Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 04

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Adriano poterono all'indomani entrare senza pericolo e senza incontrar
resistenza in quelle deserte strade, e celebrare la ceremonia
dell'incoronazione in onta de' Romani che, ritenuti al di là delle
barricate, fremevano di sdegno, vedendo che il nuovo imperatore credeva
di non abbisognare dei loro suffragi. Poichè Federico ricevette dalle
mani di Adriano IV nella basilica di S. Pietro la corona d'oro, si
ritirò co' suoi soldati nel campo formato fuori delle mura[82].
[80] _Anast. Bibl. de vita Leonis IV, p. 240. Sc. Rer. It., t. III._
[81] Si chiama oggi Ponte S. Angiolo, prima _Pons Aelii Adriani_.
[82] _Otto Fris. L. II, c. 23, p. 724._
Tosto che i Romani videro levarsi le guardie che difendevano il ponte
sul Tevere, si precipitarono entro la città Leonina, e massacrarono
tutti coloro del seguito dell'imperatore che rimasti erano presso al
Vaticano. All'avviso di questa sommossa popolare, riunì all'istante
Federico i suoi soldati, e si portò nella città Leonina contro gli
ammutinati. La battaglia s'impegnò innanzi a castel sant'Angelo alla
testa del ponte, e tra il Gianicolo ed il fiume presso ad una fonte di
cui ora non rimane verun avanzo: nel primo luogo combattevano gli
abitanti della città, nell'altro i transteverini. Tale era già l'effetto
della disciplina repubblicana, che i Romani sostennero tutto il giorno
lo sforzo dell'armata imperiale benchè composta delle migliori truppe
tedesche. Furono però alla fine respinti, lasciando sul campo di
battaglia mille morti e duecento prigionieri. All'indomani l'imperatore,
che incominciava a mancar di viveri, s'allontanò da Roma col papa e
s'accampò presso Tivoli. Colà celebrò la festa di S. Pietro e Paolo,
nella quale il papa, dopo la messa, assolse tutti i soldati che avevano
massacrate le sue pecore, dichiarando, _non essere delitto il versare il
sangue umano per sostenere il potere de' principi, e vendicare i diritti
dell'impero_[83].
[83] _Otto Frising. Lib. II, c. 24, p. 725._ — Se l'imperatore aveva
realmente diritto di sovranità sovra di Roma, non è meraviglia che
il papa facesse la surriferita dichiarazione. _N. d. T._
Intanto l'avvicinamento della canicola moltiplicava nell'armata le
febbri pestilenziali; onde, per evitare la fatale influenza
dell'eccessivo caldo, Federico condusse le sue truppe nelle montagne del
ducato di Spoleti, la di cui capitale, siccome tutte le altre città
italiane, reggendosi a comune, ebbe la sventura di muover la bile
dell'imperatore. Il fisco pretendeva dalla città di Spoleti un residuo
pagamento di ottocento lire per diritto di fodero, e per questo titolo
veniva imputata d'aver defraudati i diritti reali. Inoltre i consoli di
Spoleti avevano arrestato il conte Guido Guerra, uno de' più potenti
gentiluomini toscani, che, di ritorno da una legazione, voleva
raggiungere l'armata. Federico adunque spinse le sue truppe contro gli
Spoletini, che coraggiosamente affrontarono gli assalitori; ma attaccati
dalla cavalleria tedesca, non ne sostennero l'urto, e fuggirono verso la
città inseguiti dai vincitori, che, entrandovi coi fuggiaschi, la misero
a fuoco prima d'averla interamente spogliata. Due giorni rimasero i
Tedeschi in quelle vicinanze per dividere le spoglie degl'infelici
Spoletini, sottratte alle fiamme[84].
[84] _Idem. Ibid. p. 726._
I baroni pugliesi ch'eransi rifugiati presso l'imperatore, lo andavano
esortando a portare le sue armi negli stati del re di Sicilia. Ruggeri
il primo dei re normanni era morto a Palermo il 26 febbrajo del 1153 in
età di 56 anni, dopo un regno glorioso, ma in sul finire infelicissimo;
perciò che nell'ultimo anno di sua vita perdette i suoi due maggiori
figliuoli Ruggeri ed Alfonso, le di cui virtù mostravangli degni
successori degli eroi normanni. Guglielmo I, il terzo de' suoi figli,
uomo pusillanime ed incapace di governare, erasi perciò abbandonato alla
direzione di un oscuro cittadino di Bari, chiamato Mago, ch'era stato da
lui nominato cancelliere e grande ammiraglio, per cui aveva indisposta
la nobiltà, e dato occasione ad una sommossa popolare in Puglia[85].
Roberto, principe di Capoa, alla testa degli esuli era entrato nella
Campania, per farla ribellare; e tutte le città gli avevano aperte le
porte, tranne Napoli, Amalfi, Salerno, Troja e Melfi. Emmanuele Comneno,
imperatore di Costantinopoli, faceva nello stesso tempo attaccare da una
flotta Brindisi e Bari, che gli opponevano una leggiere resistenza.
Tutto il regno di qua dal Faro credevasi perduto dal monarca normanno,
se Federico, come ne aveva dato voce, si fosse avanzato per terminarne
la conquista: ma i Tedeschi impazienti di restituirsi alla loro patria,
onde rimettersi dalle fatiche e dalle malattie di così micidiale
campagna, non permisero all'imperatore di prolungare la guerra. Fu
dunque costretto di licenziare la sua armata in Ancona, ove molti de'
signori che l'avevano seguito, s'imbarcarono per Venezia; altri,
attraversando la Lombardia ed il Piemonte, valicarono le Alpi della
Savoja. Federico ch'erasi conservato un considerabile corpo di truppa
passando per la Romagna, il Bolognese ed il Mantovano, si ridusse nel
territorio veronese[86].
[85] _Romualdi Salernit. Chron. p. 197. t. VII._
[86] _Otto Frising. l. II, cap. 25._
Era costumanza de' Veronesi di non accordare alle truppe imperiali il
passaggio per la loro città. Per non esservi obbligati usavano perciò di
fabbricare fuori delle mura un ponte sull'Adige. Quando Federico entrò
sul loro territorio cogli avanzi d'un'armata che aveva portato la
desolazione in tutta l'Italia, e che da Asti fino a Spoleti aveva
segnata la sua marcia cogl'incendj e coi massacri, lusingavansi, se
riusciti fossero a dividerli, di distruggerli affatto, e vendicare essi
soli la Lombardia. Il ponte di battelli costrutto al di sopra della
città, era, dice Ottone di Frisinga[87], un laccio teso ai Tedeschi
piuttosto che un ponte, perchè le barche che lo formavano erano legate
soltanto quanto bastava per resistere alla forza della corrente; e
mentre l'armata lo attraversava, enormi masse di legnami, che facevansi
scendere lungo il fiume, dovevano urtarlo e romperlo. Un leggiere errore
di calcolo sul tempo necessario perchè dal luogo in cui venivano posti
nel fiume giungessero i legni fino al ponte, fece andar a vuoto il
progetto. Gl'imperiali avendo affrettata la marcia onde sottrarsi al
furore dei paesani che gl'inseguivano per vendicarsi delle loro rapine,
non solo ebbero tempo di passare il ponte prima che si rompesse, ma lo
avevano di già attraversato molti degl'insorgenti che tenevano lor
dietro, i quali, rimasti poi separati alcuni istanti dai loro patriotti,
furono tutti massacrati. Pure l'imperatore non si trovò abbastanza forte
per vendicarsi di coloro che gli avevano preparata tale insidia; onde
proseguendo il suo viaggio verso le montagne, rientrò in Baviera per
Trento e Bolzano un anno dopo la sua partenza.
[87] _De Gestis Frid. I, l. II, c. 26._


CAPITOLO IX.
_Continuazione della guerra di Federico Barbarossa colle città
lombarde. — Primo assedio di Milano; assedio di Crema; presa e
rovina di Milano._
1155 = 1162.

I consoli milanesi non avevano aspettato che Federico licenziasse le sue
truppe per mandare ad effetto le promesse fatte agli abitanti di
Tortona. Quando aveva di poco abbandonato Pavia per recarsi a Roma, essi
presentarono al popolo quegl'infelici fuorusciti, vittime onorate del
loro attaccamento alla causa della libertà lombarda, ed ottennero dal
parlamento, o consiglio generale, il decreto per rifabbricar Tortona a
spese del pubblico. Il tesoro era esausto, ma i cittadini erano avvezzi
a soccorrerlo. Coloro che non potevano dar danaro, offrivano le loro
braccia allo stato. Gli abitanti di due porte della città, che ne
formavano il terzo, furono incaricati di tale spedizione. Gentiluomini e
plebei, cavalieri e pedoni, tutti partirono assieme, e nello spazio di
tre settimane in cui rimasero a Tortona, a vicenda soldati e muratori,
respinsero i Pavesi che volevano impedire il rifacimento della città, e
nel medesimo tempo rialzarono le mura e le rovinate case[88]. Alle porte
Ticinese e Vercellina furono surrogate la Renza e la Romana; e mentre
toccava a quest'ultima la guardia, i Milanesi accantonati nel sobborgo
di Tortona, furono sorpresi dalle milizie di Pavia, e costretti di
salvarsi nella città alta, abbandonando la maggior parte dei loro
effetti e munizioni. Altri rifugiaronsi nella chiesa mentre i loro
fratelli d'armi rispingevano dalle mura non ancora ultimate gli
assalitori. Dopo la battaglia i consoli fecero scrivere sulla porta
della medesima chiesa i nomi di coloro che disperando della salute
pubblica vi avevano cercato un rifugio con dispendio del proprio
onore[89].
[88] _Otto Mor. Hist. Ver. Land. p. 983. — Trist. Calchi Hist.
Patriæ l. VIII, p. 223._
[89] _Sire Raul de Gest. Frid. I, p. 1176._
I Milanesi non si limitarono a ristabilire Tortona, ed a richiamarvi i
loro abitanti, ma si disposero inoltre a punire coloro che, comunque
ugualmente interessati alla libertà d'Italia, eransi uniti
all'oppressore di quella. Essi ristabilirono e fortificarono il ponte
sul Ticino presso Abbiategrasso, che era stato abbruciato da Federico:
per il qual ponte, aprendo loro i territorj della Lomellina e di
Vigevano da loro sottomesse, potevano, quando gli piaceva, attaccare i
paesi del Pavese, del Novarese, del Monferrato. E per tal modo,
minacciando ad un tempo tutti i loro nemici, seppero approfittare di
così eccellente posizione per costringere i Pavesi ad una pace
umiliante, per battere il marchese di Monferrato, per impadronirsi di
molti castelli del Novarese, e ristabilire interamente la riputazione
delle loro armi, che dalle vittorie di Federico parevano messe in
fondo[90].
[90] _Carol. Sigon. de Regn. It. l. XII, p. 293. — Sire Raul p.
1179. — Trist. Calch. l. VIII, p. 225._
Nel tempo medesimo all'altra estremità del territorio erano entrati
nella vallata di Lugano ed avevano occupati circa venti castelli che
seguirono la parte imperiale. Avevano ristabiliti e fortificati i ponti
sull'Adda, fugati i Cremonesi che venivano ad attaccarli, ed assicurata
la subordinazione de' Lodigiani, di cui diffidavano con ragione[91].
[91] _Ibid._
Dopo la guerra disastrosa che loro aveva fatta Federico, chi avrebbe
creduto che le loro armi potessero trionfare in ogni lato della
Lombardia, ed i loro consoli impiegare cinquanta mila marche d'argento
nel fortificare la città ed i castelli dello stato?
L'energia dei Milanesi si comunicò ancora agli altri popoli attaccati
alla causa della libertà. I Bresciani ed i Piacentini resero più intima
l'antica alleanza, ed accrebbero le difese delle loro città. Tutta la
Lombardia prese contro i Tedeschi un aspetto imponente, e Federico non
tardò ad accorgersi che lungi dall'avere assicurata sul suo capo la
corona d'Italia, non aveva la sua prima discesa ad altro giovato che a
renderlo più odioso, e meno rispettato de' suoi predecessori.
Il mezzogiorno d'Italia era stato il teatro di traversie ancora più
umilianti. Il principe Roberto di Capoa tradito dal suo vassallo
Riccardo dall'Aquila, conte di Fondi, era stato dato in mano di
Guglielmo re di Sicilia, che, dopo averlo barbaramente privato della
vista, lo aveva fatto perire nelle prigioni di Palermo[92]. I Greci che
sostenevano il suo partito, ed erano alleati dell'imperatore d'Occidente
e del papa, furono battuti a Brindisi[93], e quasi tutti i baroni
ribelli della Puglia presi e mandati al supplizio, o posti in ferri: per
ultimo papa Adriano, spaventato dai prosperi successi d'un nemico così
vicino e tanto potente, aveva fatto pace con Guglielmo, ed abbandonati
alla sgraziata loro sorte tutti coloro che per suo ordine, e per i suoi
vantaggi, eransi esposti a tanti travagli e pericoli[94]. Accordò al re
Guglielmo l'investitura della Sicilia, del ducato di Puglia, del contado
di Capoa, di Napoli, di Salerno, d'Amalfi, e della Marca. Il trattato
venne segnato a Benevento nella state del 1156, meno d'un anno dopo che
Federico aveva ricevuto la corona imperiale a Roma dalle mani del
papa[95].
[92] _Romualdi Salernit. Chronicon p. 198._
[93] _Willelmus Tyrius l. XVIII, c. 8. p. 937, Gesta Dei per
Francos._
[94] _Baronius Annales an. 1166, § 1._
[95] _Ibid. § 4.-9._
Questo monarca doveva bensì prevedere che il Pontefice dopo una pace,
forzatamente fatta, conserverebbe qualche riconoscenza per il principe
che lo aveva protetto; ma non già che Adriano, dopo essersi riconciliato
col re normanno, non meno potente alleato, che temuto nemico,
cercherebbe pretesti di umiliarlo. Alcuni signori tedeschi avendo
arrestato un arcivescovo di Svevia, il papa scrisse all'imperatore per
ottenere giustizia dell'oltraggio fatto alla Chiesa. In questa lettera
egli spiegava tutto l'orgoglio d'un successore d'Ildebrando avvezzo a
creare e deporre i re. I suoi nunzj presentandosi a Federico nella dieta
di Bezanzone, tennero un contegno che annunciava le pretese e
l'alterigia della corte papale. «Il beatissimo papa Adriano vostro padre
e nostro, ed i cardinali vostri fratelli, vi salutano,» dissero costoro:
indi lessero le lettere di cui erano apportatori, nelle quali fu
principalmente notata la seguente frase: «Noi ti abbiamo accordata la
corona imperiale e tutta la pienezza delle dignità mondane, nè avremmo
avuto difficoltà di accordarti altri maggiori beneficj se potevan
esservene di maggiori[96].» Così superbe parole eccitarono
maravigliosamente lo sdegno dell'altero monarca; più fortemente
inasprito dall'equivoco vocabolo di beneficio, _beneficium_, che usavasi
per indicare i feudi, o _beneficj conferiti_ dal signore, _Suserain_;
dimodochè il papa attribuivasi in alcun modo la supremazia sopra la
corona imperiale. Tutti i signori tedeschi presenti alla dieta
parteciparono del risentimento di Federico; onde senza degnarsi di
rispondere al papa, fu ordinato ai legati di sortire all'istante dal
regno di Germania.
[96] _Radevicus Frisingensis, Appendix ad Ottonem de rebus gestis
Friderici I. l. I, cap. 8. tom. VI. Rer. Ital._ Radevico fu canonico
di Frisinga che continuò l'istoria incominciata dal suo vescovo
Ottone. Noi siamo per congedarci da costui che pure è uno de' più
eleganti storici, illuminati ed imparziali de' mezzi tempi. Ottone
di Frisinga aveva sortiti illustri natali, essendo figliuolo di
Leopoldo marchese d'Austria e di Agnese sorella dell'imperatore
Enrico V: era fratello di Corrado III, re dei Romani, e zio di
Federico Barbarossa. Ci rimangono di lui due opere: una cronaca dal
principio del mondo fino a' suoi tempi pubblicata a Basilea in fog.
nel 1569, da Pitteo, divisa in otto libri. Noi abbiamo più volte
citato il settimo, che contiene il secolo precedente al suo.
L'ottavo è consacrato alla storia religiosa. L'altra sua opera è
ancora più interessante, contenendo il racconto della prima discesa
di Federico in Italia, ed è divisa in due libri. Fu pubblicato nel
t. VI, Rer. Ital. Ottone morì del 1158. Benchè il suo continuatore
Radevico non sia senza merito, non compensa la perdita d'Ottone, che
è quasi il solo autore che sparga qualche luce sopra un secolo
barbaro ed oscuro.
L'imperatore sentiva la necessità di tornare quanto prima potesse in
Italia, e nella primavera del 1157 invitava tutti i principi a recarsi
alla dieta d'Ulma coi loro vassalli per la festa di pentecoste del
susseguente anno 1158, a fine di passare di là in Italia, onde forzare i
Milanesi a sottomettersi all'Impero[97]. Furono in pari tempo mandati
deputati ai feudatari d'Italia per annunciar loro questa spedizione[98].
[97] _Otto Fris. l. II, c. 31._
[98] _Radevic. Fris. l. I, c. 19._
S'avvide allora il papa che Federico non era in modo lontano, che non
fosse più a temersi. Aveva già cercato di farsi favorevole il clero di
Germania, ma non aveva potuto staccarlo dagl'interessi dell'Impero:
(1158) scrisse quindi all'imperatore del 1158, e frammischiando
accortamente le più lusinghiere espressioni ai sentimenti di tenerezza e
di paterna affezione, spiegava la frase che aveva più adombrato quel
sovrano: «_beneficium_, scriveva, è un favore, e non un beneficio:
_conferire_ la corona non altro significa che l'averla posta sul vostro
capo: altro senso non venne da noi attaccato a questo vocabolo, ed in
tale occasione voi medesimo non potete negare che non abbiamo operato
verso di voi con amore.» Tale lettera calmò l'imperatore, che
riscontrandolo, assicurò il papa della sua amicizia e del desiderio che
nutriva di conservarsi amico della Chiesa[99].
[99] _Radev. Frisin. l. I, c. 22._
Intanto, all'avvicinarsi della Pasqua, la città di Ulma si andava
riempiendo di soldati, di modo che molti principi tedeschi, vedendo che
l'armata sarebbe troppo numerosa per tenere la stessa strada,
s'incamminarono di consenso dell'imperatore per diversi passaggi delle
Alpi, sicchè dal Friuli fino al grande s. Bernardo uscivano in Lombardia
da tutte le valli battaglioni tedeschi. Il duca d'Austria, quello di
Carinzia e gli Ungaresi tennero le strade di Canale, del Friuli e della
marca veronese; il duca di Zevingen valicò il s. Bernardo coi Lorenesi
ed i Borgognoni; gli abitanti della Franconia e della Svevia passarono
per Chiavenna e per il lago di Como; finalmente lo stesso Federico,
accompagnato dal re di Boemia, da Federico duca di Svevia e figliuolo di
Corrado, dal fratello di questo duca Corrado, conte palatino del Reno, e
dal fiore della nobiltà tedesca, discese in Italia per la valle
dell'Adige[100].
[100] _Idem cap. 25._
I Milanesi informati dell'avvicinamento di quest'armata, destinata a
soggiogarli, avevano tutto disposto per una vigorosa resistenza. Avevano
in particolare cercato d'assicurarsi della fedeltà e dell'ubbidienza de'
Lodigiani, di cui avevano ragione di temere. Le precauzioni prese a tale
oggetto sono una luminosa prova della buona fede degl'Italiani nel
dodicesimo secolo. Non chiesero ostaggi, nè posero guernigioni nei loro
castelli, ma andati a Lodi i consoli di Milano nel mese di gennajo,
chiesero che tutti gli abitanti del distretto, senza eccezione,
giurassero di ubbidire in ogni cosa agli ordini del comune di Milano. I
Lodigiani che avevano nel loro cuore stabilito di sottrarsi a quella
città, non vollero giammai prestare un giuramento che ne avrebbe loro
tolti i mezzi; si lagnarono che nella formola del giuramento non era
espressa la condizione, _salva la fedeltà dovuta all'imperatore_, lo che
essi ritenevano necessario per la tranquillità della loro coscienza,
essendo da precedente giuramento legati a questo monarca[101]. I consoli
per ridurli all'ubbidienza marciarono contro di loro alla testa delle
milizie milanesi, e gli tolsero i loro mobili, senza che questi
opponessero la più piccola resistenza. Passati due giorni, ultimo
termine loro accordato, i Milanesi presentaronsi di nuovo innanzi alle
borgate di Lodi; ma tutti gli abitanti, uomini, donne, fanciulli,
avevano abbandonate le proprie case, ed eransi rifugiati a
Pizzighettone. I Milanesi, dopo averle saccheggiate, le
incendiarono[102].
[101] _Otto Morena Hist. Laud. p. 995._
[102] _Ibid._
Benchè travagliati da questa guerra civile nell'istante della più
pericolosa invasione, i Milanesi non si scoraggiarono. Essi
ripromettevansi assai de' loro alleati i Bresciani, e sperarono che
avrebbero lungo tempo trattenuti i nemici. Furono infatti attaccati
dall'armata imperiale ne' primi giorni di luglio, ma dopo aver resistito
quindici giorni, spaventati dall'imminente loro pericolo, offrirono
ostaggi ed una grossa somma di danaro per prezzo della pace[103].
[103] _Radev. Frigius. l. I, c. 25._
Federico in mezzo al proprio campo tenne sul loro territorio una specie
di dieta, in cui proclamò un regolamento intorno alla disciplina
militare, il quale, non meno de' fatti storici, può farci conoscere la
maniera con cui di que' tempi si guerreggiava, ed i costumi del secolo
dodicesimo. Tale regolamento fu chiamato _la pace del principe_, perchè
destinato a prevenire le querele nel campo.
Per impedire le battaglie private, conviene offrire un mezzo di
reprimere e punire legalmente le ingiurie; e questo infatti è lo scopo
del primo articolo del regolamento, che proporzionando la pena alla
qualità dell'insulto, sulla deposizione di due testimoni non parenti
dell'istante, ordina, a seconda dei casi, la confisca dell'equipaggio,
il castigo delle verghe, il taglio de' capelli e della scottatura della
mascella, infine per gli omicidj, della morte. Ma in mancanza di
testimoni dovevano le cause d'ingiurie essere decise da un combattimento
giudiziario; oppure, se due schiavi avevano parte nel processo, colla
prova del ferro caldo.
Alcuni altri articoli sono destinati a proteggere i popoli ne' di cui
territorj l'imperatore aveva destinato di condurre l'armata. «Che il
soldato che spoglia un mercante, sarà obbligato di restituire il doppio,
e di giurare che ignorava che il derubato fosse mercante:» onde pare che
la mercatura fosse particolarmente protetta. «Quello che abbrucerà una
casa in città o in campagna, sarà battuto colle verghe, tosato e
scottato alla mascella. Colui che troverà vasi pieni di vino, non li
romperà nè taglierà i cerchi della botte, e si contenterà di prendere il
vino. Quando l'armata s'impadronirà d'un castello, i soldati porteranno
via tutto quanto vi si trova, ma non lo abbruceranno senz'ordine del
maresciallo. Quando un Tedesco avrà ferito un Italiano, se questi potrà
provare con due testimoni d'aver giurata la pace, il Tedesco sarà
castigato.» I ventiquattro articoli ond'è composto questo regolamento,
presentano tutti l'impronta dell'indisciplina e della barbarie; e se fu
noto ai Lombardi, non dovette ispirar loro troppa fiducia nell'armata
ch'entrava in paese[104].
[104] Tale regolamento viene riferito per intero da Radevico, lib.
I, c. 26. Un Tedesco contemporaneo, e suddito di Federico, chiamato
Guntero, fece un poema di 12 canti dei quattro libri d'Ottone di
Frisinga, e del continuatore Radevico. Gli ha quasi sempre
servilmente parafrasati ne' suoi versi, che pure sono i meno cattivi
dei poeti storici di questo secolo. Egli tradusse perfino questo
regolamento, lib. VII, p. 101, ciò che forma una strana sorte di
poesia. Il suo _Ligurinus_ si stampò in Basilea del 1569 in seguito
alla storia di Ottone di Frisinga per cura di Pitteo.
Nella stessa dieta furono citati i Milanesi a comparire per
giustificarsi della loro ribellione; i quali non avendo scosso ancora in
modo il giogo dell'Impero da non riconoscere certa tal quale
subordinazione al suo capo, ubbidirono alla citazione. I loro deputati,
dopo aver giustificata la condotta dei Milanesi, offrirono per taglia
una ragguardevole somma di danaro, che fu dall'imperatore rifiutata. La
dieta li dichiarò nemici dell'Impero, e l'armata ebbe ordine di
prepararsi all'assedio di Milano. I Milanesi avevano posti mille cavalli
al ponte di Cassano, il solo che avevano lasciato sull'Adda, che,
ingrossata dallo scioglimento delle nevi, sembrava sufficiente a
difendere il loro territorio, come l'aveva altre volte difeso contro le
incursioni de' Cremonesi. Ma il re boemo, scendendo lungo l'Adda fino a
Carnaliano, ove il fiume è più largo, lanciossi in acqua alla testa
della sua cavalleria, ed ora guadando, ora nuotando giugne all'opposta
riva perdendo in questo tragitto duecento uomini sopraffatti dalla
corrente[105]. Alcuni distaccamenti di Milanesi che marciavano lungo il
fiume incontrarono il re di Boemia che si avanzava verso Cassano.
Diedero questi il segno d'allarme alla cavalleria destinata alla difesa
del ponte, e che, trovandosi esposta ad essere presa alle spalle, non
poteva senza pericolo restare in quella posizione: onde ripiegò subito
verso Milano lontano poco più di dodici miglia dal fiume; e gli abitanti
della campagna, sentendo che i nemici erano penetrati nel loro
territorio, s'affrettarono di ripararsi entro le mura della città,
cacciandosi avanti i loro bestiami, e trasportando i più preziosi
effetti: e, come suole accadere, per iscusare la loro paura, esagerando
il numero de' nemici, accrebbero quella de' loro concittadini.
[105] _Otto Morena, p. 1007. — Sire Raul, p. 1180. — Radevic.
Frising. l. I, c. 29. — Gunterus in Ligurino, l. VII, p. 105._
Poi ch'ebbe passato il ponte di Cassano col rimanente dell'armata,
Federico, invece d'avanzarsi sopra Milano, attaccò e prese il castello
di Trezzo, indi quello di Melegnano, poi andò fino al fiume Lambro sulle
di cui rive era posta l'antica città di Lodi. Mentre stava accampato su
quelle rovine, i Lodigiani, che forzati ad abbandonare l'incenerita loro
patria, eransi rifugiati a Pizzighettone, si presentarono a lui,
portando delle croci in mano, siccome costumavano dì fare i
supplichevoli, e chiedendo un nuovo ricinto per fabbricarvi la loro
città distrutta dai Milanesi. Federico accordò loro quello di
Monteghezzone in riva all'Adda quattro miglia distante dalle ruine
dell'antica Lodi; e su questo rialto, che alquanto signoreggia il piano,
fece porre in sua presenza la prima pietra della città che tuttora
sussiste[106].
[106] _Otto Morena, p. 1009. — Joh. Bapt. Villanovæ, Laudis Pomp.
hist. ap. Grœvium, t. III, lib. II, p. 863._
Intanto eransi recati al campo imperiale quasi tutti i feudatarj
italiani, e le milizie della maggior parte delle città; onde trovavansi
colà riuniti più di quindici mila cavalli, e cento mila pedoni. Un
gentiluomo tedesco, lusingandosi che i Milanesi, spaventati da tanto
esercito, non oserebbero uscire dalle loro mura, partì da Lodi con circa
mille cavalli per segnalarsi con uno strepitoso fatto d'armi, insultando
i nemici dell'imperatore fino sulle loro porte; ma fu ricevuto in modo
dalle milizie milanesi, che, dopo un ostinato combattimento, rimase sul
campo di battaglia egli e quasi tutti i suoi soldati[107].
[107] _Radev. Frising. l. I, c. 31._
Due giorni dopo tale fatto d'armi, il sei o l'otto agosto, come alcuni
vogliono, l'imperatore andò ad accamparsi nel _Broglio_ di Milano
situato fuori di P. Romana[108]. Immenso essendo il circondario delle
mura, fortificate esternamente da larga fossa piena d'acqua[109],
conobbe Federico che non era possibile d'attaccar la città col montone,
le torri mobili, ed altri ingegni militari, che impiegavansi allora
negli assedj, e credette più prudente cosa di aspettare che l'immensa
popolazione di Milano venisse dalla fame costretta ad arrendersi; lo che
doveva accadere tra non molto, perchè que' cittadini, credendo
impossibile il chiuderli da ogni banda, non avevan fatti grandissimi
approvvigionamenti. Perciò l'imperatore divise l'armata in sette corpi
che pose innanzi alle porte, ordinando loro di coprirsi subito colle
trincee.
[108] _Idem l. I, c. 32. — Sire Raul, p. 1180._
[109] Radevico dice che la città aveva cento stadj di circuito.
Questa misura greca ugualmente straniera allo storico tedesco ed
agli assediati, non ci dà che un'idea assai inesatta. Le mura
presenti hanno circa sei mila tese di lunghezza.
Quello di questi corpi che più difficilmente poteva comunicare cogli
altri, era capitanato dal conte Palatino del Reno e dal duca di Svevia.
I Milanesi non tardarono ad accorgersi ch'era quasi isolato, ed avendolo
attaccato la prima notte, lo posero in disordine. Ma il re boemo,
accorso in ajuto de' suoi alleati, forzò i Milanesi a ritirarsi con
perdita. Pochi giorni dopo gli assediati attaccarono il corpo comandato
da Enrico duca d'Austria, ma furono ugualmente respinti.
A due o trecento passi fuori della P. Romana eravi un antico monumento
chiamato l'Arco de' Romani; quattro arcate massicce di marmo formavano
una specie di portico[110], al di sopra del quale ergevasi un'altissima
torre ugualmente di marmo. Quaranta soldati milanesi eransi in questa
rinchiusi, i quali, quantunque non avessero comunicazione colla città,
vi sostennero otto giorni d'assedio, finchè i Tedeschi essendosi
appostati sotto il portico medesimo, ov'erano al sicuro dalle frecce e
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