Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 12

Total number of words is 4260
Total number of unique words is 1688
39.9 of words are in the 2000 most common words
55.7 of words are in the 5000 most common words
63.3 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
Napoli, ma inoltre sopra molte città d'Affrica e della Grecia. Temuto
dai suoi vicini, veniva in pari tempo servito con zelo da' suoi sudditi
malgrado la durezza della sua amministrazione, credendo di essere
compensati dei mali che loro faceva soffrire la sua ambizione, dalla
gloria delle sue armi vittoriose. I nobili de' suoi stati, parte
compressi dalla severità de' castighi, parte guadagnati dai suoi favori,
avevano quasi deposto il fiero ed indipendente carattere normanno. Due
figliuoli degni di tanto padre, che promettevano alla famiglia
accrescimento di gloria, ed un governo vigoroso alla nazione, morirono
in fresca età, onde il terzo figlio Guglielmo, di cui il padre ne
compiangeva l'imbecillità, si vide inaspettatamente chiamato a
succedergli.
Questo principe, detto Guglielmo il cattivo, appena occupato il trono
paterno, abbandonossi così ciecamente ai più indegni favoriti, che la
nobiltà della corte, per salvargli la vita, dovette congiurare contro le
creature del suo re. Majone, oscuro cittadino di Bari, nominato grande
ammiraglio, aveva progettato di far morire Guglielmo per montar egli sul
di lui trono; progetto che avrebbe avuto intera esecuzione se il pugnale
de' cospiratori non veniva in soccorso del re[251]. Durante la debole e
burrascosa amministrazione di Guglielmo I, e la lunga minorità di
Guglielmo II, l'edificio sociale innalzato con tanta fatica dai
conquistatori normanni fu quasi totalmente distrutto. Nelle province di
qua dal Faro i Lombardi avevano introdotto il sistema feudale, onde
quando pubblicaronsi le loro leggi i signori riebbero un'indipendenza
che sarebbe stata assoluta, se la loro ambizione non gli avesse
avvicinati alla corte; e le città medesime si eressero in corpi politici
talvolta indocili, liberi mai. La Sicilia presentava un aspetto affatto
differente. Governata lungo tempo dagli Arabi e prima dai Greci, non
conosceva che le costumanze e la politica degli Orientali. Guglielmo era
per quest'isola uno di quegli effeminati sultani che tosto o tardi
disonorarono tutte le dinastie dell'Asia: circondato d'eunuchi, di
donne, di preti corrotti, di vilissimi servi, governava il suo regno
come volevano i piccoli intrighi del serraglio di Palermo. Intanto i
Saraceni, ridottisi nelle montagne, occupavano ancora la maggior parte
dell'interno dell'isola; essi non ubbidivano che ai loro capi, e la fede
di questi verso il re era assai sospetta. Altri Saraceni più inciviliti
esercitavano la mercatura nelle città, altri avevano il favore della
corte e vi occupavano spesso le prime cariche; tutti gli eunuchi erano
musulmani e favorivano presso al re col proprio credito i loro
compatriotti. I signori cristiani possedevano nell'isola contee e
baronie tanto nelle città, che sulle coste, ma questi piccoli governi
rassomigliavansi molto più ai _pachalicks_ de' Turchi, che ai feudi
dell'Occidente: in ogni luogo vedevasi cadere il despotismo in
dissoluzione, dando luogo ad una generale insubordinazione, senza verun
principio di libertà. Pure lo storico Ugo Falcando, dietro al quale
abbiamo giudicata quest'epoca, parla enfaticamente della prosperità e
della pace di cui godeva la Sicilia in sul finire del regno di Guglielmo
II, senza però ch'egli abbia scritta la storia di questi tempi di tanta
felicità; e siccome le nazioni non passano mai rapidamente dall'estrema
dissoluzione d'ogni ordine sociale a tanta prosperità e gloria, così ci
dev'essere permesso di credere che lo storico abbia voluto col
contrapposto di questa imaginaria felicità, dare maggior risalto alla
tirannide da lui descritta sotto il regno di Guglielmo, ed a quella che
prevedeva sotto il dominio de' Tedeschi. Vero è intanto e cosa assai
notabile, che la Sicilia dopo essere stata tolta agli Arabi non ebbe mai
più regolare governo; e che anche il brigantaggio cui trovasi oggi
abbandonata è la conseguenza della sua antica anarchia, da cui non si è
mai potuta interamente liberare[252].
[251] _Hugo Falcandus historia sicula t. VII, Rer. Ital. p. 272_, e
seguenti.
[252] Ugo Falcando viene risguardato siccome il più eloquente
storico del suo secolo, ed ancora del seguente. Fu detto il Tacito
della Sicilia; e nel quadro che fece dei delitti della corte di
Guglielmo, si possono in fatti ravvisare molti tratti che ci
rammentano Claudio e Tiberio quali furono dipinti dal grande storico
di Roma: ma Falcando, volendo far pompa d'eloquenza, distrugge
l'impressione che vorrebbe fare, e rende sospetta la sua veracità.
La sua storia non abbraccia, strettamente parlando, che il regno di
Guglielmo il malvagio ed i primi anni della minorità del suo
successore, cioè dal 1154 al 1169. Questa storia fu dal Muratori
inserita nel _t. VII, Rer. Ital._
Qualunque si fosse la debolezza e la dissoluzione del regno sul quale la
casa di Svevia acquistava nuovi diritti, Federico ed i suoi successori
rinunciarono, per conquistare la Sicilia, ai progetti che il primo aveva
formati contro la libertà della Lombardia, e resero perciò la pace alle
repubbliche. Di fatti in luogo di alimentare le discordie tra le città,
come praticò fin allora, e di sostenere i più deboli contro i potenti,
l'imperatore s'adoperava adesso per riunirli onde valersi delle loro
forze quando riclamerebbe l'eredità di sua nuora Costanza. E siccome i
suoi sforzi per conservar la pace tra le città lombarde erano sinceri,
così furono sempre coronati da prospero successo. L'opera di Federico fu
potentemente assecondata dalle prediche della religione e dalla profonda
impressione che fece sopra tutta l'Europa un avvenimento risguardato dai
cristiani come una generale calamità.
Il nuovo regno latino di Gerusalemme aveva nello spazio d'ottant'anni
toccati gli estremi della forza e della debolezza. Fondato dalle più
potenti armate che militassero giammai sotto lo stesso stendardo, era
stato in seguito abbandonato quasi senza difesa alla gelosia ed alla
vendetta degli Asiatici che lo circondavano. Talvolta poteva opporgli i
formidabili ausiliari che arrivavano dall'Europa; ma ridotto non di rado
alle sole sue deboli forze, non poteva riunire che pochi soldati, e
questi ancora segreti nemici gli uni degli altri a cagione della diversa
loro origine, snervati dal clima e dalle delizie dell'Asia, ed
indisciplinati in forza di quelle stesse leggi che avevano portate
dall'Europa[253]. I crociati trapiantando in Siria il sistema feudale,
ne avevano conservata l'insubordinazione, e perduta l'energia. Intanto
dimenticavansi in Europa i pericoli cui trovavasi esposta la santa
città, quando nel 1187 si ebbe notizia che Saladino se n'era
impadronito, che il re Gui di Lusignano era prigioniere, e che, tranne
le città di Tripoli, di Tiro e d'Antiochia, tutta la terra santa era
ricaduta in potere degli infedeli[254].
[253] Veggasi il quadro fatto da Giacomo di Vitrì dei costumi de'
Latini orientali che in Oriente chiamavansi _Pullani_: sono questi i
creoli delle nostre isole d'America. _Historia Hierosol. l. I, c.
72. Gesta Dei per Franc. p. 1088._
[254] Il venerabile Guglielmo arcivescovo di Tiro non potè
risolversi a terminar la storia delle sventure della sua patria. Non
ci rimangono che la prefazione e poche linee del suo ventesimo terzo
libro, che doveva contenere il racconto di Gui di Lusignano e della
presa di Gerusalemme. _Gesta Dei per Francos, p. 1042._ — Veggasi
adunque Giacomo di Vitrì. _Hist. Hierosolim. l. I. c. 94, e 95. —
Gesta Dei per Franc. p. 1119. — Bernardus Thesaurarius de
Acquisitione terræ sanctæ c. 148. — 166. t. VII, Rer. Ital. p. 783._
ec.
Qualunque sia la nostra opinione intorno al primo motivo delle crociate,
poichè fu stabilito il regno di Gerusalemme, e che, confidando
nell'appoggio degli Occidentali, tanti coloni di tutte le nazioni
d'Europa erano venuti a popolare la Siria, restandovi come ostaggi e
come mallevadori della volontà dei Latini di mantenere indipendente la
Terra santa, l'onore, il dovere, le più assolute promesse obbligavano
gli Occidentali a soccorrere i loro compatriotti, i campioni da loro
stessi posti nel territorio nemico. Estrema fu perciò la costernazione
cagionata dalla perdita di Gerusalemme, profonda, universale. Gregorio
VIII, allora eletto papa[255], impiegò i brevi giorni del suo
pontificato a predicare ai cristiani la pace fra di loro e la lega
contro gl'infedeli. Spedì lettere circolari a tutti i re, a tutte le
repubbliche d'Europa, pregando di deporre le private nimistà e di
riunirsi per la causa di Dio, perchè, com'egli diceva, i vizj de'
cristiani e le pazze loro discordie avevano loro procurato sì grande
calamità e tanta vergogna[256].
[255] Venne universalmente attribuita la morte d'Urbano III al
dolore concepito per la perdita di Gerusalemme. La città si rese a
Saladino il 2 ottobre, ed Urbano morì a Ferrara il 19 dello stesso
mese; cosicchè egli non poteva aver ricevuta la notizia dell'ultima
catastrofe, ma soltanto delle precedenti disavventure. _Murat. Ann.
t. X, p. 139._
[256] Veggansi queste lettere presso Baronio _ad ann. § 18. t. XII,
p. 780_.
Le guerre d'Italia erano allora prodotte dalle passioni dei popoli e non
dagli ambiziosi calcoli de' sovrani. Un profondo e doloroso sentimento
de' loro errori occupò all'istante l'animo de' cittadini, e l'entusiasmo
distrusse le inquiete loro rivalità. Cremona era in guerra con Brescia,
Parma con Piacenza, Milano e Pavia si disponevano a nuove battaglie: ma
fu loro predicata la pace di Dio, e tutte le repubbliche
l'abbracciarono. I più valorosi soldati delle armate nemiche presero la
croce, e giurarono di militare assieme. Una sola città diede due mila
soldati per questa santa impresa; e perchè gli uomini più caldi ed
impetuosi furono i primi ad arrolarsi per la guerra sacra, la loro
lontananza riuscì, non v'ha dubbio, utilissima alla tranquillità della
loro patria. Due repubbliche rivali, che seppero soltanto per brevissimo
tempo comprimere l'odio nazionale, s'incaricarono in ispecial modo di
predicar la pace ai cristiani. Furon queste Genova e Pisa, le di cui
milizie per un fortunato accidente trovandosi riunite sotto gli
stendardi del giovane Corradino marchese di Monferrato, salvarono la
città di Tiro nell'istante che Saladino era in procinto d'assediarla con
una potente armata[257]. I Pisani sconfissero due volte la flotta
musulmana, ed i Genovesi trasportarono gli ambasciatori mandati da
Corrado a tutti i sovrani per implorare i loro soccorsi: e se alcuni
porti di Terra santa rimasero aperti ai Cristiani, ne andarono soltanto
debitori alla potente assistenza di queste due repubbliche.
[257] _Ottobonus Scriba, contin. Caffari, Ann. Genuen. l. III, p.
359, t. VI. — Breviar. Pisanæ hist. p. 191._
Clemente III, che del 1188 succedeva a Gregorio VIII, morto dopo due
mesi di papato, spedì nuovi deputati a tutti i potentati con prospero
successo. I Veneziani ed il re d'Ungheria, che disputavansi la Dalmazia,
fecero la pace, come ancora i re di Francia e d'Inghilterra, che ambedue
promisero di andare in Oriente alla testa de' loro sudditi. Per ultimo
due deputati del pontefice si presentarono alla dieta di Germania
preseduta da Federico a Magonza[258], e seppero coi loro sermoni toccare
in modo gli uditori, che lo stesso vecchio monarca prese la croce con
suo figliuolo Federico, consacrando al servizio di Dio gli ultimi anni
d'una vita lungo tempo agitata dall'ambizione, ma resa gloriosa dal suo
valore e dai militari talenti.
[258] _Otto de Sancto Blasio Chron. c. 31. p. 887. t. VI. — Annal.
Ecclesiast. ann. 1188._
Di fatti Federico perdette la vita nella guerra santa. Egli condusse in
Asia una armata di novanta mila uomini, benchè licenziasse tutti coloro
che non avevano del proprio almeno tre marche d'argento per supplire
alle spese del viaggio. La sola cavalleria formava un corpo di trenta
mila uomini. Aveva attraversata l'Ungheria e la Bulgaria e resi vani
gl'intrighi dei Greci che non potevano vederlo senza diffidenza
avanzarsi nel cuore della Romania. Nell'inverno del 1189 rimase in
Grecia, ed attraversò lo stretto di Gallipoli soltanto in marzo del
1190. Soggiogò in seguito il sultano d'_Iconium_, che gli si era
opposto, e ne bruciò la capitale; e già l'armata crociata era giunta
nelle campagne dell'Armenia abitata dagli amici de' Cristiani, quando il
10 giugno Federico perì nel piccolo fiume chiamato _Salef_ annegato, o
tocco d'apoplessia a cagione della soverchia freddezza delle acque[259].
[259] _Annal. Eccles. 1190. § 9. t. XII, p. 804. — Jacob. de
Vitriaco Hist. Hieros. l. I, c. 99. p. 1121 — Bernard. Thesaurar. de
acquis. Terræ sanctæ c. 169. p. 804. — Sicardi Episc. Cremon. Chron.
p. 611, t. VII, Rer. Ital. — Marini Sanuti Secreta Fidelium Crucis
l. III, p. X, c. 2. Gesta Dei per Francos t. II, p. 196._
La morte di Federico fu compianta da tutte le città che pure furono
lungo tempo esposte alla potente sua collera ed alla sua vendetta. I
Lombardi e gli stessi Milanesi non potevano non ammirare il suo raro
coraggio, la sua costanza nelle avversità, la sua generosità. L'intima
convinzione della giustizia della sua causa l'aveva talvolta reso
crudele fino alla ferocia contro coloro che gli resistevano; ma dopo la
vittoria dissetava la sua vendetta coll'atterrare le insensibili mura; e
per quanto fosse irritato contro i Tortonesi, i Cremaschi, i Milanesi,
per quanto sangue spargesse finchè combatteva, non lordò il suo trionfo
con odiosi supplicj. Malgrado il tradimento cui discese una sola volta a
danno degli Alessandrini, in generale fu fedele manutentore della data
fede; e quando l'anno dopo la pace di Costanza fu ammesso entro le loro
mura dalle città che gli avevano fatta la più ostinata guerra, non
dovettero porsi in guardia contro alcun suo attentato ai privilegi da
lui riconosciuti. Il suo carattere meritò ancora maggior rispetto quando
si potè farne confronto con quello d'Enrico VI suo figliuolo e
successore.
Questo principe, siccome aveva desiderato il padre, portava già da
cinque anni le corone di Germania e d'Italia. Valoroso come il padre,
non ebbe i suoi grandi talenti. Fu nella guerra brutalmente feroce,
perfido in pace ed impudente mancator di fede. Ugo Falcando, che
scriveva nel tempo ch'Enrico sosteneva la prima volta colle armi i suoi
diritti alla corona di Sicilia, dipinse gli Allemanni come la più feroce
popolazione; ma senza dubbio aveva preso dal loro re i principali tratti
del carattere attribuito alla nazione. «La rabbia tedesca, dic'egli, non
è repressa dagli ordini della ragione, mai non piegasi a misericordia,
non è sospesa dal terrore della religione. Un innato furore agita sempre
questo popolo, eccitato dalla rapacità e strascinato nel delitto dalla
dissolutezza[260].»
[260] _Hugo Falcandus Hist. Sicula p. 252._
Pure l'assunzione d'Enrico al trono imperiale non influì direttamente
sulla sorte delle repubbliche italiane. Trovavasi colla sposa in
Germania quand'ebbe avviso della morte di Guglielmo II in Palermo[261],
ed alcuni mesi dopo di quella di suo padre in Asia. Il primo non erasi
determinato a maritare Costanza che per assicurare l'ordine della
successione e preservare il regno da una guerra civile; onde l'aveva
dichiarata sua erede, facendo che i più principali baroni de' suoi stati
le giurassero fedeltà. Ma i Siciliani vedevano con orrore trasferirsi in
un principe straniero la sovranità della loro isola, quando eravi un
principe normanno, di non legittimi natali bensì, ma per altro illustri.
Era questi Tancredi conte di Lecce, figlio d'una contessa di Lecce e di
Ruggiero figliuolo primogenito del primo re di Sicilia. Il di lui
matrimonio non era stato legittimato dall'approvazione paterna, nè
consacrato dalla Chiesa. Pure l'unione di questo principe con una dama
d'alto rango, cui era stato fedele fino alla morte, non sembrava tale
agli occhi de' Siciliani, che dovesse degradare il figliuolo e privarlo
della sua eredità. Tancredi fu quindi chiamato a Palermo in principio
del 1190 dalla nobiltà dei due regni e proclamato re[262].
[261] Guglielmo morì il 16 novembre del 1189.
[262] _Richardi a sanct. Germano Chron. t. VII, Rer. It. p. 970. —
Chron. Monast. Fossae novae t. VII, p. 877._
Il primo pensiere d'Enrico dovette essere quello di riconquistare un
regno che gli veniva tolto nell'istante in cui verificavasi il suo
diritto alla successione. Per ricuperare l'eredità della sposa chiese
ajuto alle repubbliche italiane e specialmente alle marittime. Ci furono
conservate le parole stesse da lui dirette ai Genovesi quando pochi anni
dopo bramava averli sussidiarj in una seconda spedizione: egli non
faceva che ripetere le prime offerte. «Se dopo Dio, col vostro ajuto io
posso ricuperare il mio regno di Sicilia, l'onore sarà mio, ma tutto
vostro il profitto. Difatti io non devo soggiornarvi coi miei Tedeschi,
ma vi soggiornerete voi ed i vostri discendenti, ed il regno per ogni
rispetto sarà piuttosto vostro che mio[263].» Oltre i privilegi e le
esenzioni più vantaggiose in tutti i porti, aveva loro promessa la città
di Siracusa con tutte le sue dipendenze e duecento cinquanta feudi di
cavaliere in val di Noto, per guarentia delle quali promesse aveva fatto
spedire in loro favore un atto autenticato col suo suggello[264]. Tanto
i Genovesi che i Pisani, allestito avendo una ragguardevole flotta in
soccorso di Enrico, andarono in traccia di quella di Tancredi a
Castelmare di Sicilia, poi all'isola d'Ischia per attaccarla. Ma in pari
tempo l'imperatore medesimo, dopo qualche effimero avvantaggio, vide la
sua armata distrutta dalle malattie; onde fu costretto di ritirarsi
precipitosamente, perdendo l'imperatrice, rimasta prigioniera de' suoi
nemici[265]. Dopo la ritirata d'Enrico le flotte repubblicane, non
credendosi più sicure in quei mari, furono costrette di abbandonarli.
[263] _Ottobonis Scribæ Ann. Genuen. l. III, p. 367._
[264] _Ibid._
[265] _Richardi de san. Germano Chron. p. 971._
Scoraggiato Enrico da queste disavventure, e forse sorpreso dalla
generosità di Tancredi, che senza taglia e senza condizioni gli aveva
rimandata la sposa[266], non avrebbe probabilmente ricominciate così
presto le ostilità: ma parve che a quest'epoca una generale sentenza di
morte fosse pronunciata contro tutti i sovrani d'Italia. Il figlio
primogenito di Tancredi, che il padre aveva già associato alla corona
per assicurargli la successione, fu la prima vittima; e ben tosto gli
tenne dietro il padre nel 1194, morto di dolore per la perdita del
figlio[267]. Dopo tali avvenimenti, quantunque non incontrasse più
ostacolo nell'occupare il regno di Sicilia, Enrico trattò le città
sottomesse con quella severità che appena sarebbesi usata verso città
conquistate colla vittoria. Egli spogliò la Sicilia de' suoi tesori che
mandò in Germania, e con insolita crudeltà si rese odioso non solo ai
sudditi, ma perfino alla propria sposa Costanza, che, ultima erede del
sangue normanno di Sicilia, risguardava come proprie le sventure de'
suoi compatriotti; onde fu comune opinione che, per metter fine a tanti
furori, cospirasse contro al marito[268]. E perchè i suoi alleati non
fossero meglio trattati de' suoi sudditi e de' suoi parenti, mancò a
tutte le promesse fatte ai Genovesi, annullando tutti i privilegi di cui
godevano nei porti del regno di Napoli. Nè di ciò contento, volle pur
rendersi esoso agl'Italiani durante il breve soggiorno che fece due
volte nel loro paese[269]; se non che nella seconda sua spedizione morì
inaspettatamente nell'assedio d'un castello ribellatosi contro di
lui[270]. Morì pure tre anni dopo papa Celestino III che, durante il suo
regno di sett'anni, ebbe con Enrico diverse contese[271]. Anche
Costanza, che dopo la morte del marito aveva prese le redini del regno,
lo raggiunse un anno dopo nel sepolcro, lasciando unico erede delle case
di Svevia e di Sicilia un fanciullo di quattr'anni già incoronato sotto
nome di Federico II, ma sprovveduto d'amici e circondato di rivali[272].
[266] _Ibid. p. 973._
[267] _Ibid. p. 975._
[268] _Murat. Ann. d'Ital. t. X, p. 183. ad ann._
[269] _Richard. de san. Germano Chron. p. 976. — Chron. Fossae Novae
p. 880. — Anon. Cassin. Chron. t. V, p. 143. — Otto de san. Blasio
c. 39 et 40, p. 893._
[270] Il 28 settembre 1197.
[271] _Richard. de san. Germano Chron. t. VII, p. 977. — Johan. de
Ceccano Chron. Fossae Novae p. 883. — Conradus Abbas Usperg. Chron.
p. 304._
[272] Federico II, o Federico Rogero nacque a Iesi nel dicembre del
1194. Sua madre morì il 27 novembre dell'anno 1198.
Una sola guerra di qualche importanza disturbò l'alta Lombardia durante
il regno d'Enrico VI, e fu quella delle repubbliche di Brescia e di
Cremona. Avevano i Bresciani accordata la loro protezione a molti conti
del territorio di Bergamo e con un trattato fatto del 1191 avevano
riunito al territorio di Brescia i castelli di Merlo, Calepio e Sarnico.
I Bergamaschi spedirono deputati ai Cremonesi loro alleati partecipando
loro la ricevuta ingiuria, ed in pari tempo ricordando a' medesimi che
ancor eglino quand'ebbero a dolersi de' Bresciani rispetto al corso ed
alla navigazione dell'Oglio, non ottennero giustizia da questa
repubblica; e perciò gli eccitavano a prendere le armi contro
l'ambiziosa città. Prima però di dichiarar la guerra, cercarono di
rendersi più forti con nuove alleanze, e mandarono deputati alle città
che potevano prender parte al loro malcontento, procurando di
guadagnarle sia con eloquenti lagnanze, ora offrendo soccorsi ai
principali magistrati. Con tali mezzi ottennero di unire alla loro lega
Pavia, Lodi, Como, Parma, Ferrara, Regio, Bologna, Mantova, Verona,
Piacenza e Modena. I primi ad aprire la campagna furono i Bergamaschi,
assediando in sul cominciar di luglio i castelli di Telgato e di
Paulusco. I Cremonesi avanzaronsi pochi giorni dopo con tutti i
confederati, e dopo avere il 7 luglio gettato un ponte sull'Oglio,
entrarono col Carroccio nel territorio bresciano. Un valoroso capitano
bresciano, Biatta di Palazzo, comandava la guarnigione, composta di
pochi ma bravi soldati, del castello di Rudiano posto lungo la strada
dell'armata nemica. I Milanesi soli alleati di Brescia avevano fatte
avanzare le loro truppe fino alle rive del Serio.
I Bresciani avanti l'arrivo dei loro alleati vollero impedire il
devastamento del loro territorio, e sortirono contro ai nemici
caricandoli vigorosamente. Il loro urto fu ricevuto con intrepidezza
almeno uguale, onde i Bresciani sopraffatti dalla superiorità del
numero, e non vedendo arrivare il promesso soccorso de' Milanesi,
incominciavano a perdere coraggio, quando Biatta di Palazzo, sortendo
dal castello di Rudiano colla sua poca truppa, le fece gridare ad alta
voce: _le nostre spie ci hanno ben serviti, tutto si avverò, viva la
milizia di Rudiano!_ Prima dell'invenzione della presente romorosa
artiglieria, e quando i soldati battevansi corpo a corpo, i gridi
d'un'armata non erano senza effetto sull'armata nemica. I Bresciani,
incoraggiati da questo inaspettato soccorso, ripreser fiato; i Cremonesi
si credettero traditi, ed in quel primo momento di confusione, caricati
avanti ed alle spalle, furono agevolmente sgominati e posti in piena
ritirata[273]. I fuggitivi affollandosi sul ponte volante, fatto il
precedente giorno, lo fecero crollare col loro peso e cadere nell'Oglio,
ove s'affogarono tutti coloro che l'occupavano allorchè cadde. Questo
funesto accidente accrebbe il terrore dell'armata in modo, che i
soldati, malgrado il peso dell'armatura, gettavansi nel fiume per
attraversarlo a nuoto, ma vi rimasero tutti affogati nella melma, o via
trasportati dalla violenza della corrente; mentre perivano sotto le
spade nemiche gli altri che non si esposero al pericolo del fiume[274].
Pochi salvaronsi di così bella armata, che si credette aver perduti
dieci mila uomini. Questa battaglia, ed il luogo in cui si fece si
chiamarono negli annali lombardi _mala mort_e. Gli effetti di tale
disfatta non influirono per altro sulla sorte dei vinti come poteva
temersi, perchè Enrico VI, ritornando allora dalla sua prima impresa
della Puglia, volle che le città nemiche si rappacificassero, e si
rilasciassero vicendevolmente i prigionieri.
[273] _Jacobi Malvecii Chron. Brixian. dist. VII. c. 62. 63. t. XIV.
p. 883 — Sicardi Epis. Cremon. Chron. t. VII. p. 615 — Chron. breve
Cremon. t. VII. p. 636 — Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 222. t. XI.
p. 656._
[274] Si pretende che i Cremonesi, gettandosi nel fiume, gridassero:
_è meglio annegarsi che morire_. Così l'ironia s'attacca spesso alle
più funeste memorie; e facile è il passaggio dal ridicolo al
terrore.
A questa guerra, ed all'altra che si fecero con quasi ugual furore Parma
e Piacenza[275], tennero dietro alcune mal conosciute liti fra i Comuni
ed i gentiluomini del distretto, ma che forse ebbero più importanti
conseguenze, perchè furono cagione di fare successivamente cadere tutte
le repubbliche dell'Italia settentrionale, per un tempo più o meno
lungo, sotto il giogo di alcuni signori che crudelmente abusarono
dell'usurpato potere. Dobbiamo perciò risalire all'origine di questi
usurpi nella provincia della Marca trivigiana o veneziana, di dove il
contagio parve che si diffondesse ancora nelle altre.
[275] Negli anni 1198 e 1199.
Questa provincia è in parte montuosa, e nei secoli di mezzo
l'ingrandimento o il decadimento della nobiltà parve cagionata dalla
natura del paese in cui abitava. I gentiluomini trovavansi dovunque
esposti ugualmente alla gelosia delle città, ma quelli che abitavano
nella parte piana, non potendo giovarsi della natura del suolo per
fortificarsi, furono forzati di sottomettersi più presto alle
repubbliche, domandando il diritto di cittadinanza, e formando una
classe separata, è vero, ma però di cittadini. Altronde quelli che
trovavansi nelle montagne, essendo lontani dalle repubbliche, divisero i
loro interessi dagli altri che vivevano nelle città, e si disposero a
mantenere indipendenti i piccoli loro principati. Alcuni sopravvissero
agli ultimi comuni liberi, come i Malaspina che conservarono in
Lunigiana la loro sovranità fino agli ultimi anni del decorso secolo, e
come i feudi imperiali nelle alpi liguri che furono anche più tardi
proprietà d'una nobiltà immediata, rimasta indipendente[276]. Nello
stesso modo i gentiluomini degli Appennini chiudevano le repubbliche
toscane entro una linea di piccoli principati, che Fiorenza soggiogò
soltanto poichè giunta fu al suo maggior grado di potenza. Ma nella
Marca trivigiana i Monti euganei e le basi delle Alpi, prolungandosi in
mezzo alle fertili pianure ed alle più floride città, presentavano
montagnuole rese forti dalla natura, che i nobili non tardarono a
coprire di castelli e di ridotti fortissimi. Colà mantenendosi in tutto
il loro splendore, e resi potenti dal numero de' vassalli e dalle
accumulate ricchezze, conservarono tra le repubbliche della Marca
un'influenza che non avevano i nobili d'altri paesi, e si appropriarono
il godimento e l'elezione di tutte le magistrature, non lasciando tempo
al popolo di misurare le proprie forze e di scuotere il giogo.
[276] Tanto i Malaspina, che i feudatari imperiali della Liguria
erano dipendenti dall'Impero, da cui ricevevano l'investitura del
rispettivo feudo; come pure il duca di Massa ed il principe di
Carrara. Tutti avevano nella loro giurisdizione il _jus sanguinis_,
ma il solo duca di Massa aveva ancora quello di battere monete,
ottenuto dall'Impero circa due secoli sono. _N. d. T._
Non perchè fossero vinti e sottomessi agli ordini delle repubbliche, ma
solo per approfittare de' servigi de' loro subalterni, e per aprire alla
loro ambizione una più vasta carriera, i nobili vennero a stabilirsi
nelle città della Venezia. Perciò fissandovi la loro dimora non vollero
esporsi alle tumultuose passioni di un popolo incostante, e
fabbricandosi case in seno alle città diedero loro, se non la forma, la
solidità delle fortezze. Grosse mura porte e barricate di ferro,
aperture assai più appropriate alla difesa che al comodo assicuravano al
nobile nella propria casa un'assoluta indipendenza in mezzo ad una città
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 13