Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 13

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nemica. E quand'ancora queste prime difese venivano superate, una torre
quadrata, formata di enormi masse di pietra, offriva in ogni casa nobile
un impenetrabile asilo, che non poteva forzarsi senza un lungo assedio;
poichè sull'alto della torre conservavansi abbondanti provvisioni, e le
armi necessarie alla difesa[277][278].
[277] A quest'epoca eranvi a Ferrara trentaquattro famiglie nobili,
e trentadue torri. _Cron. Parva Ferrar. t. VIII, p. 480-482_.
[278] Pavia chiamossi la città dalle cento torri, delle quali
rimangono in piedi non poche anco a' dì nostri. _N. d. T._
La potenza de' gentiluomini in tutte le repubbliche della Marca non
avrebbe crollato giammai, se fossero rimasti uniti; ma l'assoluta
indipendenza di cui godevano, incoraggiando ognuno ad appagare tutte le
passioni, fece nascere fra di loro le più sanguinose liti. Fin verso la
metà del XII secolo niuno storico si prese cura di tramandare alle
posterità gli avvenimenti di quella contrada; ma dopo tale epoca molti
sono gli scrittori che ci lasciarono d'ogni cosa racconti minutamente
circostanziati. Sappiamo da questi che alla morte d'Enrico VI tenevansi
vive in ogni città le antiche fazioni, e che, se in alcune repubbliche
regnava la pace, ciò dovevasi alle pattuite divisioni delle pubbliche
funzioni e di tutte le dignità dello stato tra le famiglie rivali.
Quasi tutte le repubbliche Italiane avevano abolita la magistratura
consolare per rimpiazzarla con quella dei podestà, quali avevali
istituiti Federico Barbarossa. Ogni città chiamava per un determinato
tempo un capo straniero, gentiluomo e militare, che seco conduceva
arcieri e soldati, ed era depositario non meno del potere giudiziario,
che della forza pubblica cui rivolgeva, a seconda del bisogno, contro
gl'interni nemici dell'ordine, e contro quelli dello stato.
Benchè la plebe avesse una parte più immediata nell'elezione de' consoli
che in quella dei podestà, approvò questa innovazione, e la trovò utile,
perchè non richiedevasi meno d'una forza militare per metter freno alle
turbolenti fazioni de' nobili.
Quando il podestà veniva informato di qualche pubblico delitto, faceva
appendere alle finestre del palazzo il gonfalone di giustizia; e facendo
colle trombette avvisare tutti i cittadini di prendere le armi, usciva
egli stesso a cavallo dalla sua residenza, circondato dalle sue guardie
e seguito dal popolo. La casa del colpevole era all'istante assediata, e
venuta in mano della forza pubblica si spianava fino alle fondamenta. In
questa esecuzione, quantunque talora si punissero i colpevoli
coll'ultimo supplicio, non conservavansi altrimenti le forme del foro,
nè si aveva verun riguardo alla libertà d'una ben ordinata repubblica.
In mezzo ad uomini indipendenti e quasi sempre in guerra gli uni contro
gli altri, lo stesso capo dello stato moveva guerra ai cittadini
ribelli, e coll'apparato della sedizione intratteneva nella repubblica
una tal quale subordinazione. Ognuno ripromettevasi la sua libertà dalla
propria energia e non chiedeva al governo che la repressione d'un
grandissimo disordine.
Non erasi ancora supposto che un podestà potesse usurparsi il supremo
potere, e perciò non si era cercato che di porsi in guardia contro la
loro parzialità. Per prevenirla, ogni repubblica della Marca trivigiana
aveva divisa l'elezione tra i due partiti che dominavano in ogni città.
A Vicenza la nobiltà formava due fazioni, i conti di Vicenza, ed i
signori del Vivario. Ogni fazione nominava il suo commissario, ed i due
commissarj riuniti eleggevano ogni anno il podestà. A Verona le due
famiglie di Montecchio, o Monticulo, e di S. Bonifazio, seguite dal
rimanente della nobiltà, eransi ugualmente diviso il diritto d'eleggere
il podestà[279]. Altrettanto facevano in Ferrara le fazioni dei
Salinguerra e degli Adelardi equilibrate coll'attributo della stessa
prerogativa.
[279] _Gerardi Maurisii Vicentini Historia Scrip. It. T. VIII, p
II._ — Dalla casa di Montecchio prese Shakespear Montagu in Romeo e
Giulietta — _Ricardi Comit. de S. Bonifatio vita, t. VIII, p. 121 —
Chron. Veronen. p. 623._
Non era supponibile che questa divisione di potere elettivo permettesse
lunga pace a repubbliche male ordinate che contavano tra i loro
cittadini i nobili, sovrani nei proprj castelli e quasi di forze uguali
allo stato di cui erano membri, ed avvezzi a sbramare con aperto
disprezzo dell'ordine pubblico tutte le loro passioni. Prima che
terminasse il XII secolo la violenza d'alcuni gentiluomini risvegliò la
sopita animosità delle fazioni, e riaccese la guerra in tutta la
Venezia.
Sotto il regno di Corrado II un gentiluomo tedesco, chiamato Ezzelino,
aveva accompagnato quest'imperatore in Italia con un solo cavallo, ed in
ricompensa di questi servigi aveva da lui ricevuta la terra d'Onara e di
Romano nella Marca trivigiana[280]. A questo primo fondatore d'una
potente casa, resa famosa dai delitti, era succeduto un Alberico, ed in
seguito un Ezzelino che pure porta il nome del primo, e viene
soprannominato il balbo. Avevano questi signori accresciuto assai il
patrimonio della loro casa coll'acquisto di Bassano, di Marostica, e di
altre terre poste al nord di Vicenza e di Padova, in guisa che il loro
feudo formava già un piccolo principato, non inferiore di forze alle
repubbliche confinanti; e siccome le interne fazioni delle città
ambivano l'alleanza delle fazioni imperiali, i signori da Romano erano
omai risguardati in tutta la Venezia quai capi del partito ghibellino.
[280] _Rolandini de factis in Mar. Trivis. Chron. l. I, c. 7, p.
176._
Ezzelino il balbo e Tisolino di Campo Sampiero, il primo nobile
vicentino, padovano l'altro, erano congiunti d'amicizia e di alleanza,
avendo il secondo sposata una figlia d'Ezzelino, da cui aveva avuto più
figli, de' quali alcuni erano già usciti di fanciullezza. Accadde che al
primogenito di costoro si offrisse in matrimonio l'erede d'una potente
famiglia padovana chiamata Cecilia, che Manfredi, ricco signore d'Abano,
aveva, morendo, lasciata orfana. Tisolino volle, prima di conchiudere
tali nozze, avere l'assenso dell'amico e del suocero Ezzelino; il quale
trovando che questo accasamento utilissimo sarebbe al proprio figliuolo
Ezzelino II, senza lasciar travedere il suo pensamento al genero, si
addirizzò segretamente ai tutori della donzella, che vinti dall'oro,
rotta ogni trattativa con Tisolino, l'accordarono al signore da Romano;
il quale la fece onorevolmente tradurre nel suo castello di Bassano e la
maritò al figliuolo.
Questo tradimento eccitò la più viva indignazione nella famiglia di
Campo Sampiero, che giurò di farne vendetta, nè dovette lungo tempo
aspettarne l'opportunità. Alcuni mesi dopo il suo matrimonio, la sposa
d'Ezzelino recavasi a vedere i suoi poderi nello stato di Padova oltre
la Brenta con un accompagnamento più magnifico che forte. Gherardo
figliuolo di Tisolino che doveva essere suo sposo e che invece era
diventato suo nipote, postosi in agguato presso al castello di s.
Andrea, la tolse alle sue genti e la disonorò. Cecilia, tornata a
Bassano, non celò al marito la sua sventura; perchè ripudiata, passò in
seguito a seconde nozze con un nobile veneziano[281]. Ma le due
famiglie, irritate dai vicendevoli insulti, giuraronsi un odio che si
propagò di padre in figlio e che non s'estinse che col sangue.
[281] Rolandino ricorda nello stesso tempo tre divorzi accaduti in
questa famiglia. Egli ne parla come di avvenimenti allora comuni,
senza farvi alcuna osservazione. Erano forse allora permessi dalla
Chiesa? o soltanto dissimulati?
Erasi intanto accresciuta la potenza d'Ezzelino II e per questo
matrimonio e per l'altro contratto dopo il divorzio. Alleato delle
repubbliche di Verona e di Padova, ebbe in breve bisogno dei loro
soccorsi; perciocchè essendo stato del 1194 nominato podestà di Vicenza
uno de' suoi nemici, questi lo fece esiliare con tutta la sua famiglia e
tutti i suoi partigiani indicati col nome di _Vivario_. Prima
d'assoggettarsi a tale sentenza, cercò di difendersi incendiando le più
vicine case; e gran parte della città fu in questo ammutinamento
consunta dalle fiamme. Tali furono le prime scene di disordine e di
sangue ch'ebbe sotto gli occhi appena nato il figlio del signore di
Romano, il feroce Ezzelino[282].
[282] Nacque il 4 aprile del 1194.
Non era per i signori da Romano troppo grave punizione l'esiglio da
Vicenza. Ritiratisi a Bassano in mezzo ai loro sudditi, si circondavano
dei loro partigiani ugualmente perseguitati, ma sprovveduti delle loro
risorse; e perciò costretti, approfittando delle beneficenze di così
potente famiglia, di rendersi, di uguali che erano, loro mercenarj.
L'esiglio non poteva durar sempre, e le disgrazie non meno che le
prosperità accrescevano il credito dei Romano presso la repubblica. I
Veronesi interpostisi per rimettere la pace in Vicenza, ottennero il
richiamo dei signori di Romano e de' suoi aderenti, ed autorizzarono le
due fazioni a nominare un podestà[283]. Così strana divisione
dell'autorità giudiziaria affidata a passioni nemiche, non era senza
esempio, e, ciò che più è notabile, praticato con felice successo pel
mantenimento della pace: senza dubbio per la ragione medesima, che due
armate nemiche comandate da esperti capitani possono stare a fronte
lungo tempo senza combattersi.
[283] _Girardi Maurisii Hist. p. 11._
Del 1197 i Vicentini elessero ancora un podestà contrario alla fazione
Ezzelina; ed allora non solo la comune esiliò un'altra volta questo capo
di parte, ma gli dichiarò guerra e mandò le sue milizie ad assediare
Marostica[284]. I signori di Romano, situati tra il territorio di tre
repubbliche, erano in libertà di allearsi con quella che credessero più
utile ai loro interessi. Ezzelino impegnò ai Padovani per una
considerabile somma la terra d'Onara posta nella loro diocesi, e stipulò
con loro un atto di alleanza offensiva e difensiva, in virtù della quale
i suoi nuovi alleati attaccarono i Vicentini innanzi a Carmignano e
fecero loro due mila prigionieri[285]. Ciò accadde nel 1198, onde i
Vicentini, chiamati i Veronesi in loro soccorso, avanzaronsi uniti nella
campagna padovana per guastarla, spingendo le loro avanguardie fin sotto
le mura di Padova, a segno che si videro volare sulla città le scintille
degli incendj delle vicine case. Di che spaventati i Padovani,
rilasciarono tutti i prigionieri, senza il consenso d'Ezzelino, ed
ebbero a tale condizione la pace. Ma questi approfittò di tale pretesto
per separarsi dalla cadente loro fortuna. Offerse ai Vicentini di porsi
per le loro contese in arbitrio de' Veronesi; e diede loro in ostaggio
suo figlio, ed i più forti castelli Bassano ed Angarani: colla quale
assoluta confidenza si conciliò in modo l'affetto loro, che al podestà
di Verona riuscì facile l'ottenergli la pace dalla repubblica di Vicenza
e da tutta la fazione guelfa, facendogli restituire i castelli ed il
figliuolo. I Padovani non tardarono a punirlo dell'essersi riconciliato
coi loro nemici, e confiscarono a loro profitto la terra d'Onara di cui
trovavansi in possesso, e che altra volta aveva dato il suo nome alla
casa da Romano[286].
[284] _Roland. l. I, c. 7. p. 176._
[285] _Id. l. I, c. 7. p. 176._
[286] _Gerar. Maur. p. 14._ — _Ant. Godii Nob. Vicentini Chron. p.
74._
Mentre l'innalzamento d'una famiglia che doveva dominare tutto il
partito ghibellino, dava motivo a frequenti guerre nell'alta Venezia, al
mezzogiorno di questa provincia la crescente potenza d'un'altra casa,
posta alla testa de' Guelfi, veniva accompagnata da sommosse e da civili
discordie. Fra i territorj di Padova, di Ferrara, di Verona e di Vicenza
possedeva il marchese d'Este le borgate d'Este, Montagnana, Badia, ed il
Polesine di Rovigo. Alcune sono poste sopra colline isolate che
soprastanno alle ricche pianure della Venezia, ed il Polesine è difeso
dal corso di due gran fiumi, l'Adige ed il Po. Il marchese d'Este erasi
giovato della vantaggiosa situazione delle sue terre per conservarsi
indipendente in mezzo alle potenti repubbliche che lo circondavano;
erasi inoltre guadagnato l'amore de' suoi vassalli con un giusto e
moderato governo; ed aveva loro permesso di partecipare del favore
d'un'amministrazione repubblicana, eleggendosi i loro consoli[287]. La
casa d'Este alleata di quella de' Guelfi duchi di Baviera e Sassonia,
poi di Brunswik, sempre rivale della casa di Svevia, aveva già dato
prove del suo attaccamento alla causa dei papi in occasione delle
vertenze loro con Federico Barbarossa, quand'ella fu impensatamente
chiamata all'eredità d'un altro capo dello stesso partito.
[287] Veggansi diversi trattati tra il marchese ed i suoi sudditi,
_Antiquit. Ital. Dissert. XLV, t. IV, p. 42. 45._ e seguenti _ad
ann. 1198_, e 1204.
Guglielmo Marchesella degli Adelardi capo della parte guelfa in Ferrara,
quello stesso che abbiamo veduto salvare Ancona, poco dopo questa
gloriosa impresa, ebbe la sventura di vedere successivamente perire gli
ultimi eredi maschi di sua famiglia, suo fratello con tutti i suoi
figliuoli. Di questo fratello sopravvivea però una fanciulla in ancor
tenera età chiamata Marchesella: egli lasciolla erede di tutti i suoi
averi, sostituendole, in caso che morisse senza prole, i figliuoli di
sua sorella. Credette poscia che le sventure di sua famiglia potrebbero
consolidare almeno la pace della patria, riavvicinando con istretti
vincoli i capi delle contrarie parti. Salinguerra, figliuolo di
Torrello, era allora capo dei Ghibellini di Ferrara; e Guglielmo non
contento di destinargli sposa sua nipote, allora in età di sette anni,
la pose nelle sue mani, lasciando allo sposo la cura della di lei
educazione; poi spirò[288]. Ma i Guelfi non acconsentirono che l'unico
rampollo d'un sangue loro tanto caro si dasse in balìa ad una famiglia
nemica: nè sapendo risolversi ad affezionarsi a coloro, contro i quali
eransi lungo tempo battuti, trovaron modo di rapire all'improvviso
Marchesella dalla casa de' Salinguerra, e di condurla in quella dei
marchesi d'Este, offrendola in isposa ad Obizzo d'Este, cui diedero
anticipatamente il possesso dei beni di Adelardo. Allora fu che la
famiglia estense si stabilì in Ferrara e che accettò la prima volta i
diritti di cittadinanza in un comune: ma il favore de' Guelfi di Ferrara
giovò assai più alla sua grandezza, che la passata indipendenza. Dopo
tal epoca la casa d'Este fu così universalmente riconosciuta capo della
parte guelfa, che in tutta la Venezia si chiamò _fazione del marchese_.
[288] _Chronica parva ferrariensis, t. VIII, p. 481. — Chronic.
Fratr. Francisci Pipini, l. I, c. 46. t. IX, p. 628._
L'interesse particolare taceva in faccia allo spirito di partito.
Marchesella morì avanti che si effettuasse il suo matrimonio, ma non
pertanto i nipoti di Guglielmo, che le erano stati sostituiti, non
riclamarono l'eredità di Adelardo per timore che, spogliando la casa
d'Este di tanta parte delle sue ricchezze, non s'allontanassero da
Ferrara con gravissimo pregiudizio della parte guelfa. Dall'altro canto
i Salinguerra avevano vivamente sentita l'ingiuria loro fatta; e dal
1180 in cui fu loro tolta la giovanetta sposa, fino al 1220, mantennero
viva la guerra civile entro le mura di Ferrara. Dieci volte in tale
periodo di tempo una parte cacciò l'altra di città, dieci volte le
proprietà dei vinti furono preda dei vincitori e le case distrutte fino
ai fondamenti[289].
[289] _Chron. parva Ferrar. p. 481._ Di queste guerre civili scrisse
estesamente Gio. Battista Pigna nella sua _storia de principi
d'Este. Venez. 1572. in 4.º l. II, p. 161, e segu._ Ma il suo
racconto abbonda di così grossolani errori, che non si può
prestargli veruna fede.
Mentre la libertà delle repubbliche della Venezia, o Marca trivigiana,
veniva così crudelmente compromessa dalle torbide passioni dei loro
gentiluomini, ed il loro governo declinava in oligarchia irregolare, le
repubbliche transpadane di Bologna, Modena, Reggio, Parma e Piacenza
consolidavano ogni giorno più la loro indipendenza ed acquistavano una
assoluta superiorità sulla nobiltà castellana del loro territorio. Negli
annali di Reggio, che di quest'epoca sono più circostanziati di quelli
delle altre città, trovasi ogni anno accennato alcun trattato fra
qualche gentiluomo ed il podestà, con cui sottomettonsi castelli alla
repubblica[290]. Il gentiluomo obbligavasi con simile atto a consegnare
la sua terra alla città di Reggio, a vivere almeno due mesi in città,
adempiendo a tutti i doveri di cittadino, sia coll'ubbidire ai
magistrati della repubblica, che contribuendo con tutte le forze alla
difesa delle persone, dei diritti e delle proprietà de' suoi nuovi
concittadini. Gli annali di Bologna contengono un ancora maggior numero
di somiglianti sommissioni, ed oramai queste repubbliche non avevano più
nel proprio territorio gentiluomini da loro indipendenti. I loro stati
confinavano tutti con quelli di altre repubbliche, ed i nobili associati
alla sorte loro, invece d'esser rivali, formavano un nuovo ordine di
cittadini. Vero è che quest'ordine addossandosi le prerogative onerose a
tutta la nazione, eccitava già la gelosia del popolo. I Bolognesi
avevano nel 1192 nominato il proprio vescovo Gerardo de' Scannabecchi in
pretore ossia podestà, il quale prelato li governò nel corso di un anno
con tanta saviezza e moderazione, che tutte le parti ne rimasero
egualmente soddisfatte[291]. Il susseguente anno fu perciò riconfermato
nell'impiego; del che i nobili non tardarono a dolersene, dicendo che i
soli plebei erano da lui favoriti, e che, per poco che ancora durasse il
suo governo, l'autorità dei gentiluomini riducevasi a nulla[292]. Prese
perciò le armi, lo cacciarono fuori della città, nominando in sua vece
due consoli. Questo primo segno della loro gelosia, questa prima
chiamata alla decisione delle armi sui diritti dei due ordini rivali
poteva essere per i nobili, che non erano i più forti, di troppo
pericoloso esempio. Poteva il popolo a vicenda riacquistare coi mezzi
medesimi quell'influenza che di presente gli si toglieva, poteva
cacciare i nobili stessi dalla città; ed infatti quest'esempio fu
cagione che in un'altra repubblica si facesse ciò che i Bolognesi
potevano fare.
[290] _Memoriale Potestatum Regiensium t. VIII, p. 1077 et seguent._
Negli _Annales Veteres Mutinenses_, e nel _Chronicon Parmense_ non
trovansi rispetto al XII secolo che i nomi dei consoli e dei
podestà: ma il Muratori diede nella prefazione al Malvezzi _t. XIV,
p. 774_, due carte di gentiluomini che in tale epoca sottomettonsi
alla repubblica di Modena.
[291] Uno storico di Bologna riferisce sotto l'amministrazione di
Gerardo una leggenda che mi sono fatto lecito di riferire in questo
luogo, come prova dei costumi e della credulità di que' tempi.
Una giovane vergine chiamata Lucia, non meno bella che nobile, erasi
chiusa nel monastero di santa Catterina di Bologna. Un Bolognese di
lei innamorato prendeva posto ogni giorno sotto la finestra cui ella
s'affacciava per udire la messa nella chiesa del suo convento. Lucia
osservò l'emozione del giovane nell'istante in cui ella
s'avvicinava; e rammentò le parole dettele dal vescovo nell'atto di
darle il velo: «ch'ella disgiunga per sempre i suoi occhi da quelli
degli uomini;» onde si credette obbligata a Dio di nascondersi
interamente agli sguardi del suo amante, il quale il susseguente
giorno vide la finestra chiusa da una gelosia che toglieva
assolutamente Lucia a' suoi sguardi. Era questo l'istante in cui
erano i Cristiani tuttavia costernati dalla perdita di Gerusalemme
ed in cui chiamavansi tutti i cuori generosi a prendere la croce.
Giurò il giovane di consacrarsi a Dio, come la sua diletta, partì
per terra santa, e nel primo incontro, spingendosi nelle prime linee
degl'infedeli, vi cercò piuttosto la morte che la vittoria.
Atterrato e fatto prigioniero, fu dai Saraceni sottoposto a crudeli
tormenti perchè rinegasse la fede. Trovandosi tra le mani dei
carnefici, gridò: «O vergine santa, o casta Lucia! Se tu vivi ancora
sostieni colle tue preghiere quello che tanto ti amò; e se ti trovi
in cielo, rendimi propizio il mio Signore!» Ebbe appena dette queste
parole, che cadde in profondissimo sonno, e quando svegliossi, si
trovò ancora carico di ferri presso al monastero di santa Cristina.
Lucia lo stava aspettando risplendente di gloria e di bellezza. —
«Lucia vivi tu ancora?» gridò egli. «Io vivo, ma della vera vita;
va, deponi i tuoi ferri sul mio sepolcro e ringrazia Iddio del
favore che ti ha fatto.» Ella era morta lo stesso giorno in cui egli
aveva abbandonato l'Europa. — _Cherubino Ghirardacci istoria di
Bologna. Lib. IV, p. 106._
[292] _Ibid. p. 102._
Il governo di Brescia era tutt'affatto nelle mani dei nobili, che
avevano successivamente strascinato il comune in varie guerre contro le
vicine città di Cremona e di Bergamo. Istigati dai Milanesi, questi
nobili vollero di nuovo, l'anno 1200, fargli prendere le armi contro i
Bergamaschi; ma il popolo, spossato da frequenti guerre, si rifiutò di
assecondare i loro ambiziosi pensieri senza suo profitto, ed invece
prese le armi per cacciare dalla città coloro che volevano costringerli
a servire; e dopo un sanguinoso combattimento, dato in mezzo alle
strade, gli obbligarono a fuggire. Rifugiatisi nel territorio cremonese
i gentiluomini bresciani formarono tra di loro una compagnia militare,
cui diedero il nome di società di san Fausto. I plebei dal canto loro
formarono pure una compagnia chiamata _Bruzella_[293]: il qual nome di
Bruzella o Brighella si conservò fino a' dì nostri, ed un plebeo
bresciano insolente coraggioso e furbo è pure una delle mascare del
teatro italiano. I nobili si collegarono colle città di Cremona, Bergamo
e Mantova, già da molto tempo nemiche della loro patria. D'altra parte
il popolo si unì ai Veronesi, e si continuò la guerra tra loro con
estremo accanimento. Anche in Padova ebbe luogo lo stesso anno una quasi
simile rivoluzione, di cui la cronaca di quella città non ci dà che la
seguente notizia. «L'anno 1200, vi si dice, i plebei tolsero ai
magistrati l'amministrazione della città e presero essi soli le redini
del governo[294].» E per tal modo le rivoluzioni dell'ultimo anno del
secolo XII parvero presagire quelle che nel corso di tutto il secolo
XIII sconvolsero l'Italia.
[293] _Jacob. Malvecii Chron. Brixian. Dist. VII, c. 81.-84, p. 894.
t. XIV._
[294] _Additam. ad Roland. Regiminum Paduæ t. VIII, p. 368._


CAPITOLO XIII.
_Pontificato di Innocenzo III. — Stabilimento del potere
temporale della Chiesa. — Abbassamento della fazione
ghibellina._
1197 = 1216.

La quasi simultanea morte di tutti i sovrani d'Italia lasciò nel
dodicesimo secolo libero corso all'ambizione di uno de' loro successori,
il pontefice Innocenzo III. Questo papa fu uno de' fondatori della
temporale monarchia della Chiesa; monarchia quattro volte ristabilita
dai pontefici, perchè quattro volte, malgrado l'appoggio delle opinioni
religiose, i papi lasciaronsi spogliare da quello stesso poter militare
ch'essi avevano istituito per propria difesa. I papi sollevati a tanta
potenza da Carlo Magno e dai suoi successori, furono chiamati
nell'undecimo, tredicesimo e sedicesimo secolo a nuova tenzone per
ricuperare la perduta dominazione: Gregorio VII, Innocenzo III e Giulio
II, sono gli uomini che in queste tre diverse epoche riconquistarono
l'autorità temporale e diedero uno stato alla Chiesa. Lo stabilimento
d'una potenza di primo ordine, che spesso cercò l'alleanza delle città
libere, che talvolta le oppresse e che sempre s'immischiò in tutte le
loro rivoluzioni, deve formare una parte essenziale della storia delle
repubbliche italiane.
Tra i papi e gl'imperatori doveva mantenersi una costante opposizione,
necessaria conseguenza del supremo rango di questi due capi del
cristianesimo, delle loro prerogative, delle pretensioni loro. Potevano
ben segnare fra di loro alcune tregue, ma sincera pace non mai, finchè i
papi non rinunciavano al dominio su tutti i troni della terra, finchè
gl'imperatori non si spogliavano de' più importanti diritti. Quando la
lite rimaneva sopita, non era tale tranquillità che l'effetto della
soverchia preponderanza che un partito acquistava sull'altro;
l'equilibrio riapriva sempre la guerra.
Dopo la pace di Costanza il partito imperiale aveva ricuperata in Italia
grandissima preponderanza. Alla potenza ed alla gloria di Federico I
aggiungevasi il matrimonio di suo figlio coll'erede di Napoli, che
privava il pontefice d'un antico e fedele alleato, ed accresceva le
forze del suo avversario. Lo stato ecclesiastico circondato e diviso
dalle possessioni del monarca trovavasi debole ed incapace di
resistergli, per cui i papi da Lucio III fino a Celestino III trovaronsi
sforzati di coprire con apparente moderazione la debolezza e dipendenza
loro. L'ultimo specialmente dovette opporsi agli attacchi d'Enrico VI,
che parevano compromettere la sua esistenza; e per quanto fosse grande
l'importanza della disputa ch'egli ebbe con questo monarca, non ardì mai
di far causa comune coi suoi nemici, o d'impiegare contro di lui le armi
spirituali, di cui i suoi predecessori avevano fatto così frequente
abuso[295]. Intanto Enrico aveva in ogni maniera ristretti i limiti, o,
a meglio dire, le pretensioni del papa. Dopo le investiture accordate ai
Normanni, la santa sede veniva considerata come abituale sovrana del
regno di Napoli; ma a fronte di ciò, Enrico, per impadronirsi di quel
regno, non erasi giovato che del suo diritto ereditario, senza curarsi
dell'assenso del papa. Egli aveva continuato a godere i beni della
contessa Matilde malgrado le rimostranze della santa sede, e gli aveva
accordati in feudo ai suoi parenti, o ai suoi generali; aveva richiamati
in vigore gli antichi diritti dell'Impero sulle province vicine a Roma,
il ducato di Spoleti, la Marca d'Ancona e la Romagna; e non erasi fatto
carico della pretesa sovranità de' papi su queste province; finalmente
aveva perfino entro la stessa Roma doppiamente ristretta l'autorità
ecclesiastica e coi poteri ch'egli erasi riservati e con quelli che
accordati aveva alle istanze del governo repubblicano.
[295] Innocenzo III pretese in seguito, egli è vero, ch'Enrico era
stato scomunicato per avere arrestato Ricardo I d'Inghilterra:
effettivamente egli era incorso nelle generali scomuniche fulminate
contro tutti coloro che attaccheranno i crociati; ma questa
formidabile sentenza non era mai stata contro di lui fulminata.
Enrico VI e Celestino III morirono l'anno 1197, e la loro morte cambiò
sì fattamente i rapporti e le proporzioni delle forze dei due partiti,
che il pontefice ebbe la volta sua per ispogliare di alcuni diritti
l'autorità reale senza incontrare resistenza e senza che i suoi
avversarj riclamassero contro la sua ambizione. Immediatamente dopo la
morte di Celestino, Innocenzo III, nobile romano, conte di Signa, fu
nella fresca età di trentasett'anni nominato papa. Egli portava sulla
santa sede una profonda conoscenza degl'interessi della sua patria e di
quelli della Chiesa, il coraggio e l'ambizione d'un giovane gentiluomo,
e la fama di santità e di sapere che gli avevano procacciato la
regolarità dei costumi ed alcune opere a que' tempi assai pregiate[296].
Dall'altro canto Federico II, il successore d'Enrico, era ancora
fanciullo di due anni, la di cui madre Costanza in quell'anno che
sopravvisse al marito, erasi data al partito del papa per averne il suo
appoggio; divideva co' suoi sudditi l'odio concepito contro i Tedeschi
ministri della tirannide del marito, ed aveva dichiarato nemico del suo
regno il generale Marcovaldo allora duca di Ravenna e marchese d'Ancona.
Poi quando venne a morte, scelse Innocenzo III per tutore del figliuolo
e per amministratore del suo regno; e come potesse temere che il papa si
rifiutasse a tale ufficio, gli assegnava un canone per allettarlo ad
incaricarsene.
[296] Egli aveva scritto intorno alla miseria dell'umana condizione
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