Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 10

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[214] _Vita Alex. III, p. 465._
Erano i Cremonesi da lungo tempo rimproverati di lentezza negli affari
della lega, e l'antica amicizia ch'ebbero coi Pavesi li ritraeva
dall'entrare in battaglia contro di loro. Non pertanto quando seppero
essersi conchiuso l'accordo senza di loro, vergognaronsi della propria
lentezza; ed il popolo in particolare, temendo di essere a parte della
vergogna del proprio governo, in un movimento di furore corse alle case
dei consoli, e le smantellò, affidando a nuovi magistrati le redini del
governo.
L'imperatore parve che si studiasse di accrescere i sospetti che la
condotta dei Cremonesi poteva far nascere nell'animo de' confederati,
indicando i loro consoli come _sopr'arbitri_, promettendo di rimettersi
alla loro decisione quando non andassero d'accordo i sei conciliatori
scelti nel campo di Tortona. I rettori che segnarono a nome della lega
lombarda il compromesso fatto coll'imperatore, furono Ezzelino da Romano
padre del feroce Ezzelino, ed Anselmo da Dovara, padre di Buoso, emulo e
compagno di questo tiranno. È cosa veramente notabile che il primo
trattato fatto coll'imperatore per guarentia della libertà dei comuni
sia stato firmato a nome di questi dai genitori dei due più famosi capi
del partito imperiale, dei due più feroci oppressori delle
repubbliche[215].
[215] _Compromissum Federici I. et civitatum ap. Murat. Ant. Ital.
Dissert. XLVIII, p. 275._
E perchè lo stesso trattato che doveva ristabilire la concordia tra
l'Impero e le città lombarde rendesse altresì la pace alla Chiesa,
Federico scrisse al papa di mandargli tre legati per trattare con lui,
designandoglieli egli medesimo. Furono questi il vescovo di Porto,
quello d'Ostia ed il cardinale di san Pietro _ad vincula_[216]. I quali
prelati, muniti dei pieni poteri della Santa Sede, si portarono a Lodi
ov'erasi adunata una dieta de' rettori delle città lombarde; ed in
seguito passarono a Piacenza. Quando l'imperatore seppe ch'erano giunti
nelle vicinanze di Pavia, gli fece invitare alla sua corte, ove
onorevolmente li ricevette.
[216] _Romualdi Salern. Chronic. p. 214._
La prima loro udienza fu pubblica. Federico aveva fatto innalzare il suo
trono sulla gran piazza di Pavia, ove, circondato da' suoi principi,
rivolse la parola ai legati in lingua tedesca, invitandoli con gentili
maniere ad esporre i motivi della loro missione. Intanto i Pavesi
trovavansi riuniti in parlamento. Allorchè l'interprete ebbe tradotto il
discorso dell'imperatore, il vescovo d'Ostia, avanzatosi in mezzo
dell'assemblea, con aspri e duri modi non sempre stranieri agli
ecclesiastici, dichiarò di non poter rendere all'imperatore il saluto
finchè lo vedeva ostinarsi nello scisma e nell'impenitenza; quindi
riandò tutta l'istoria delle sue persecuzioni verso la Chiesa,
impiegando a vicenda le minacce e le preghiere per ridurlo a mutar
condotta. Il popolo adunato applaudì questo discorso, e lo stesso
Federico assicurò il legato, che, mosso dai patimenti de' fedeli, era
disposto a grandi sagrificj per mettervi fine[217].
[217] _Vita Alex. II, a Card. Arrag. p. 466._
Dopo questa pubblica udienza, i legati ed i deputati lombardi ebbero
frequenti conferenze collo stesso imperatore e co' suoi ministri, il
cancelliere, il vescovo eletto di Colonia, ed il protonotaro. Essi
dovevano procurare i vantaggi ancora del re di Sicilia e dell'imperatore
di Costantinopoli; ma in fatto furono gli affari della Chiesa intorno ai
quali rendevasi difficile ogni accomodamento, e che finalmente furon
cagione che si rompessero i trattati. Lo storico d'Alessandro III
assicura che Federico chiedeva alcune prerogative che non erano state
mai accordate a verun laico, nè pure a Carlo Magno, o al grande Ottone:
ma le pretese del papa erano a dismisura cresciute dopo questi due
imperatori, e Federico non ridomandava nè meno tutti i privilegi di cui
godettero i suoi predecessori. Ad ogni modo i legati protestarono che la
loro coscienza e le leggi della Chiesa s'opponevano ai chiesti
privilegi. Il congresso si ruppe bruscamente, e gli alleati ritornando
alle loro case guastarono le campagne de' Pavesi, de' Comaschi e dei
marchesi feudatarj. L'imperatore invece fece alcune incursioni nel
territorio alessandrino, ma senza intraprendere colle sole milizie
italiane l'assedio d'una città, innanzi alla quale le armate tedesche
avevano perduta l'antica gloria.
Mentre ancora duravano le trattative, Federico aveva ordinata in
Germania la leva d'una nuova armata, ed aveva pure invitato a prendere
le armi Cristiano arcivescovo di Magonza suo vicario nella Toscana e
nella Marca. Questo prelato alla testa delle truppe che lo avevano
servito nell'assedio d'Ancona, investì il castello di san Casciano ove
tenevano una guarnigione i Bolognesi composta di trecento cavalli, ed
altrettanti fanti sotto il comando di Prendiparte, uno de' loro consoli.
Due altri consoli, Bernardo Vediani e Pietro Garisendi, s'avanzarono
contro Cristiano colle milizie bolognesi ed ausiliarie per costringerlo
a levar l'assedio. Lo forzarono in fatti ad allontanarsi, ma caddero
poco dopo in un'imboscata, e nel corso della campagna ebbero più volte
la peggio.
(1176) Intanto Wicman arcivescovo di Maddeburgo, Filippo arcivescovo di
Colonia, e tutti i vescovi e principi di Germania cui Federico erasi
diretto, avevano adunati i loro vassalli, ed erano preparati a
soccorrerlo. Si mossero nella seguente primavera, e perchè la strada
dell'Adige era guardata dai Veronesi, s'avanzavano attraversando il
paese dei Grigioni per l'Engadina e la contea di Chiavenna fino al lago
di Como. Quando l'imperatore fu avvisato del loro arrivo in Italia,
partì segretamente da Pavia, ed attraversando sconosciuto il territorio
milanese, venne a riceverli a Como. Postosi alla loro testa in sul
finire di maggio, andò contro il castello di Legnano nel contado del
Seprio. I Comaschi militavano sotto le sue bandiere, e le milizie dei
Pavesi e del marchese di Monferrato disponevansi a raggiungerlo.
I Milanesi che trovavansi i primi esposti alle offese, mostravano una
straordinaria energia. Fino in gennajo avevano fatto rinnovare il
giuramento che gli univa alle altre città lombarde, ed assicurava loro i
comuni soccorsi. Avevano formate alcune coorti di cavalleria scelta, una
delle quali chiamata _della morte_ era composta di novecento soldati che
avevano giurato di morire per la patria piuttosto che ritirarsi; l'altra
detta del _Carroccio_ era formata di trecento giovani delle principali
famiglie, i quali con uguale giuramento eransi vincolati alla difesa del
palladio della loro patria. Gli altri cittadini divisi in sei
battaglioni seguivano le bandiere delle sei porte, e dovevano combattere
sotto gli ufficiali del proprio quartiere[218].
[218] _Sigon. de Reg. Ital. l. XIV, p. 330. — Galv. Flamma Manip.
Flor. c. 205, p. 650. — Romualdi Salern. Chron. t. VII, p. 215._
Il sabato 29 maggio i Milanesi ebbero avviso che l'imperatore non era
più di quindici miglia lontano dalla loro città. Benchè dei soccorsi che
aspettavano dai confederati non avessero avuto ancora che le milizie
piacentine ed alcune centurie scelte di Verona, di Brescia, di Novara e
di Vercelli, fecero sortire il carroccio dalla città e si mossero contro
di Federico prendendo la strada che da Milano conduce al Lago maggiore.
Fermatisi presso Barano nella pianura che divide l'Olona dal Ticino,
staccarono settecento cavalli per riconoscere il nemico; i quali non
tardarono a scontrarsi in trecento Tedeschi seguiti a poca distanza dal
grosso dell'armata. Essi li caricarono con vigore, ma dovettero
ripiegare bruscamente verso il loro Carroccio trovandosi addosso tutta
l'armata di Federico. I Milanesi vedendo avanzarsi contro di loro a
galoppo la cavalleria tedesca, gittaronsi in ginocchio e fecero la loro
preghiera ad alla voce a Dio, a s. Pietro, ed a s. Ambrogio; indi
spiegando i loro stendardi si mossero arditamente contro i nemici. La
compagnia del carroccio piegò un istante, e le truppe imperiali vi
s'avvicinarono tanto, che s'incominciò a temere che cadesse nelle loro
mani: perchè vedendolo la compagnia della morte, ripetendo ad alta voce
e con entusiasmo il giuramento fatto di morire per la patria, gettaronsi
con tanto impeto sulle truppe allemanne che atterrarono lo stendardo
imperiale. Federico stesso che combatteva nella prima linea fu
rovesciato da cavallo, e posta in fuga la colonna da lui comandata ed
inseguita dai Lombardi per lo spazio d'otto miglia. I fuggiaschi che non
caddero sotto le loro spade, dovettero precipitarsi nel Ticino, o
rendersi prigionieri. Quasi tutti i Comaschi perirono sul campo, o
perdettero la libertà per essere contro di loro più vivo l'odio de'
Lombardi, che li risguardavano quali traditori della causa comune. Tutte
le più ricche spoglie del campo rimasero ai vincitori, i quali per colmo
della loro gloria seppero ben tosto, che Federico non trovavasi coi
soldati fuggiaschi, che i suoi fedeli avevano cercata in vano la sua
persona o il suo cadavere, e che l'imperatrice rimasta a Pavia, omai più
non dubitando della di lui perdita, aveva vestito il corrotto[219].
[219] _Vita Alex. III, a Car. Ar. 467. — Sire Raul p. 1192. — Otto
de Sancto Blas. Chron. c. 13. p. 882. — Corradi Abbatis Usperg.
Chron. p. 297. Edit. Basil. 1569. — Baron. ad an. § 17. — Trist.
Calchi Hist. Patr. l. XII, p. 278._
Ma Federico non era stato ucciso nella battaglia di Legnano, come
supponevasi, e dopo pochi giorni ricomparve a Pavia, solo, avvilito,
diviso da quella florida armata con cui credeva di soggiogare l'Italia,
e che ora valicava disordinata le Alpi per salvarsi dal ferro italiano.
Abbandonato sul campo di battaglia tra i suoi nemici, sottraendosi alle
loro ricerche, ottenne dopo molti stenti di ricoverarsi nella sola città
ancora fedele.
Erano già decorsi ventidue anni da che questo monarca aveva la prima
volta devastato il territorio milanese, e, durante questo lungo
intervallo, aveva successivamente condotte o chiamate in Italia sette
formidabili armate dal fondo della Germania[220]. Per lo meno un mezzo
milione d'uomini aveva prese le armi a suo favore e sparsi torrenti di
sangue; ma dopo vittorie più strepitose che utili terminò coll'essere
disfatto in distanza di poche miglia dal luogo in cui ottenne le prime
vittorie. I pontefici romani avevano contro di lui provocate le vendette
del cielo; ed i suoi partigiani vedevano nelle proprie e nelle sue
sventure la mano di Dio. Non gli rimaneva dunque altro partito che
quello della pace, e Federico la ricercò di buona fede.
[220] Federico fece la prima impresa d'Italia in ottobre del 1154,
la seconda in luglio del 1158. L'imperatrice gli condusse una terza
armata per l'assedio di Crema in luglio del 1159. I principi
allemanni scesero in Italia colla quarta l'anno 1161, che fu quella
che distrusse Milano. Del 1166 Federico alla testa d'una quinta
armata s'avanzò fino a Roma e perdette le sue truppe per la febbre
_maremmana_, si consumò quasi tutta la sesta armata nell'assedio
d'Alessandria, e la settima finalmente fu battuta dai Milanesi a
Legnano l'anno 1176.
Spedì dunque al papa gli arcivescovi di Maddeburgo, di Magonza e di
Worms, per entrare con lui in negoziazioni. Giunti alla città d'Anagni,
ove allora risiedeva il pontefice, vennero ammessi in pieno concistoro.
In questa prima udienza Alessandro dichiarò loro in termini positivi,
ch'egli non separerebbe giammai la sua causa da quella dei Lombardi, del
re di Sicilia e dell'imperatore d'Oriente. Non pertanto nelle segreta
conferenze isolò poc'a poco i suoi interessi da quelli de' confederati.
Siccome Federico non pretendeva più dal papa nuovi privilegi, le
trattative diventavano semplicissime, nè ammettevano ulteriori
difficoltà. Gli si chiedeva che abiurasse lo scisma e gli antipapi da
lui nominati; e rispetto a ciò Federico chiedeva che dopo l'abiura anche
i prelati addetti alla sua fazione fossero ammessi in grazia della Santa
Sede e riconfermati nelle loro cariche. Tali articoli furono ben tosto
accettati dalle parti[221]. Non era così facile l'accordare gl'interessi
dell'imperatore con quelli de' Lombardi; per discutere i quali il papa
prometteva di passare in Lombardia, ove avrebbe presieduto all'adunanza
delle città confederate. Ed in pendenza di queste trattative le parti
stipularono una tregua generale per tutta l'Italia.
[221] _Vita Alex. III, p. 467._
Se l'imperatore avesse prima adottata la via delle amichevoli
trattative, non avrebbe sofferte le ultime traversie, nè perduta quella
somma influenza che poteva esercitare sulle repubbliche italiane. Si può
vederne la prova nell'apertura delle conferenze. I repubblicani non
ardivano negare gli antichi diritti dell'Impero; ed erano contenuti da
un natural rispetto verso le persone e verso le leggi, che loro
vietavano di segnare i confini dell'autorità di colui contro il quale
avevano però osato di combattere e di sconfiggerlo. Quando Federico
cessò d'essere il loro nemico, fu ancora il loro monarca. Aveva in ogni
città dei partigiani e specialmente tra i gentiluomini, che
dichiaravansi i protettori delle prerogative imperiali; e la vanità,
l'ambizione, l'avarizia non erano pienamente soddisfatte che coi favori
della corte. I partigiani di Federico adoperavansi destramente per
risvegliare fra i popoli le sopite gelosie che in addietro dividevano le
città, onde staccare alcune comuni dalla confederazione.
I Cremonesi furono i primi a sciogliersi da quel legame che aveva
salvata la Lombardia. Erano stati in ogni tempo nemici dei Milanesi, ed
alleati dei Pavesi: arbitrarie vessazioni gli avevano staccati dal
partito imperiale, ed uniti alla lega, ma col tempo indebolitasi la
memoria delle ricevute offese, il loro odio si spense: all'epoca
dell'assedio d'Alessandria i Cremonesi erano già stati notati di poco
zelo. Federico offerse loro la riconferma dei loro privilegi, di non
prender parte all'elezione de' consoli e di accordar loro parzialmente
tutto ciò che i confederati chiedevano per tutte le città, a condizione
che ritornassero all'antico partito, fidandosi al loro protettore, al
loro amico che loro stendeva le braccia[222].
[222] _Vita Alex. III, p. 469. — Istoria di Cremona d'Ant. Campi
pittore ed archit. Cremon. dedicata a Filippo IV d'Austria verso il
fine del I libro, p. 24. — Romual. Salern. Chron. p. 217._
I Cremonesi accettarono le offerte di Federico e soscrissero un atto
d'alleanza, che il loro storico Campi estrasse dagli archivj della
città. Dichiararono subito ai Lombardi che rinunciavano alla
federazione, essendo garantiti dal loro nuovo alleato di essere
potentemente soccorsi qualunque volta la lega tentasse di punire la loro
mala fede. I Tortonesi ne seguirono l'esempio; onde le altre città ed il
papa se ne sdegnarono e temettero a ragione che potesse avere le più
triste conseguenze.
(1177) Intanto il papa erasi imbarcato sulle galere del re di Sicilia
coll'arcivescovo di Salerno e col conte d'Andria che questo monarca
spediva in qualità di ambasciatori al congresso[223]. La tempesta gli
spinse sulle coste della Dalmazia a Zara[224], città non ancora visitata
da verun papa, per cui non isbarcarono a Venezia che il giorno 24 di
marzo. Il papa fu alloggiato nel monastero di san Nicolò _del Lido_.
Benchè non a Venezia, ma in Bologna dovesse tenersi il congresso, ciò
null'ostante quando l'imperatore, che trovandosi a Cesena, seppe
l'arrivo del papa a Venezia, gli rimandò i medesimi commissarj, che
avevano già trattato con lui, ad oggetto di fargli sentire come avendo
Cristiano arcivescovo di Magonza suo arcicancelliere fatta una
sanguinosa guerra ai Bolognesi, non potrebbe fermarsi in quelle città
per i maneggi di pace, senza risvegliare la loro animosità contro di
lui.
[223] Uno degli ambasciatori, Romualdo arcivescovo di Salerno,
storico da noi rammentato più volte con lode, ci ha lasciata una
assai circostanziata ed interessantissima relazione del suo viaggio
e della sua missione. Siamo ben fortunati d'averla, perchè all'epoca
presente ci abbandonano quasi tutte le guide che fin qui diressero
la nostra narrazione. Questa relazione che comincia nella cronaca di
Romualdo _t. VII, p. 217_, viene ancora riportata negli Annali del
Baronio all'anno 1177.
[224] Il soggiorno del pontefice a Zara risguardato senza dubbio
come una specie d'esiglio, diede motivo cento cinquant'anni più
tardi all'invenzione d'un favoloso racconto, ripetuto poi ciecamente
da tutti gli storici del quattordicesimo e quindicesimo secolo. Si
disse che il papa, salvandosi sul mare adriatico dallo sdegno di
Federico, venne travestito a procacciarsi un asilo in Venezia; dove,
dopo alcuni mesi che vi esercitava in un'isoletta la professione di
giardiniere, fu riconosciuto. Allora il doge ed il senato si
affrettarono di rendergli i più grandi onori; e venuto a riclamarlo
con una potente flotta Ottone figliuolo di Federico, i Veneziani lo
sconfissero e fecero prigioniero. Che per tale avvenimento Federico
risolse di far la pace; e che ricevuto in Venezia, quando s'accostò
per baciare il piede al papa, questi glielo pose bruscamente sul
capo, pronunciando queste parole: _Ambulabis super aspidem et
basiliscum et conculcabis leonem et draconem_: cui l'imperatore
rispose: _non tibi sed Petro_, ed il papa replicò: _et mihi, et
Petro_. — _Vita Alex. III, ex Amalrico Augerio Scrip. Rer. It. t.
III, p. II, p. 373. — Gio. Villani l. V, c. III. — Malavolti Istoria
di Siena p. I, l. III, p. 34. — Corio storia di Milano p. I, p. 60.
— Il Baronio che smentisce questo racconto ad an. § 4 e segu._
Questo romanzo caro ai Veneziani fu illustrato dai più celebri
pittori, che ne fecero l'argomento dei quadri che adornano la
magnifica sala del gran consiglio della repubblica. Si mostravano
non senza orgoglio agli imperatori che visitavano il palazzo di san
Marco.
La scelta del luogo in cui si aprirebbero le conferenze, era difficile e
diede argomento a lunghe discussioni. I Lombardi offerivano
l'alternativa tra Bologna, Piacenza, Ferrara e Padova, tutte città della
lega, e perciò sospette agl'imperiali. I Tedeschi invece proponevano
Pavia o Ravenna per lo stesso titolo di parzialità sospette ai Lombardi,
perchè la prima era sempre stata loro nemica, e l'altra aveva di fresco
rinunciato alla lega per fare separatamente la pace coll'imperatore.
Finalmente fu proposta Venezia i di cui interessi erano affatto separati
da quelli della lega lombarda. Vero è che da principio aveva presa parte
alla confederazione, e in appresso, senz'essersi formalmente
rappacificata coll'imperatore, aveva di concerto colle truppe imperiali
spedita una flotta all'assedio d'Ancona. Poteva perciò risguardarsi come
naturale, onde i Lombardi furono contenti di aprirvi le conferenze coi
deputati imperiali, a condizione per altro che il doge ed il popolo di
Venezia prometterebbero con giuramento di non ricevere nella loro città
l'imperatore avanti che fosse segnata la pace. Temevasi che assistendo
questo principe ad una dieta, rispetto alle persone che la componevano,
rassomigliante a quella di Roncaglia, vi ricuperasse colla sua presenza
tutte le prerogative ch'egli si era colà usurpate; e che in cambio di
ricever la legge, terminasse col darla egli all'assemblea[225].
[225] Il Muratori ne conservò, disser. XLVIII, p. 277, il documento
intorno al quale aprirono questa discussione intitolata: _Petizione
preliminare indirizzata a nostro signore l'imperatore dai rettori di
Lombardia, Marca, Venezia e Romagna_.
Il congresso s'aprì dunque in Venezia verso la metà di maggio. I
principi tedeschi, i principali prelati di Lombardia, i rettori delle
città, i marchesi ed i conti si radunarono in presenza del popolo. I
confederati vollero che s'incominciassero le trattative colla difficile
quistione dei diritti signorili controversi tra le città ed il monarca.
Essi domandavano che i diritti dell'Impero sulle città fossero stabiliti
in conformità di quelli ch'erano in uso ai tempi d'Enrico V, e volevano
in oltre che nel caso di disparere in ordine alla loro estensione si
stesse al giuramento che darebbero i consoli d'ogni città rispetto alla
pratica locale. D'altra parte convenivano espressamente intorno alla
prestazione del _fodero_ reale, o diritto di approvigionamento per
l'imperatore e suo seguito in occasione del suo passaggio; alla _pavata_
o tributo per rifar le strade quando l'imperatore andava a Roma a
prendere la corona imperiale, al diritto di _spedizione_ ossia marcia
dei vassalli sotto le bandiere imperiali. Domandavano in compenso, che
l'imperatore riconoscesse formalmente il diritto d'essere governati dai
consoli da loro scelti, che annullasse qualunque carta accordata in
pregiudizio dei loro privilegi, che sanzionasse la prerogativa di
mantenere ed accrescere le fortificazioni della propria città, che
accordasse un'assoluta amnistia del passato, che gli autorizzasse a
mantenere la confederazione lombarda, lasciando in loro arbitrio il
riconfermarla con mutui giuramenti quando loro piacesse, non escluso
pure il giuramento di difendersi contro l'imperatore o suoi successori,
qualunque volta il monarca movesse guerra alla Chiesa, o ad alcuna delle
città federate. Chiedevano ancora che l'imperatore confermasse le
sentenze pronunciate dai giudici durante la guerra, che i prigionieri
fossero vicendevolmente restituiti senza prezzo, e per ultimo che le
possessioni feudali e regali fossero mantenute _in statu quo_ secondo le
antiche costumanze attestate dai consoli.
Ben diverse erano le pretese dell'imperatore nel modo che furono
proposte a Venezia da Cristiano arcivescovo di Magonza. Lasciava in
arbitrio de' Lombardi lo scegliere una di queste proposizioni: cioè di
stare alla sentenza pronunciata contro di loro in Roncaglia l'anno 1158
dai giudici di Bologna, o di prendere per regola dei diritti rispettivi
quelli ch'erano in vigore sotto il regno d'Enrico IV[226].
[226] _Baron. ad an. §. 78. — Romuald. Archiep. Saler. Chron. p.
225._
Il console di Milano Gherardo de' Pesci che assisteva alle conferenze, e
che aveva presa la parola per i Lombardi, protestò a nome de'
confederati contro la sentenza dei giudici bolognesi, che era, com'egli
diceva, un editto dell'imperatore, e non un giudizio tra le due parti.
Rispetto alla seconda proposizione oppose, che Enrico IV, il fautore
d'uno scisma, ed il nemico dei più illustri pontefici, non era
altrimenti un re, ma un tiranno; talchè non potevansi distinguere tra le
sue azioni quelle che procedevano dalla violenza del suo carattere da
quelle che erano conformi alle reali prerogative. Dopo ciò discese alla
proposizione che avevano già fatta i Lombardi, val a dire, di regolare i
reciproci diritti dietro le costumanze ricevute duranti i regni di
Enrico V, di Lotario, e di Corrado[227].
[227] _Sire Raul p. 1192, 1193 — Baron. ad an. 1177, §. 82, 85 —
Romualdus Salernit. Chron. p. 225._ — Abbiamo, è vero, uno storico
lombardo contemporaneo, Sicardo vescovo di Cremona, ma egli parlò di
questo negoziato, e della guerra che lo precedette, senza
circostanziare i fatti particolari che non avremo motivo di citarlo
altra volta. Intorno a questo trattato veggasi _Sic. Chron. t. VII
p. 602_.
Tutti gli storici lombardi, tranne Sire Raul, ci mancano a quest'epoca,
ed anche questo non consacrò più di dieci linee intorno alle conferenze
di Venezia, dimodochè siamo costretti di consultare gli scrittori
ecclesiastici, nei quali era ben naturale che venissero ommesse tutte le
ragioni delle lagnanze accennate da Sire Raul contro Alessandro per aver
mancato alla fede data ai Lombardi, ed essersi riconciliato
coll'imperatore senza provvedere alla loro sicurezza. Per lo contrario,
se dobbiamo dar fede a Romualdo di Salerno che assistette a queste
conferenze come ambasciatore del re di Sicilia, Federico non acconsentì
alla tregua che il papa proponeva per accomodamento, se non quando il
papa gli accordò il godimento per quindici anni dell'eredità della
contessa Matilde[228].
[228] _Sire Raul, p. 1192-1193 — Romualdus Salernit., p. 223 —
Baron. §. 82, 85._
Ad ogni modo sembrava che una tregua potesse essere il solo mezzo di dar
la pace all'Italia, poichè non era possibile di convenire intorno alle
opposte pretese e conchiudere un trattato definitivo. Alessandro propose
perciò una tregua di quindici anni col re di Sicilia, e soltanto di sei
coi Lombardi. Federico, senza rifiutarvisi positivamente, chiedeva
d'avvicinarsi al congresso per facilitarne i trattati. Di consenso del
papa abbandonò la Pomposa, delizioso palazzo in cui faceva la sua dimora
presso Ravenna, per istabilirsi a Chiozza; ma quando si seppe essere
arrivato in questa città posta nella laguna alla distanza di sole
quindici miglia da Venezia, quei Veneziani che favorivano la sua parte,
importunavano il Doge perchè lo ricevesse nella capitale; rimostrando
non potersi senza indecenza lasciare il capo dell'Impero esigliato in
una miserabile bicocca; che avendo Alessandro acconsentito che venisse
fin là, non aveva più ragione d'impedire ch'essi soddisfacessero al
dover loro, accogliendolo in una maniera conforme alla sua dignità[229].
Federico, avvisato di questi movimenti, ricusò a bella prima di
sottoscrivere i due trattati che gli si presentarono; ma quando seppe
che il papa e gli ambasciatori siciliani per timore della sua venuta
disponevansi ad abbandonare Venezia, approvò gli articoli convenuti dai
suoi plenipotenziari. Il giorno 6 luglio, il conte Enrico di Dessau
giurò, per parte dell'imperatore ed in suo nome, una pace perpetua colla
Chiesa, una pace di quindici anni col re di Sicilia, ed una tregua di
sei anni da incominciarsi il primo agosto seguente coi Lombardi[230].
Durante questa tregua, i beni e le persone dei membri della lega
dovevano godere ne' domini imperiali di una piena sicurezza e degli
avvantaggi che vi si godono in tempo di pace; ed a vicenda le stesse
immunità venivano accordate ai sudditi dell'imperatore nelle terre de'
Lombardi. I consoli ed i consigli di credenza così delle città
confederate, come di quelle che stavano per l'imperatore, dovettero
giurare nella pubblica assemblea, ed a nome del popolo, che
osserverebbero la tregua, e non farebbero ingiuria nè alle persone nè
alle proprietà.
[229] _Romualdi Salern. Chron. p. 226._
[230] _Baron. Ann. §. 29 — Instrumentum treguæ apud. Murat. Antiq.
Ital. disser. XLVIII, p. 283._
Fu ancora convenuto che ogni città dei due partiti nominerebbe due
arbitri _Treguari_, ossia difensori della tregua, che avrebbero il
carico di terminare le contese che potessero aver luogo tra i membri
delle opposte parti, cosicchè per particolari ingiurie niuna persona
potrebbe avanti che siano terminati sei anni di tregua farsi ragione
colle armi.
Finalmente l'imperatore rinunciava in tal tempo al diritto di chiedere
il giuramento di fedeltà da verun membro della lega[231].
[231] La tregua si dichiarò comune, da una parte a Federico ed al
suo partito, cioè Cremona, Pavia Genova, Tortona, Asti, Alba,
Torino, Ivrea, Ventimiglia, Savona, Albenga, Casal sant'Evaso,
Monvelio, Imola, Faenza, Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Cesena,
Rimini, Castrocaro, i marchesi di Monferrato, Vasto e Bosco, ed i
conti di Biandrate e di Lomellina. Dall'altra parte alla società dei
Lombardi, composta a quest'epoca di Venezia, Treviso, Padova,
Vicenza, Verona, Brescia, Ferrara, Mantova, Bergamo, Lodi, Milano,
Como, Novara, Vercelli, Alessandria, Carnesino, Belmonte, Piacenza,
Bobbio, Reggio, Modena, Bologna, il marchese Malaspina e gli uomini
di S. Cassano e di Doccia.
Poichè dal conte di Dessau fu emesso il giuramento di pacificamento in
nome di Federico, e che un simile giuramento venne pronunciato dal
cappellano dell'arcivescovo di Colonia a nome de' principi del suo
partito, Alessandro sciolse dal giuramento il doge ed il popolo di
Venezia, ed acconsentì che l'imperatore entrasse in città. Sei galere
veneziane andarono subito a prenderlo a Chiozza, ed il sabato di sera 23
giugno lo condussero a S. Nicolò di Lido ove la Signoria avevagli fatto
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