l'amministrazione al
marchese d'Este con patto che la ricevesse da lui, e gliene fece spedire
il diploma in sul cominciare del susseguente anno[335]. E per essere
parimenti generoso verso di Ezzelino dichiarò la città di Vicenza
colpevole di ribellione, gl'impose una tassa di sessanta mila lire, e
nominò Ezzelino podestà, rettore, e deputato dell'Impero in Vicenza. Con
questi titoli riuniti Ezzelino richiese da tutti gli abitanti di Vicenza
il giuramento di fedeltà; e perchè il partito che gli era contrario,
piuttosto che prestare il giuramento, si ritirò a Verona o presso il
conte di S. Bonifacio, egli confiscò i beni di tutti i fuorusciti.
[334] _Rolandini de factis in Marchia Tarvisana, l. I. c. 10, t.
VIII, p. 178._
[335] In data di Foligno il 5 gennajo 1210. _Ant. Esten._
Intanto, dopo essersi assicurato dei partigiani dell'alta Italia, Ottone
IV s'avanzò alla volta di Roma, ove dalle mani d'Innocenzo III ricevette
la corona dell'Impero, ma la buona intelligenza tra di loro fu di breve
durata[336]: un ammutinamento dei Romani incominciato in tempo
dell'incoronazione fu seguìto dal massacro di molti soldati tedeschi:
l'imperatore non volle cedere al papa l'eredità della contessa Matilde e
le vaste province che la santa sede credeva a se devolute, allegando il
giuramento prestato all'atto della sua elezione, di mantenere le
prerogative dell'Impero, e di non alienarne le possessioni; onde i due
capi della cristianità separaronsi dopo pochi giorni scontenti l'uno
dell'altro, e disposti a farsi la guerra.
[336] Il 4 ottobre 1209.
Ottone incaricato di difendere le prerogative per cui i Ghibellini
avevano combattuto, si volse ai capi di questo partito. Sotto pretesto
che il senatore era soggetto al papa, e che il popolo non sarebbe libero
fin tanto che non fosse ristabilito il senato di cinquantasei membri,
eccitò in Roma delle sedizioni dirette dalla famiglia Pietro Leone[337].
Accordò ai Pisani un amplissimo privilegio in conferma di quello
d'Enrico VI, assicurandosi con tale beneficio del loro affetto[338];
contrasse alleanza coi generali tedeschi ch'erano rimasti nel regno di
Napoli dopo la conquista dello stesso Enrico, ed investì del ducato di
Spoleti il conte Diopoldo, uno de' più principali fra di loro[339]; per
ultimo, di ritorno in Lombardia, fece ogni sforzo per rappacificare le
città ed i partiti diversi che laceravano con private guerre quelle
contrade, e si assicurò l'appoggio dei Milanesi, dei Parmigiani, dei
Bolognesi, e di molti altri popoli[340]. Bonifacio d'Este si unì in suo
favore ad Ezzelino ed a Salinguerra; ma per lo contrario il marchese
Azzo d'Este, staccandosi dal primo imperatore che onorasse la sua
famiglia, strinse alleanza col papa, e ricominciò nella Venezia la
guerra contro il partito ghibellino.
[337] _Vita Innoc. III, §. 134. e seg. p. 562_ — Queste sedizioni
incominciarono l'anno 1208; ma ci assicura Raynaldo, che furono pure
eccitate da Ottone. _An. Eccles. 1208 §. 7. p. 158._
[338] Datato a Poggibonzi l'otto delle calende di novembre 1209.
_Istoria Pisana di Flaminio del Borgo, diss. IV, p. 170._
[339] _Ricardus de sancto Germano Chron. p. 983._
[340] _Ant. Ital. med. ævi, dissert. LI, t. IV, p. 608_.
Dal canto suo non trovò Innocenzo nella lega guelfa di Toscana tutto
quell'appoggio che ne sperava, ma fu invece soccorso dai Genovesi, dai
Pavesi, dai Cremonesi e dal marchese di Monferrato; ma più che in
tutt'altro sperava in Federico II, di cui non aveva accettata la tutela
che per avere in mano un principe da opporre qualunque volta lo credesse
agl'imperatori che avrebbero la sventura di spiacergli per la troppo
loro potenza, senza aver bisogno di prendersi cura de' suoi reali
interessi. In quest'anno medesimo trattò un matrimonio tra questo
giovane re, e Costanza figliuola del re d'Arragona, assicurandone in tal
modo l'alleanza[341]; entrò poi in trattative con Filippo re di Francia,
e con altri signori tedeschi per fare eleggere imperatore Federico,
rappresentandoglielo come ingiustamente spogliato de' suoi diritti.
[341] Sembra che tale matrimonio si proponesse l'anno 1201 dal re
d'Arragona. _Innoc. Epist. l. V. ep. 51 — Od. Rayn. 1202. §. 6. p.
73._
Informato Ottone di queste pratiche, pensò che il nemico da abbattere
prima d'ogni altro era Federico, il quale già disponevasi a disputargli
la corona. Gli dichiarava perciò la guerra ed invadeva il regno di
Napoli, ove incontrava pochissima resistenza. Monte Cassino, Capoa,
Salerno, Napoli gli s'arresero ben tosto; e, malgrado le scomuniche del
papa, non perdette alcuno de' suoi partigiani[342]. Le cose di Ottone
procedevano con tanta prosperità, che poteva sperare di balzare in breve
dal trono il giovane Federico, che dai soldati era chiamato il re dei
preti; quando le notizie d'una generale sommossa in Germania
l'obbligarono ad abbandonare l'Italia. Siffredo, arcivescovo di Magonza,
aveva pubblicato contro l'imperatore una bolla di scomunica,
dichiarandolo decaduto dalla dignità imperiale. E perchè la bolla avesse
effetto, eransi contro di lui collegati l'arcivescovo di Treveri, il
langravio di Turingia, il re di Boemia, il duca di Baviera ed il duca di
Zeringuen, a ciò specialmente istigati da Filippo Augusto di Francia,
personale nemico d'Ottone. Questi lasciò l'Italia dopo avere in due
generali assemblee esortati i baroni del Regno di Napoli, poi quelli
delle città libere di Lombardia, a conservarsi fedeli, e passò in
Germania a sostenervi una sfortunata guerra, nella quale ebbe ben tosto
a fronte il suo antagonista Federico II[343].
[342] _Richardus de sancto Germano Chron. p. 983. — Abbas Usperg.
Chron. p. 313._
[343] _Abbas Uspergensis Chron. p. 313._
Benchè si fosse variato l'oggetto della lite tra le fazioni guelfa e
ghibellina, e che i Ghibellini si trovassero momentaneamente uniti al
papa, mentre molti Guelfi, diretti da un imperatore guelfo, eransi
dichiarati i difensori dei diritti dell'Impero[344], i Lombardi furono
generalmente fedeli non ai rispettivi principi, ma alle persone ed al
nome della loro fazione. Nella guerra della lega lombarda, Pavia,
Cremona ed il marchese di Monferrato avevano combattuto per la famiglia
ghibellina; l'istesse città s'impegnarono pure di difendere Federico II,
l'erede di questa famiglia. Questo giovane re, allora in età di
dieciotto anni, essendone richiesto dai principi tedeschi suoi
partigiani, s'avviò verso la Germania per riclamare la corona imperiale.
Passando per Roma, ricevette la benedizione del papa, indi s'imbarcò e
giunse a Genova in aprile del 1212 con quattro galere. Colà seppe che
tutto il partito guelfo di Lombardia aveva prese le armi per chiudergli
il passaggio; onde gli fu forza di rimanere in Genova tre mesi,
aspettando l'opportunità di attraversare il paese nemico, e dar tempo ai
suoi partigiani di riunire le loro forze[345]. Soltanto il 15 giugno
partiva da Genova alla volta di Pavia, dopo aver ricevuti dai Genovesi
considerabili soccorsi. Il partito ghibellino ne' paesi che doveva
attraversare, era assai debole. Le città d'Alessandria, Tortona,
Vercelli, Acqui, Alba ed il marchese Malaspina eransi uniti ad
attraversargli il passaggio avanti che arrivasse a Pavia[346]; ma egli
giunse a Pavia per la strada d'Asti senza incontrarli, e senza che gli
accadesse alcun sinistro. I Guelfi vollero vendicarsene avanzandosi sul
territorio pavese, ma ne furono respinti con grave perdita. Restavagli
da attraversare la Lombardia superiore, lo che rendevasi ancora più
difficile, poichè per passare da Pavia a Cremona, prima città a lui
favorevole, doveva toccare il territorio piacentino, o il milanese, i di
cui passaggi erano attentamente custoditi da quei repubblicani[347]. Il
marchese Azzo d'Este erasi avanzato fino a Cremona per incontrarlo, e
teneva disposta una scorta che doveva unirsi a quella dei Pavesi; ma nè
gli uni nè gli altri avevano bastanti forze per attaccare il corpo dei
Milanesi appostato sulle rive del Lambro. Federico, cui ogni ritardo
poteva diventar fatale, credette di dover tutto arrischiare, ed
approfittando delle dense tenebre d'una notte tentò il passaggio del
fiume, e giunse felicemente a Cremona; e soltanto la scorta pavese fu
assalita, retrocedendo, dai Milanesi, e fatta quasi tutta
prigioniera[348]. Da Cremona avanzandosi Federico coll'assistenza del
marchese d'Este non era più esposto a grandi rischi, sicchè per la
strada di Mantova, Verona[349] e Trento giunse a Coria nei Grigioni, ove
incontrò i suoi primi partigiani tedeschi, ed in numero assai maggiore
gli si fecero in contro a Costanza; e finalmente quando arrivò ad
Aquisgrana, vi fu coronato re de' Romani, mentre il suo competitore
Ottone essendo stato battuto presso Brisacco, fu forzato di rivolgere le
sue armi contro Filippo Augusto, dal quale disfatto in vicinanza di
Bouvines, non ebbe più forze bastanti per affrontare il suo rivale[350].
[344] Il nome di Guelfi e di Ghibellini fu in questi tempi più
universalmente adottato; perchè l'antica denominazione di partito
dell'Impero e di partito della Chiesa era divenuta un controsenso.
[345] _Annal. Genuens. Continuat. Caffari l. IV, p. 403._
[346] _Ann. Genuens. Contin. Caffari l. IV, p. 403._
[347] _Galvan. Flam. c. 244, p. 664, t. XI._
[348] _Sicardi Epis. Cremon. Chron. p. 623, t. VII._
[349] _Chronic. Veronense t. VIII, p. 623._
[350] _Il 27 luglio 1214 — Conradus Abbas Usperg. Chronicon p. 319._
Tocchiamo finalmente l'epoca in cui la più illustre, e, per lungo tempo,
la più potente repubblica de' secoli di mezzo, Fiorenza, incomincia a
chiamare a se lo sguardo dello storico colla prima scissura ch'ebbe
luogo nel suo seno l'anno 1215.
Firenze non fu da principio probabilmente che un sobborgo di Fiesole,
antica città degli Etruschi, e per tale cagione l'epoca precisa della
sua fondazione trovasi avviluppata in qualche difficoltà[351]. Il
dittatore Lucio Silla la fece colonia romana, e segnò il primo le mura
della nuova città lungo le ridenti rive dell'Arno, ai piedi degli
Appennini in mezzo a colline coperte d'ulivi, di fichi, e di tutti gli
alberi de' climi più caldi.
[351] _Istorie Fiorent. di Leonardo Aretino, traduzione
dell'Acciajuoli lib. I, p. 4. Ediz. veneta 1476._
Poche città furono dalla natura più avvantaggiate di Fiorenza. Malgrado
il calore spesso grandissimo, l'aria è sana, limpide acque scendono
dall'Appennino, che la magnificenza dei cittadini fiorentini impiegò ne'
secoli di mezzo ad ornare e rinfrescare la città con sontuose fontane.
La pianura che dalle porte della città si stende nella val d'Arno
inferiore, è coperta di gelsi e di viti maritate agli alberi, ed è
feconda di grani d'ogni genere, facendovisi cinque diversi raccolti
nello spazio di tre anni[352]. Dalla banda degli Appennini innalzasi un
anfiteatro di ridenti colli sui quali raccogliesi il più squisito olio,
ed i più squisiti vini d'Italia; più a dietro le alte montagne coperte
di vaste foreste di castagni offrono alla povertà un nutrimento, che non
domanda che il lavoro di raccogliere i frutti che maturano ogni anno.
[352] Veggasi il _Quadro dell'Agricoltura toscana_ dell'autore di
questa istoria. Un _Vol. in 8.º, Ginevra 1802._
Il Mugnone ed altri ruscelli arricchiscono le terre da loro inaffiate; e
l'agricoltore deriva dall'Arno medesimo una parte delle sue acque.
Questo fiume che nella più calda estate lascia quasi all'asciutto il suo
letto, lo riempie di nuovo nella stagione piovosa, ed apre una facile e
pronta comunicazione con Pisa e col mare per mezzo di leggieri barche.
Firenze ornata, fino ne' tempi di Silla, di terme, di teatri,
d'acquedotti, fu quasi affatto rovinata da Totila, re dei Goti, nella
guerra che questi dovette sostenere contro i generali di
Giustiniano[353]. Fu in seguito rifabbricata da Carlo Magno, ed impiegò
i quattro secoli posteriori al regno del suo nuovo fondatore nel
perfezionamento della sua amministrazione municipale; nel qual tempo
obbligò tutti i gentiluomini del vicinato a farsi cittadini fiorentini
sottomettendo i loro piccoli feudi alla sua giurisdizione. Fino al 1207
fu governata da consoli scelti tra i migliori cittadini, e da un senato
di cento membri. I consoli rimanevano in carica un anno, e ne veniva
nominato uno prima dai quattro, poi dai sei quartieri; ma del 1207 i
Fiorentini imitarono ciò che vedevano praticarsi da tutte le altre
città, e chiamarono un podestà straniero e gentiluomo[354][355], al
quale affidarono il carico d'eseguire gli ordini del comune, di far
decidere dai suoi giudici i processi civili, di pronunciare egli e di
far eseguire le sentenze criminali, affinchè, dicono gli storici
fiorentini, verun cittadino non incontrasse l'odio cui poteva dar luogo
la pubblica vendetta, ed affinchè non si lasciasse alcuno sedurre dalle
preghiere, dall'affetto di famiglia, o da timore, a trascurare il
mantenimento dell'ordine pubblico. Gualfredotto di Milano fu il primo
podestà di Fiorenza, cui fu dato per sua abitazione il palazzo del
vescovo, conservando in pari tempo i consoli incaricati di tutti gli
altri rami della pubblica amministrazione.
[353] _Leonardo Aret. l. I, p. 30_ — _Procopii Cæsariensis de Bello
Gotico l. III, c. 5. p. 117. Edit. Veneta._
[354] _Istoria fiorentina di Ricordano Malespini c. 99. Scrip. Rer.
Ital. t. VIII. p. 942_ — Giovanni Villani _l. V. c. 32. t. XIII. p.
146_.
[355] A questi autori del secolo decimoquarto, oltre le storie
fiorentine di Niccolò Machiavelli, possono aggiungersi quelle di
Lorenzo Pignotti pubblicate nel decorso anno. _N. d. T._
Quantunque la nobiltà fiorentina, che fino a tale epoca aveva
esclusivamente governata la repubblica, non potesse rimanersi del tutto
imparziale nelle contese degl'imperatori e dei papi, e specialmente in
quella di Ottone IV con Innocenzo III, nulla però accadde che ne
alterasse la pace interna. La repubblica aveva presa parte alla lega
toscana, ma in appresso non si curò troppo di sostenere una
confederazione ben tosto dimenticata: e malgrado le divergenti opinioni
de' gentiluomini, i magistrati erano determinati di tenersi neutrali,
quando una particolare contesa di famiglia, riscaldando tutt'ad un
tratto lo spirito di partito, strascinò i Fiorentini in sanguinose
risse, che dopo essersi tenute vive, senza deciso vantaggio dell'una o
dell'altra parte, trentatre anni, ebbero fine coll'esiglio dalla città
d'un intero partito, e coll'obbligare la repubblica a figurare
eminentemente nelle successive guerre d'Italia.
Tra le famiglie che manifestavano attaccamento alla causa del papa
primeggiava quella dei Buondelmonti, altra volta signori di Montebuono
in val d'Arno di sopra. Messer Bondelmonte de' Buondelmonti aveva
promesso di sposare una fanciulla degli Amedei, famiglia alleata agli
Uberti, e di conosciuto attaccamento al partito imperiale[356]. Un
giorno Bondelmonte cavalcando per la città fu chiamato da una
gentildonna della casa Donati, la quale, rimbrottatolo d'essersi alleato
con una famiglia a lui sconveniente, passò a deridere la figura della
sposa. «Io ne aveva, gli soggiunse, tenuta una in serbo per voi, che
avreste certamente preferita;» e presolo per la mano lo condusse
nell'appartamento di sua figlia, ch'era sopra ogni credere bellissima.
Bondelmonte invaghito e infiammato d'amore, non riflettendo alla data
fede, la chiese e l'ottenne in isposa; e gli Amedei non seppero ch'egli
mancava alla convenzione fatta con loro se non quando era già sposo
d'un'altra. Invitarono subito tutti i parenti a riunirsi presso di loro,
gli Uberti, i Fifanti, i Lamberti ed i Gangalandi, ed esposero
l'affronto che avevano ricevuto, chiedendo consiglio intorno alla
vendetta che più si converrebbe al presente caso. Mosca Lamberti osò
dire il primo, ma con parole equivoche, che solo la morte poteva lavare
tanta offesa[357]; perchè la mattina di Pasqua mentre Bondelmonte
attraversava sopra un cavallo bianco Ponte Vecchio fu assalito dai capi
di queste famiglie, unite non solo dalla recente ingiuria, ma ancora
dall'attaccamento alla causa imperiale, ed ucciso presso alla statua di
Marte protettore di Fiorenza pagana, che ancora rimaneva in piedi.
[356] _Ricordano Malesp. Istor. fiorent. c. 104, p. 945 — Gio.
Villani l. V, c. 38, p. 150 — Coppo de Stefani l. II. — Delizie
degli eruditi toscani t. VII_ — Questi tre scrittori si copiavano
l'un l'altro quasi senza variazione di vocaboli; e Machiavelli in
principio del II. _lib. delle sue storie fiorent._ replicò il loro
racconto. _Ediz. del 1796. p. 90._
[357] La sua risposta fu il proverbio, _cosa fatta capo ha_, che
diventò poi parola di sangue, la quale non poteva pronunciarsi senza
far fremere i repubblicani di Fiorenza.
Poichè fu sparso il primo sangue, tutte le nobili famiglie si
pronunciarono per gli aggressori, o per il contrario partito, adottando
a un tempo una fazione nella gran lite della Cristianità, che s'aggiunse
a questa rissa di famiglia. Si dichiararono pei Bondelmonti e per il
partito guelfo quarantadue principali famiglie[358], di cui gli antichi
storici ci diedero i nomi: e ventiquattro uguali famiglie si associarono
agli Uberti ed alla causa dei Ghibellini. Così, fatti nemici gli uni
degli altri, tanti potenti cittadini battevansi continuamente, e comechè
tutti innalzassero torri e fortificassero i loro palazzi, rimasero
trentatre anni nella medesima città senza aver mai fatto verun accordo.
Ma la notte della Candelora del 1248 la parte guelfa fu costretta per la
prima volta di abbandonare la città, che, ritirandosi, fu esigliata
dalla pubblica autorità, la quale fino a tale epoca aveva mostrato di
volere con mano imparziale comprimere le due fazioni castigando
indistintamente i perturbatori del pubblico riposo.
[358] _Ricordano Malespini, c. 105, p. 946._
Trentatre anni di non interrotta guerra entro le mura di Firenze non
solo produssero l'effetto di avvezzare alle armi la nazione, e di
prepararla in tal maniera alle sue future conquiste, ma diedero altresì
un particolare carattere all'architettura della città, carattere non
affatto perduto al presente, perchè i nuovi architetti, senza rendersi
ragione dello stile nazionale, lo imitarono nei loro edificj. I palazzi
fiorentini sono masse quadrate pesanti, il di cui principale ornamento
consiste nella solidità[359]. Sono grosse muraglie bugnate, porte alzate
sopra il livello del suolo, larghe anella di ferro e di bronzo in cui
collocavansi i fanali all'occasione di pubbliche illuminazioni, o
destinate a portare gli stendardi d'una fazione: altronde non vi si
vedevano nè colonne, nè peristili, o cosa alcuna ove l'architettura
possa mostrar grazia e leggerezza. Firenze si fa conoscere all'aspetto
suo per la città dei nobili, la città della forza individuale, la città
ove l'autorità pubblica era talvolta debole, ma dove ognuno era padrone
e signore nella propria casa.
[359] Il palazzo Strozzi in _piazza dell'Erbe_ ed il palazzo
Ricardi, altra volta dei Medici, sono monumenti di questo genere
d'architettura. Sono opere ambedue fatte in sul declinare del secolo
XV; ma il gusto de' loro fondatori erasi formato sopra più antichi
modelli.
Nel lungo regno di diciott'anni Innocenzo III aveva forse ottenuto più
che non isperava a favore dell'autorità ecclesiastica accresciuta con
dispendio di quella degl'imperatori. Il regno di Sicilia omai le era
affatto subordinato. Federico aveva un figlio della novella sua sposa, e
quando partì per andare in Germania, Innocenzo pretese che questi fosse
allora coronato re di Sicilia, e che a lui cedesse il padre
l'amministrazione del regno sotto la protezione della santa sede, da cui
avrebb'egli poi ottenuta la corona imperiale.
La città di Roma, dopo avere tentato invano di cambiare la propria
amministrazione, erasi trovata in preda a tante estorsioni sotto il
governo d'un senato repubblicano, che spontaneamente si sottomise ad un
senatore nominato dal pontefice. Tutte le città vicine a Roma erano
state conquistate da Innocenzo, e gli si conservavano subordinate.
Sembrava inoltre che ricaderebbe sotto il suo dominio la Marca d'Ancona,
poichè Azzo VI d'Este che n'era stato da lui investito[360], era morto
poco dopo avere condotto Federico in Germania, e del 1215 era pur morto
il suo maggior figliuolo Aldobrandino, nel fiore della gioventù. Il
secondogenito Azzo VII, marchese d'Este, poteva a stento conservare il
patrimonio de' suoi maggiori, non che pensar potesse a tener in dovere
gli Anconitani che si dichiaravano indipendenti. Malgrado le intestine
loro discordie, le città toscane mostravansi tutte, ad eccezione di
Pisa, più affezionate al partito della Chiesa che a quello dell'Impero;
e se nella Lombardia le più potenti repubbliche avevano abbracciata la
causa d'Ottone, aveva la fortuna favorite in modo le più deboli
attaccate alla Chiesa, che i Cremonesi avevano disfatta interamente
l'armata milanese, tolto loro il carroccio, e fatti prigionieri più
migliaja di soldati[361].
[360] Azzo VI morì in novembre del 1212.
[361] Ciò accadde nel giorno di Pentecoste del 1213. _Sicardi Chron.
p. 624 — Campi Istoria di Cre. l. II. p. 39 — Manip. Flor. Galvanei
Flam. c. 246. p. 655._
Ma se l'amministrazione di questo grande fondatore della monarchia
pontificale ottenne portentosi successi, la sua condotta non andò esente
da rimproveri. Benchè avesse soccorso Federico nelle prime sue imprese
contro Ottone, poichè questi fu sconfitto, non accordò mai al suo
protetto la corona imperiale onde non farlo troppo potente.
Nell'amministrazione del regno di Sicilia non andò senza taccia
d'infedeltà, avendo usurpati in pregiudizio del re suo pupillo i
privilegi della corona di conferire i beneficj ecclesiastici[362],
disponendo dei feudi del regno a vantaggio de' suoi favoriti, e tra gli
altri di suo nipote, cui regalò la contea di Sora[363]; trattando coi
ribelli in proprio nome, e non riclamando per il suo augusto pupillo i
diritti che aveva all'elezione di re dei Romani, se non dopo essersi
successivamente alleato con Filippo e con Ottone IV, in pregiudizio di
Federico, di cui ne cedette loro i diritti a fronte dei proprj vantaggi.
Nè più dilicata fu la condotta di questo papa verso gl'imperatori
d'Oriente, siccome avremo opportunità di osservarlo nel seguente
capitolo. Abbiamo già parlato dell'insultante alterigia con cui trattò i
monarchi d'Occidente, e del frequente scandaloso abuso da lui fatto
degl'interdetti e delle scomuniche. Viene inoltre accusato d'avere il
primo fatta predicare la crociata contro i Pagani della Livonia, e
d'avere accordato a coloro che avevano fatto voto di andare in soccorso
di Terra santa, di portare invece le armi nella Livonia per farvi una
guerra inutile; dimenticando l'affezione dei luoghi santi, la difesa
della cristianità contro l'aggressione nemica, e la protezione dovuta ai
fratelli d'armi esposti ai più grandi pericoli. Innocenzo acconsentì a
questa crociata motivata da sola cieca e crudele voglia di
persecuzione[364]. Ma la più vergognosa macchia che disonori la memoria
di questo pontefice, è l'istituzione dell'inquisizione, e la sanguinaria
predicazione dei monaci di S. Domenico per la più atroce delle crociate,
quella contro gli sventurati Albigesi[365].
[362] _Giannone Istoria civile l. XIV. c. 3._
[363] _Ibid. Lib. XV. c. 14 — Rich. de sancto Germano Chron. p.
982._
[364] _Annales Eccles. Oderici Rainaldi ann. 1204, § 56 p. 117._
[365] Il Lettore Cattolico si ricordi che le presenti osservazioni
sono scritte da un Protestante. Del resto i sudditi Austriaci sanno
che l'Augusta Imperatrice Maria Teresa, la di cui memoria sarà
sempre cara agli amici della religione e della clemenza, abolì ne'
suoi stati di Lombardia il tribunale dell'inquisizione,
repristinando i Vescovi nei naturali loro diritti di giudici e di
conservatori della fede, e dissoggettando i suoi sudditi da
qualunque tribunale non dipendente dalla legittima sovrana autorità.
_N. d. T._
A me non s'apparterrebbe il parlare della venuta in Europa de'
Pauliciani[366], setta di Manichei, che scacciati dall'Asia dalle
persecuzioni degl'imperatori d'Oriente e trapiantatisi nelle vicinanze
del monte _Haemus_, s'avanzarono lentamente verso l'Occidente, e
sparsero tra i Latini i primi semi della riforma; ma perchè questi
Brunswich ed a Modena: d'altra parte Ezzelino era il più caldo
partigiano delle prerogative imperiali; e quantunque fino al presente
tali prerogative avessero servito ad umiliare la famiglia d'Ottone, da
che si trovò in possesso della corona, rivolse il suo favore ai loro
difensori. Per tali motivi accolse con eguale dimostrazione i due capi
di partito, e cercò di porli in pace tra di loro.
Uno de' più zelanti partigiani d'Ezzelino, che a quanto sembra dovette
esser presente a tale accoglimento, ce ne lasciò una relazione nella sua
storia[333]. Quando Ezzelino si trovò in faccia al marchese in presenza
di tutta la corte, alzossi per accusare il suo rivale di tradimento e di
fellonia. «Noi, diss'egli, fummo compagni nella nostra fanciullezza, e
lo credetti amico; ci trovammo insieme a Venezia, e passeggiavo con lui
nella piazza di S. Marco, quando alcuni assassini mi si avventarono
contro per pugnalarmi, e nel medesimo istante il marchese mi prese il
braccio per impedire di difendermi; e se con uno sforzo violento non mi
fossi da lui svincolato, sarei stato infallibilmente ucciso, come lo fu
un mio soldato che stavami ai fianchi. Perciò io lo denuncio a
quest'assemblea quale traditore; e chiedo a vostra maestà di permettermi
ch'io provi in singolare battaglia i tradimenti orditi a me, a
Salinguerra, ed al podestà di Vicenza».
[333] _Gerard. Maurisius, p. 19._
Poco dopo arrivò Salinguerra seguìto da cento uomini d'arme, il quale
gittandosi a' piedi dell'imperatore rinnovò contro il marchese l'accusa
d'Ezzelino, e domandò egualmente la prova della battaglia singolare.
Azzo rispose che aveva ne' suoi dominj molti gentiluomini più nobili di
Salinguerra, che sarebbero pronti a battersi con lui, se aveva tanta
sete di battaglie. Allora Ottone dichiarò a tutti tre che per le passate
contese non permetterà loro di battersi.
Ottone, che ad ogni modo voleva mettere in pace questi due capi di
parte, dai quali sperava d'avere più importanti servigi che da tutti gli
altri signori italiani, sortì il giorno dopo a cavallo con loro, e,
avendone uno alla diritta, alla sinistra l'altro (m'attengo sempre allo
storico Maurisio partigiano d'Ezzelino), volse da prima il discorso in
lingua francese ad Ezzelino: _Sire Ycelin, saluons le marquis_,
diss'egli; onde Ezzelino levandosi il cappello e piegando il corpo,
disse ad Azzo: Signor Marchese che Dio vi salvi; e perchè questi rispose
senza scoprirsi il capo, Ottone rivoltossi a lui ugualmente: _Sire
marquis, saluons Ycelin_, ed il marchese soggiunse, _que Dieu vous
sauve_. La loro riconciliazione non pareva ancora troppo avanzata,
quando ristringendosi la strada, Ottone passò avanti, lasciando i due
rivali ai fianchi l'uno dell'altro; perchè voltosi a dietro vide che si
parlavano affettuosamente, come avessero dimenticate affatto le vecchie
offese. Quest'amichevole conversazione durò quanto la corsa che fu di
oltre due miglia, e finì col dare qualche inquietudine all'imperatore,
il quale poichè rientrò nella sua tenda, fatto a se chiamare Ezzelino,
gli chiese quale fosse stato il soggetto della sua conversazione col
marchese: «i giorni della nostra fanciullezza, rispose Ezzelino; e noi
eravamo rientrati nell'antica nostra amicizia.»
Dopo di aver riconciliati i due capi di partito, volle Ottone
assicurarsi ancora del loro attaccamento alla propria causa,
coll'accordare a' medesimi dei beneficj. Innocenzo III dubitando, dopo
aver conquistata la Marca, della validità del suo titolo, conobbe che
assai difficilmente avrebbe potuto conservarla, e perciò l'anno 1208 ne
investì il marchese d'Este[334]. Ottone quando giunse in Italia riclamò
la Marca come proprietà dell'Impero, ma ne lasciò l'amministrazione al
marchese d'Este con patto che la ricevesse da lui, e gliene fece spedire
il diploma in sul cominciare del susseguente anno[335]. E per essere
parimenti generoso verso di Ezzelino dichiarò la città di Vicenza
colpevole di ribellione, gl'impose una tassa di sessanta mila lire, e
nominò Ezzelino podestà, rettore, e deputato dell'Impero in Vicenza. Con
questi titoli riuniti Ezzelino richiese da tutti gli abitanti di Vicenza
il giuramento di fedeltà; e perchè il partito che gli era contrario,
piuttosto che prestare il giuramento, si ritirò a Verona o presso il
conte di S. Bonifacio, egli confiscò i beni di tutti i fuorusciti.
[334] _Rolandini de factis in Marchia Tarvisana, l. I. c. 10, t.
VIII, p. 178._
[335] In data di Foligno il 5 gennajo 1210. _Ant. Esten._
Intanto, dopo essersi assicurato dei partigiani dell'alta Italia, Ottone
IV s'avanzò alla volta di Roma, ove dalle mani d'Innocenzo III ricevette
la corona dell'Impero, ma la buona intelligenza tra di loro fu di breve
durata[336]: un ammutinamento dei Romani incominciato in tempo
dell'incoronazione fu seguìto dal massacro di molti soldati tedeschi:
l'imperatore non volle cedere al papa l'eredità della contessa Matilde e
le vaste province che la santa sede credeva a se devolute, allegando il
giuramento prestato all'atto della sua elezione, di mantenere le
prerogative dell'Impero, e di non alienarne le possessioni; onde i due
capi della cristianità separaronsi dopo pochi giorni scontenti l'uno
dell'altro, e disposti a farsi la guerra.
[336] Il 4 ottobre 1209.
Ottone incaricato di difendere le prerogative per cui i Ghibellini
avevano combattuto, si volse ai capi di questo partito. Sotto pretesto
che il senatore era soggetto al papa, e che il popolo non sarebbe libero
fin tanto che non fosse ristabilito il senato di cinquantasei membri,
eccitò in Roma delle sedizioni dirette dalla famiglia Pietro Leone[337].
Accordò ai Pisani un amplissimo privilegio in conferma di quello
d'Enrico VI, assicurandosi con tale beneficio del loro affetto[338];
contrasse alleanza coi generali tedeschi ch'erano rimasti nel regno di
Napoli dopo la conquista dello stesso Enrico, ed investì del ducato di
Spoleti il conte Diopoldo, uno de' più principali fra di loro[339]; per
ultimo, di ritorno in Lombardia, fece ogni sforzo per rappacificare le
città ed i partiti diversi che laceravano con private guerre quelle
contrade, e si assicurò l'appoggio dei Milanesi, dei Parmigiani, dei
Bolognesi, e di molti altri popoli[340]. Bonifacio d'Este si unì in suo
favore ad Ezzelino ed a Salinguerra; ma per lo contrario il marchese
Azzo d'Este, staccandosi dal primo imperatore che onorasse la sua
famiglia, strinse alleanza col papa, e ricominciò nella Venezia la
guerra contro il partito ghibellino.
[337] _Vita Innoc. III, §. 134. e seg. p. 562_ — Queste sedizioni
incominciarono l'anno 1208; ma ci assicura Raynaldo, che furono pure
eccitate da Ottone. _An. Eccles. 1208 §. 7. p. 158._
[338] Datato a Poggibonzi l'otto delle calende di novembre 1209.
_Istoria Pisana di Flaminio del Borgo, diss. IV, p. 170._
[339] _Ricardus de sancto Germano Chron. p. 983._
[340] _Ant. Ital. med. ævi, dissert. LI, t. IV, p. 608_.
Dal canto suo non trovò Innocenzo nella lega guelfa di Toscana tutto
quell'appoggio che ne sperava, ma fu invece soccorso dai Genovesi, dai
Pavesi, dai Cremonesi e dal marchese di Monferrato; ma più che in
tutt'altro sperava in Federico II, di cui non aveva accettata la tutela
che per avere in mano un principe da opporre qualunque volta lo credesse
agl'imperatori che avrebbero la sventura di spiacergli per la troppo
loro potenza, senza aver bisogno di prendersi cura de' suoi reali
interessi. In quest'anno medesimo trattò un matrimonio tra questo
giovane re, e Costanza figliuola del re d'Arragona, assicurandone in tal
modo l'alleanza[341]; entrò poi in trattative con Filippo re di Francia,
e con altri signori tedeschi per fare eleggere imperatore Federico,
rappresentandoglielo come ingiustamente spogliato de' suoi diritti.
[341] Sembra che tale matrimonio si proponesse l'anno 1201 dal re
d'Arragona. _Innoc. Epist. l. V. ep. 51 — Od. Rayn. 1202. §. 6. p.
73._
Informato Ottone di queste pratiche, pensò che il nemico da abbattere
prima d'ogni altro era Federico, il quale già disponevasi a disputargli
la corona. Gli dichiarava perciò la guerra ed invadeva il regno di
Napoli, ove incontrava pochissima resistenza. Monte Cassino, Capoa,
Salerno, Napoli gli s'arresero ben tosto; e, malgrado le scomuniche del
papa, non perdette alcuno de' suoi partigiani[342]. Le cose di Ottone
procedevano con tanta prosperità, che poteva sperare di balzare in breve
dal trono il giovane Federico, che dai soldati era chiamato il re dei
preti; quando le notizie d'una generale sommossa in Germania
l'obbligarono ad abbandonare l'Italia. Siffredo, arcivescovo di Magonza,
aveva pubblicato contro l'imperatore una bolla di scomunica,
dichiarandolo decaduto dalla dignità imperiale. E perchè la bolla avesse
effetto, eransi contro di lui collegati l'arcivescovo di Treveri, il
langravio di Turingia, il re di Boemia, il duca di Baviera ed il duca di
Zeringuen, a ciò specialmente istigati da Filippo Augusto di Francia,
personale nemico d'Ottone. Questi lasciò l'Italia dopo avere in due
generali assemblee esortati i baroni del Regno di Napoli, poi quelli
delle città libere di Lombardia, a conservarsi fedeli, e passò in
Germania a sostenervi una sfortunata guerra, nella quale ebbe ben tosto
a fronte il suo antagonista Federico II[343].
[342] _Richardus de sancto Germano Chron. p. 983. — Abbas Usperg.
Chron. p. 313._
[343] _Abbas Uspergensis Chron. p. 313._
Benchè si fosse variato l'oggetto della lite tra le fazioni guelfa e
ghibellina, e che i Ghibellini si trovassero momentaneamente uniti al
papa, mentre molti Guelfi, diretti da un imperatore guelfo, eransi
dichiarati i difensori dei diritti dell'Impero[344], i Lombardi furono
generalmente fedeli non ai rispettivi principi, ma alle persone ed al
nome della loro fazione. Nella guerra della lega lombarda, Pavia,
Cremona ed il marchese di Monferrato avevano combattuto per la famiglia
ghibellina; l'istesse città s'impegnarono pure di difendere Federico II,
l'erede di questa famiglia. Questo giovane re, allora in età di
dieciotto anni, essendone richiesto dai principi tedeschi suoi
partigiani, s'avviò verso la Germania per riclamare la corona imperiale.
Passando per Roma, ricevette la benedizione del papa, indi s'imbarcò e
giunse a Genova in aprile del 1212 con quattro galere. Colà seppe che
tutto il partito guelfo di Lombardia aveva prese le armi per chiudergli
il passaggio; onde gli fu forza di rimanere in Genova tre mesi,
aspettando l'opportunità di attraversare il paese nemico, e dar tempo ai
suoi partigiani di riunire le loro forze[345]. Soltanto il 15 giugno
partiva da Genova alla volta di Pavia, dopo aver ricevuti dai Genovesi
considerabili soccorsi. Il partito ghibellino ne' paesi che doveva
attraversare, era assai debole. Le città d'Alessandria, Tortona,
Vercelli, Acqui, Alba ed il marchese Malaspina eransi uniti ad
attraversargli il passaggio avanti che arrivasse a Pavia[346]; ma egli
giunse a Pavia per la strada d'Asti senza incontrarli, e senza che gli
accadesse alcun sinistro. I Guelfi vollero vendicarsene avanzandosi sul
territorio pavese, ma ne furono respinti con grave perdita. Restavagli
da attraversare la Lombardia superiore, lo che rendevasi ancora più
difficile, poichè per passare da Pavia a Cremona, prima città a lui
favorevole, doveva toccare il territorio piacentino, o il milanese, i di
cui passaggi erano attentamente custoditi da quei repubblicani[347]. Il
marchese Azzo d'Este erasi avanzato fino a Cremona per incontrarlo, e
teneva disposta una scorta che doveva unirsi a quella dei Pavesi; ma nè
gli uni nè gli altri avevano bastanti forze per attaccare il corpo dei
Milanesi appostato sulle rive del Lambro. Federico, cui ogni ritardo
poteva diventar fatale, credette di dover tutto arrischiare, ed
approfittando delle dense tenebre d'una notte tentò il passaggio del
fiume, e giunse felicemente a Cremona; e soltanto la scorta pavese fu
assalita, retrocedendo, dai Milanesi, e fatta quasi tutta
prigioniera[348]. Da Cremona avanzandosi Federico coll'assistenza del
marchese d'Este non era più esposto a grandi rischi, sicchè per la
strada di Mantova, Verona[349] e Trento giunse a Coria nei Grigioni, ove
incontrò i suoi primi partigiani tedeschi, ed in numero assai maggiore
gli si fecero in contro a Costanza; e finalmente quando arrivò ad
Aquisgrana, vi fu coronato re de' Romani, mentre il suo competitore
Ottone essendo stato battuto presso Brisacco, fu forzato di rivolgere le
sue armi contro Filippo Augusto, dal quale disfatto in vicinanza di
Bouvines, non ebbe più forze bastanti per affrontare il suo rivale[350].
[344] Il nome di Guelfi e di Ghibellini fu in questi tempi più
universalmente adottato; perchè l'antica denominazione di partito
dell'Impero e di partito della Chiesa era divenuta un controsenso.
[345] _Annal. Genuens. Continuat. Caffari l. IV, p. 403._
[346] _Ann. Genuens. Contin. Caffari l. IV, p. 403._
[347] _Galvan. Flam. c. 244, p. 664, t. XI._
[348] _Sicardi Epis. Cremon. Chron. p. 623, t. VII._
[349] _Chronic. Veronense t. VIII, p. 623._
[350] _Il 27 luglio 1214 — Conradus Abbas Usperg. Chronicon p. 319._
Tocchiamo finalmente l'epoca in cui la più illustre, e, per lungo tempo,
la più potente repubblica de' secoli di mezzo, Fiorenza, incomincia a
chiamare a se lo sguardo dello storico colla prima scissura ch'ebbe
luogo nel suo seno l'anno 1215.
Firenze non fu da principio probabilmente che un sobborgo di Fiesole,
antica città degli Etruschi, e per tale cagione l'epoca precisa della
sua fondazione trovasi avviluppata in qualche difficoltà[351]. Il
dittatore Lucio Silla la fece colonia romana, e segnò il primo le mura
della nuova città lungo le ridenti rive dell'Arno, ai piedi degli
Appennini in mezzo a colline coperte d'ulivi, di fichi, e di tutti gli
alberi de' climi più caldi.
[351] _Istorie Fiorent. di Leonardo Aretino, traduzione
dell'Acciajuoli lib. I, p. 4. Ediz. veneta 1476._
Poche città furono dalla natura più avvantaggiate di Fiorenza. Malgrado
il calore spesso grandissimo, l'aria è sana, limpide acque scendono
dall'Appennino, che la magnificenza dei cittadini fiorentini impiegò ne'
secoli di mezzo ad ornare e rinfrescare la città con sontuose fontane.
La pianura che dalle porte della città si stende nella val d'Arno
inferiore, è coperta di gelsi e di viti maritate agli alberi, ed è
feconda di grani d'ogni genere, facendovisi cinque diversi raccolti
nello spazio di tre anni[352]. Dalla banda degli Appennini innalzasi un
anfiteatro di ridenti colli sui quali raccogliesi il più squisito olio,
ed i più squisiti vini d'Italia; più a dietro le alte montagne coperte
di vaste foreste di castagni offrono alla povertà un nutrimento, che non
domanda che il lavoro di raccogliere i frutti che maturano ogni anno.
[352] Veggasi il _Quadro dell'Agricoltura toscana_ dell'autore di
questa istoria. Un _Vol. in 8.º, Ginevra 1802._
Il Mugnone ed altri ruscelli arricchiscono le terre da loro inaffiate; e
l'agricoltore deriva dall'Arno medesimo una parte delle sue acque.
Questo fiume che nella più calda estate lascia quasi all'asciutto il suo
letto, lo riempie di nuovo nella stagione piovosa, ed apre una facile e
pronta comunicazione con Pisa e col mare per mezzo di leggieri barche.
Firenze ornata, fino ne' tempi di Silla, di terme, di teatri,
d'acquedotti, fu quasi affatto rovinata da Totila, re dei Goti, nella
guerra che questi dovette sostenere contro i generali di
Giustiniano[353]. Fu in seguito rifabbricata da Carlo Magno, ed impiegò
i quattro secoli posteriori al regno del suo nuovo fondatore nel
perfezionamento della sua amministrazione municipale; nel qual tempo
obbligò tutti i gentiluomini del vicinato a farsi cittadini fiorentini
sottomettendo i loro piccoli feudi alla sua giurisdizione. Fino al 1207
fu governata da consoli scelti tra i migliori cittadini, e da un senato
di cento membri. I consoli rimanevano in carica un anno, e ne veniva
nominato uno prima dai quattro, poi dai sei quartieri; ma del 1207 i
Fiorentini imitarono ciò che vedevano praticarsi da tutte le altre
città, e chiamarono un podestà straniero e gentiluomo[354][355], al
quale affidarono il carico d'eseguire gli ordini del comune, di far
decidere dai suoi giudici i processi civili, di pronunciare egli e di
far eseguire le sentenze criminali, affinchè, dicono gli storici
fiorentini, verun cittadino non incontrasse l'odio cui poteva dar luogo
la pubblica vendetta, ed affinchè non si lasciasse alcuno sedurre dalle
preghiere, dall'affetto di famiglia, o da timore, a trascurare il
mantenimento dell'ordine pubblico. Gualfredotto di Milano fu il primo
podestà di Fiorenza, cui fu dato per sua abitazione il palazzo del
vescovo, conservando in pari tempo i consoli incaricati di tutti gli
altri rami della pubblica amministrazione.
[353] _Leonardo Aret. l. I, p. 30_ — _Procopii Cæsariensis de Bello
Gotico l. III, c. 5. p. 117. Edit. Veneta._
[354] _Istoria fiorentina di Ricordano Malespini c. 99. Scrip. Rer.
Ital. t. VIII. p. 942_ — Giovanni Villani _l. V. c. 32. t. XIII. p.
146_.
[355] A questi autori del secolo decimoquarto, oltre le storie
fiorentine di Niccolò Machiavelli, possono aggiungersi quelle di
Lorenzo Pignotti pubblicate nel decorso anno. _N. d. T._
Quantunque la nobiltà fiorentina, che fino a tale epoca aveva
esclusivamente governata la repubblica, non potesse rimanersi del tutto
imparziale nelle contese degl'imperatori e dei papi, e specialmente in
quella di Ottone IV con Innocenzo III, nulla però accadde che ne
alterasse la pace interna. La repubblica aveva presa parte alla lega
toscana, ma in appresso non si curò troppo di sostenere una
confederazione ben tosto dimenticata: e malgrado le divergenti opinioni
de' gentiluomini, i magistrati erano determinati di tenersi neutrali,
quando una particolare contesa di famiglia, riscaldando tutt'ad un
tratto lo spirito di partito, strascinò i Fiorentini in sanguinose
risse, che dopo essersi tenute vive, senza deciso vantaggio dell'una o
dell'altra parte, trentatre anni, ebbero fine coll'esiglio dalla città
d'un intero partito, e coll'obbligare la repubblica a figurare
eminentemente nelle successive guerre d'Italia.
Tra le famiglie che manifestavano attaccamento alla causa del papa
primeggiava quella dei Buondelmonti, altra volta signori di Montebuono
in val d'Arno di sopra. Messer Bondelmonte de' Buondelmonti aveva
promesso di sposare una fanciulla degli Amedei, famiglia alleata agli
Uberti, e di conosciuto attaccamento al partito imperiale[356]. Un
giorno Bondelmonte cavalcando per la città fu chiamato da una
gentildonna della casa Donati, la quale, rimbrottatolo d'essersi alleato
con una famiglia a lui sconveniente, passò a deridere la figura della
sposa. «Io ne aveva, gli soggiunse, tenuta una in serbo per voi, che
avreste certamente preferita;» e presolo per la mano lo condusse
nell'appartamento di sua figlia, ch'era sopra ogni credere bellissima.
Bondelmonte invaghito e infiammato d'amore, non riflettendo alla data
fede, la chiese e l'ottenne in isposa; e gli Amedei non seppero ch'egli
mancava alla convenzione fatta con loro se non quando era già sposo
d'un'altra. Invitarono subito tutti i parenti a riunirsi presso di loro,
gli Uberti, i Fifanti, i Lamberti ed i Gangalandi, ed esposero
l'affronto che avevano ricevuto, chiedendo consiglio intorno alla
vendetta che più si converrebbe al presente caso. Mosca Lamberti osò
dire il primo, ma con parole equivoche, che solo la morte poteva lavare
tanta offesa[357]; perchè la mattina di Pasqua mentre Bondelmonte
attraversava sopra un cavallo bianco Ponte Vecchio fu assalito dai capi
di queste famiglie, unite non solo dalla recente ingiuria, ma ancora
dall'attaccamento alla causa imperiale, ed ucciso presso alla statua di
Marte protettore di Fiorenza pagana, che ancora rimaneva in piedi.
[356] _Ricordano Malesp. Istor. fiorent. c. 104, p. 945 — Gio.
Villani l. V, c. 38, p. 150 — Coppo de Stefani l. II. — Delizie
degli eruditi toscani t. VII_ — Questi tre scrittori si copiavano
l'un l'altro quasi senza variazione di vocaboli; e Machiavelli in
principio del II. _lib. delle sue storie fiorent._ replicò il loro
racconto. _Ediz. del 1796. p. 90._
[357] La sua risposta fu il proverbio, _cosa fatta capo ha_, che
diventò poi parola di sangue, la quale non poteva pronunciarsi senza
far fremere i repubblicani di Fiorenza.
Poichè fu sparso il primo sangue, tutte le nobili famiglie si
pronunciarono per gli aggressori, o per il contrario partito, adottando
a un tempo una fazione nella gran lite della Cristianità, che s'aggiunse
a questa rissa di famiglia. Si dichiararono pei Bondelmonti e per il
partito guelfo quarantadue principali famiglie[358], di cui gli antichi
storici ci diedero i nomi: e ventiquattro uguali famiglie si associarono
agli Uberti ed alla causa dei Ghibellini. Così, fatti nemici gli uni
degli altri, tanti potenti cittadini battevansi continuamente, e comechè
tutti innalzassero torri e fortificassero i loro palazzi, rimasero
trentatre anni nella medesima città senza aver mai fatto verun accordo.
Ma la notte della Candelora del 1248 la parte guelfa fu costretta per la
prima volta di abbandonare la città, che, ritirandosi, fu esigliata
dalla pubblica autorità, la quale fino a tale epoca aveva mostrato di
volere con mano imparziale comprimere le due fazioni castigando
indistintamente i perturbatori del pubblico riposo.
[358] _Ricordano Malespini, c. 105, p. 946._
Trentatre anni di non interrotta guerra entro le mura di Firenze non
solo produssero l'effetto di avvezzare alle armi la nazione, e di
prepararla in tal maniera alle sue future conquiste, ma diedero altresì
un particolare carattere all'architettura della città, carattere non
affatto perduto al presente, perchè i nuovi architetti, senza rendersi
ragione dello stile nazionale, lo imitarono nei loro edificj. I palazzi
fiorentini sono masse quadrate pesanti, il di cui principale ornamento
consiste nella solidità[359]. Sono grosse muraglie bugnate, porte alzate
sopra il livello del suolo, larghe anella di ferro e di bronzo in cui
collocavansi i fanali all'occasione di pubbliche illuminazioni, o
destinate a portare gli stendardi d'una fazione: altronde non vi si
vedevano nè colonne, nè peristili, o cosa alcuna ove l'architettura
possa mostrar grazia e leggerezza. Firenze si fa conoscere all'aspetto
suo per la città dei nobili, la città della forza individuale, la città
ove l'autorità pubblica era talvolta debole, ma dove ognuno era padrone
e signore nella propria casa.
[359] Il palazzo Strozzi in _piazza dell'Erbe_ ed il palazzo
Ricardi, altra volta dei Medici, sono monumenti di questo genere
d'architettura. Sono opere ambedue fatte in sul declinare del secolo
XV; ma il gusto de' loro fondatori erasi formato sopra più antichi
modelli.
Nel lungo regno di diciott'anni Innocenzo III aveva forse ottenuto più
che non isperava a favore dell'autorità ecclesiastica accresciuta con
dispendio di quella degl'imperatori. Il regno di Sicilia omai le era
affatto subordinato. Federico aveva un figlio della novella sua sposa, e
quando partì per andare in Germania, Innocenzo pretese che questi fosse
allora coronato re di Sicilia, e che a lui cedesse il padre
l'amministrazione del regno sotto la protezione della santa sede, da cui
avrebb'egli poi ottenuta la corona imperiale.
La città di Roma, dopo avere tentato invano di cambiare la propria
amministrazione, erasi trovata in preda a tante estorsioni sotto il
governo d'un senato repubblicano, che spontaneamente si sottomise ad un
senatore nominato dal pontefice. Tutte le città vicine a Roma erano
state conquistate da Innocenzo, e gli si conservavano subordinate.
Sembrava inoltre che ricaderebbe sotto il suo dominio la Marca d'Ancona,
poichè Azzo VI d'Este che n'era stato da lui investito[360], era morto
poco dopo avere condotto Federico in Germania, e del 1215 era pur morto
il suo maggior figliuolo Aldobrandino, nel fiore della gioventù. Il
secondogenito Azzo VII, marchese d'Este, poteva a stento conservare il
patrimonio de' suoi maggiori, non che pensar potesse a tener in dovere
gli Anconitani che si dichiaravano indipendenti. Malgrado le intestine
loro discordie, le città toscane mostravansi tutte, ad eccezione di
Pisa, più affezionate al partito della Chiesa che a quello dell'Impero;
e se nella Lombardia le più potenti repubbliche avevano abbracciata la
causa d'Ottone, aveva la fortuna favorite in modo le più deboli
attaccate alla Chiesa, che i Cremonesi avevano disfatta interamente
l'armata milanese, tolto loro il carroccio, e fatti prigionieri più
migliaja di soldati[361].
[360] Azzo VI morì in novembre del 1212.
[361] Ciò accadde nel giorno di Pentecoste del 1213. _Sicardi Chron.
p. 624 — Campi Istoria di Cre. l. II. p. 39 — Manip. Flor. Galvanei
Flam. c. 246. p. 655._
Ma se l'amministrazione di questo grande fondatore della monarchia
pontificale ottenne portentosi successi, la sua condotta non andò esente
da rimproveri. Benchè avesse soccorso Federico nelle prime sue imprese
contro Ottone, poichè questi fu sconfitto, non accordò mai al suo
protetto la corona imperiale onde non farlo troppo potente.
Nell'amministrazione del regno di Sicilia non andò senza taccia
d'infedeltà, avendo usurpati in pregiudizio del re suo pupillo i
privilegi della corona di conferire i beneficj ecclesiastici[362],
disponendo dei feudi del regno a vantaggio de' suoi favoriti, e tra gli
altri di suo nipote, cui regalò la contea di Sora[363]; trattando coi
ribelli in proprio nome, e non riclamando per il suo augusto pupillo i
diritti che aveva all'elezione di re dei Romani, se non dopo essersi
successivamente alleato con Filippo e con Ottone IV, in pregiudizio di
Federico, di cui ne cedette loro i diritti a fronte dei proprj vantaggi.
Nè più dilicata fu la condotta di questo papa verso gl'imperatori
d'Oriente, siccome avremo opportunità di osservarlo nel seguente
capitolo. Abbiamo già parlato dell'insultante alterigia con cui trattò i
monarchi d'Occidente, e del frequente scandaloso abuso da lui fatto
degl'interdetti e delle scomuniche. Viene inoltre accusato d'avere il
primo fatta predicare la crociata contro i Pagani della Livonia, e
d'avere accordato a coloro che avevano fatto voto di andare in soccorso
di Terra santa, di portare invece le armi nella Livonia per farvi una
guerra inutile; dimenticando l'affezione dei luoghi santi, la difesa
della cristianità contro l'aggressione nemica, e la protezione dovuta ai
fratelli d'armi esposti ai più grandi pericoli. Innocenzo acconsentì a
questa crociata motivata da sola cieca e crudele voglia di
persecuzione[364]. Ma la più vergognosa macchia che disonori la memoria
di questo pontefice, è l'istituzione dell'inquisizione, e la sanguinaria
predicazione dei monaci di S. Domenico per la più atroce delle crociate,
quella contro gli sventurati Albigesi[365].
[362] _Giannone Istoria civile l. XIV. c. 3._
[363] _Ibid. Lib. XV. c. 14 — Rich. de sancto Germano Chron. p.
982._
[364] _Annales Eccles. Oderici Rainaldi ann. 1204, § 56 p. 117._
[365] Il Lettore Cattolico si ricordi che le presenti osservazioni
sono scritte da un Protestante. Del resto i sudditi Austriaci sanno
che l'Augusta Imperatrice Maria Teresa, la di cui memoria sarà
sempre cara agli amici della religione e della clemenza, abolì ne'
suoi stati di Lombardia il tribunale dell'inquisizione,
repristinando i Vescovi nei naturali loro diritti di giudici e di
conservatori della fede, e dissoggettando i suoi sudditi da
qualunque tribunale non dipendente dalla legittima sovrana autorità.
_N. d. T._
A me non s'apparterrebbe il parlare della venuta in Europa de'
Pauliciani[366], setta di Manichei, che scacciati dall'Asia dalle
persecuzioni degl'imperatori d'Oriente e trapiantatisi nelle vicinanze
del monte _Haemus_, s'avanzarono lentamente verso l'Occidente, e
sparsero tra i Latini i primi semi della riforma; ma perchè questi
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