Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 07

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l'impressione del momento. Perciò lo stesso scrittore che con tanto
entusiasmo aveva descritto l'universale ardore dimostrato dai Genovesi,
quando, nel 1158, temendo d'essere attaccati dall'imperatore, rialzarono
e rinforzarono le loro mura[153], parlando adesso delle fresche vittorie
di Federico adopera le più lusinghiere frasi, chiamandolo _l'imperatore
sempre augusto, sempre trionfante, quello che innalzò l'impero al più
elevato grado di gloria_[154]. Infatti i Genovesi spedirono una
deputazione a Federico per felicitarlo della sua vittoria, ed
assicurarlo della loro sommissione. E perchè nel tempo medesimo gli
offrirono una flotta per valersene nella sua guerra di Sicilia,
ottennero da lui un atto che ci fu conservato, col quale accorda ai
consoli di Genova il diritto di chiamare sotto le loro bandiere in tempo
di guerra gli abitanti della costa ligure da Monaco fino a porto Venere,
vale a dire di quasi tutto l'attual territorio della repubblica, salva
però sempre la fedeltà che questi vassalli di second'ordine dovevano
all'Impero, ed il diritto di giustizia de' conti e dei marchesi.
Riconfermò al popolo il diritto di eleggere i suoi consoli, ed accordò
in feudo ai Genovesi Siracusa ed altri duecento cinquanta feudi nella
valle di Noto, promettendogliene loro il possesso all'istante che col
loro ajuto sarebbesi impadronito della Sicilia. Gli concesse inoltre,
con pregiudizio de' Provenzali, il privilegio esclusivo di commerciare
in tutti i luoghi marittimi, non escluso lo stato di Venezia, qualora i
Veneziani non riacquistassero la sua grazia. Li dispensò pure dal
militare per lui, tranne sulle coste della Provenza e delle due Sicilie;
e per ultimo si obbligava a non far la pace con Guglielmo re di Napoli,
o con i suoi successori senza il libero assenso de' consoli
genovesi[155].
[153] _Caffari Ann. Genuenses l. I, p. 271._
[154] _Idem. p. 278._
[155] Questo trattato viene riportato per intero dal Muratori.
_Antiqu. Ital. Diss. XLVIII. t. IV, p. 253._
Mentre con questi speciosi privilegi pareva che Federico esentasse i
soli Genovesi dal giogo che aveva posto alle altre città, si offerse
arbitro delle contese che avevano coi Pisani, perchè desiderava di
rendere la pace a due popoli, onde valersi a proprio vantaggio delle
loro armi. La guerra che al presente facevansi le due repubbliche ebbe
principio in Costantinopoli, ove ambedue avevano stabilita una colonia.
I Pisani trovandosi colà in numero di due mila, mal soffrivano nel
commercio di quella capitale la concorrenza de' Genovesi, la di cui
colonia non contava più di trecento uomini; perciò gli attaccarono, e,
senza che il governo greco, testimonio di tanta violenza, osasse
d'immischiarsi nella contesa di commercianti bellicosissimi ch'egli
accarezzava e temeva, gli spogliarono affatto e cacciarono dalla città.
I Genovesi disponevansi appunto a vendicare sul mar tirreno l'affronto
fatto ai loro concittadini quando Federico usò della sua autorità per
far loro deporre le armi. I deputati delle due città rivali dovettero
firmare in Torino una tregua colla quale s'obbligavano di non riprendere
le armi, finchè l'imperatore non pronunciasse la sua sentenza dopo
tornato dalla Germania[156].
[156] _Caffari Ann. Gen. p. 280.-283. — Breviarium Pisanæ Hist. p.
173.-174. — Uber. Fol. Gen. Hist. l. II, p. 268. — Marang. Cronache
di Pisa. Scrip. Etr. t. I, p. 387._
(1163) Quando l'imperatore tornò in Italia in sul finire del 1163, non
più come conquistatore, ma come padrone, trovò queste due città
sommamente inasprite da un nuovo motivo di discordia. Avevano i Pisani,
come si disse a suo luogo, conquistata già da un secolo l'isola di
Sardegna, e ne avevano dato in feudo le signorie a molti loro
gentiluomini. Ma questi feudatari, trovandosi lontani dalla metropoli,
eransi quasi emancipati da ogni dipendenza e resi sovrani indipendenti,
appoggiati dall'alleanza de' Genovesi che possedevano alcune fortezze in
Sardegna. Quest'isola era allora caduta quasi tutta in potere dei
quattro signori di Sallura, di Logodoro, di Arborea e di Cagliari, i
quali col titolo di giudici affettavano un fasto reale. Barisone giudice
d'Arborea che discendeva dall'antica famiglia Sardi di Pisa (posta in
possesso d'Arborea quando i Pisani conquistarono la Sardegna), essendo
di questi tempi andato a Genova, trovò che due suoi compatriotti erano
stati innalzati alle principali magistrature della repubblica. Corso
Sismondi era console del comune, e Sismondi Muscula console delle
liti[157]. Propose loro di riporre tutta l'isola sotto l'alta signoria
di Genova, a condizione d'ajutarlo ad allargare la propria autorità. A
Federico che, sempre avido di riconquistare gli antichi dominj
dell'impero romano, non aveva potuto far valere (1164) i suoi pretesi
diritti sulla Sardegna, si presentò a Fano Barisone, offerendogli di
fargli omaggio dell'isola di Sardegna e di pagargli a titolo di tributo
un canone di quattro mila marche, a condizione che l'imperatore volesse
riconoscere i suoi diritti, o piuttosto le sue orgogliose pretese, ed
investirlo del regno sardo. I consoli genovesi Corso Sismondi e Baldizzo
Ususmari, deputati del comune presso Federico, dovevano dare guarentia
per Barisone e promettere l'assistenza della loro flotta per metterlo al
possesso del nuovo regno, ch'egli doveva poi sempre mantenere ligio e
devoto alla repubblica di Genova.
[157] _Obertus Cancel. Ann. Gen. l. II. p. 292._
Tosto che i consoli pisani, che pure trovavansi alla corte di Federico,
ebbero sentore di questo trattato, riclamarono altamente contro la
concessione che l'imperatore era per fargli, rimostrando che la Sardegna
era una proprietà di Pisa e che Barisone, il quale aveva la sciocca
vanità di aspirare allo splendore della corona, era vassallo e
livellario della loro repubblica. I consoli genovesi che fino allora non
eransi più che tanto interessati alle proposizioni fatte dal giudice
d'Arborea, abbracciarono subito la sua difesa per dar peso alle loro
pretese sulla Sardegna, ed impedire che non fossero dall'imperatore
riconosciuti i titoli dei loro rivali. Ma questi, senza prendersi troppa
cura di scandagliare il merito della causa, s'affrettò d'accettare il
danaro che venivagli offerto per una corona che non gli apparteneva; e
fece stendere dai suoi notai un diploma col quale dichiarava Barisone re
di Sardegna; dopo di che domandavagli le quattro mila marche
promesse[158].
[158] _Obertus Cancel. Ann. Genuens. p. 293, 294. — Breviar. Pisanæ
Hist. p. 175, 176. — B. Marangoni Cron. di Pisa p. 394._
Il giudice d'Arborea, costretto d'imitare il fasto della corte e
largamente spendendo, aveva omai consunti que' tesori che il ristretto
vivere tra i suoi rustici vassalli gli faceva credere inesauribili. Di
modo che quando Federico gli accordò il diploma sì lungo tempo
desiderato, il nuovo re non aveva la somma convenuta. Vero è ch'egli
disponevasi a stabilire nella sua isola le imposte di cui vedeva
aggravati i popoli del continente, e protestando che i suoi sudditi,
abbagliati dallo splendore della nuova dignità, s'addosserebbero con
piacere le spese del trono, chiedeva a Federico di rientrare nella sua
isola ond'essere in grado di soddisfare in breve al suo debito; ma
l'imperatore dichiarò che non gli avrebbe permesso di allontanarsi dalla
sua corte senza aver prima mantenute le sue promesse.
I consoli genovesi che avevano favoreggiata la sua causa più per
soddisfare al loro odio contro di Pisa, che per affetto che portassero a
Barisone, si risolsero di soccorrerlo. Nè pagarono soltanto le quattro
mila marche dovute all'imperatore; che vi aggiunsero altre più
ragguardevoli somme per accompagnarlo con un'armata in Sardegna; ma
perchè risguardavano la sua persona come la sola cauzione del loro
credito, non gli permisero mai di sbarcare nella sua isola; e dopo
essere rimasto alcun tempo in faccia ad Arborea, sospettando che li
tradisse e si accomodasse di nuovo coi Pisani, lo ricondussero a Genova,
ove lo tennero prigioniero per i suoi debiti[159].
[159] _Obert. Can. p. 295.-298. — B. Maran. Cron. di Pisa p. 398._
Intanto i giudici di Gallura e di Logodora, avendo rinnovato il loro
giuramento di fedeltà ai Pisani, avevano coi soccorsi della repubblica
occupato il distretto d'Arborea e postolo a fuoco ed a sangue, di modo
che il nuovo re di Sardegna, lungi dall'assoggettarsi i suoi uguali,
aveva inoltre perduto l'antico suo patrimonio. Non però, quantunque
dimenticato più anni in prigione, lasciarono le rivali repubbliche di
battersi in mare e di distruggere i vascelli nemici e le fortezze poste
lungo le loro spiaggie.
Ma in tempo di queste guerre con Pisa erano i Genovesi interamente
travagliati da una civile discordia, di cui lo storico pubblico non ne
trascrisse le particolarità per timore di disonorare la sua patria[160].
Racconta solo che le nobili famiglie degli Avogadi e de' marchesi della
Volta, forse rivali in credito ed in potenza, eransi offese, ed avevano
strascinati gli amici nella loro contesa. Un marchese della Volta era
stato ucciso del 1165, quantunque fosse allora console; e furono
ugualmente uccisi nel susseguente anno Rubaldo Barattieri, Sismondo
Sismondi, Juscello e Scotto. E perchè l'odio delle due famiglie,
rendendosi ogni giorno più vivo, toglieva ogni speranza di
accomodamento, i consoli del 1169, per ristabilire la pace tra fazioni
sorde alle loro voci, e più del governo potenti, furono costretti di
ordire in certo qual modo una cospirazione.
[160] _Obertus Canc. p. 310._
Cominciarono dall'assicurarsi segretamente delle pacifiche disposizioni
di molti cittadini che la parentela colle famiglie rivali strascinava
loro mal grado nella lite; indi consigliatisi con Ugo, venerabile
vecchio loro arcivescovo, fecero avanti giorno chiamare dalle campane
del comune i cittadini a parlamento, sperando che la sorpresa e
l'allarme di così improvvisa chiamata, in mezzo all'oscurità della
notte, renderebbe l'adunanza e più numerosa e più tranquilla. I
cittadini nel recarsi a parlamento videro in mezzo alla piazza il loro
vecchio arcivescovo circondato da' suoi clerici in abito di cerimonia e
con torchie accese in mano, mentre che le reliquie del protettore di
Genova s. Giovanni Battista stavano colà esposte, ed i più ragguardevoli
cittadini tenevano tra le loro mani le croci supplichevoli.
Quando l'assemblea fu riunita, alzossi il vecchio prelato, e colla mal
ferma sua voce scongiurò i capi di fazione in nome del Dio della pace,
per la salute delle anime loro, in nome della patria e della libertà,
che le loro discordie menavano ad aperta ruina, a giurare sul vangelo
intera dimenticanza delle loro contese, e stabil pace. Poich'ebbe
terminato di parlare, gli araldi si presentarono a Rolando Avogado, l'un
de' capi d'una fazione che trovavasi presente all'assemblea, ed
assecondati dalle acclamazioni del popolo e dalle preghiere de' suoi
parenti medesimi, gl'intimarono di accedere al voto dei consoli e della
nazione.
Rolando stracciavasi gli abiti da dosso, e, sedutosi in sulla terra e
piangendo, chiamava ad alta voce i morti parenti che aveva giurato di
vendicare, e che non gli acconsentivano di perdonare le loro antiche
offese. E perchè non potevano ridurlo ad appressarsi al luogo ove stava
il libro de' vangeli, gli s'avvicinarono i consoli stessi, l'arcivescovo
ed il clero, i quali a forza di preghiere lo fecero finalmente giurare
sul vangelo obblio delle passate inimicizie.
Folco e Castro ed Ingo della Volta, capi della contraria parte, non
erano intervenuti all'adunanza, onde il popolo ed il clero recaronsi in
folla alle loro case, e trovaronli già commossi da quanto era stato loro
raccontato; perchè, approfittando delle loro disposizioni, li fecero
giurare una sincera riconciliazione, e dare il bacio della pace ai capi
dell'opposta fazione. In segno di allegrezza per così lieto avvenimento,
si suonarono le campane della città, e l'arcivescovo ritornato sulla
pubblica piazza intuonò il _Tedeum_ in onore del Dio della pace che
aveva salvata la patria[161].
[161] _Obertus Canc. Ann. Genuens. p. 324-327. Uberti Foliettæ
Genuensis Hist. l. II, p. 278._
Abbiamo detto che Federico era tornato in Italia del 1163 conducendo
seco la sposa, una splendida corte, ma non truppe. I Pavesi,
approfittando del terrore del di lui nome, mossi da vecchia gelosia,
vollero distruggere Tortona, onde rappresentarono all'imperatore che i
Milanesi non l'avevano rifabbricata che per mostrar disprezzo delle sue
vendette, e che una città, da lui ruinata e rifatta dai suoi più acerbi
nemici, cospirerebbe sempre coi faziosi: a queste ragioni aggiunsero
l'offerta di ragguardevole somma, ed ottennero dall'imperatore la
facoltà di atterrare fino alle fondamenta le mura della già ruinata
città. Nell'eseguire quest'imperiale rescritto non solo distrussero le
mura che potevano dare agli abitanti di Tortona un mezzo di difesa, ma
ne demolirono ancora le case[162].
[162] _Otto Mor. Hist. Laud. p. 1123._
(1164) Questo fu per altro l'ultimo atto violento che la fazione
vittoriosa si permettesse per soddisfare ad un'antica rivalità che omai
andava calmandosi. Durante la lontananza dell'imperatore, i podestà da
lui posti al governo delle diocesi avevano bruttamente abusato della
loro autorità, esigendo contribuzioni sei volte più gravi di quelle che
portavano le antiche consuetudini, e non lasciando agli abitanti del
Milanese e del Cremasco che il terzo del raccolto. Lo stesso Morena,
tanto affezionato storico dell'imperatore, depose che non eravi alcun
Lombardo il quale, rammentando l'antica libertà della sua patria, non
riguardasse come un obbrobrio le tasse cui vedevasi esposto, e non
desiderasse di vendicarsi[163]. Pure gl'Italiani avevano atteso il
ritorno dell'imperatore, lusingandosi che in allora avrebbe posto riparo
agli abusi d'ogni maniera sotto cui gemevano.
[163] Id. Ibid. p. 1127-1129. Non sappiamo per altro se Otto Morena
sia sempre l'autore di questa parte della storia, o se abbia a
quest'epoca incominciato la continuazione scritta da suo figliuolo
Acerbo. La narrazione dal padre viene senza interrompimento
continuata dal figliuolo e da uno sconosciuto, senza che possa
sapersi ove termina l'uno, ed incomincia l'altro. Acerbo Morena
militò sotto l'imperatore, e morì nella spedizione di Roma l'anno
1167. Acerbo manifesta sentimenti più generosi e più liberali del
padre.
Difatti, avvertiti i Milanesi che Federico recavasi da Lodi a Monza ove
faceva fabbricare un palazzo, presentaronsi affollati lungo la strada
che doveva tenere, ed in tempo di notte, in mezzo al fango e sotto una
dirotta pioggia, lo pregavano colle ginocchia a terra e con profondi
gemiti a trattarli con maggior dolcezza. Federico si mostrò commosso, ed
ordinò che si rilasciassero i loro ostaggi, ma avendo rimesso ai suoi
ministri l'esame delle loro lagnanze, questi ne presero anzi motivo per
aggravare di nuove tasse gli sgraziati che avevano osato di
lamentarsi[164].
[164] _Sire Raul p. 1189._
Gli abitanti della Marca veronese che non avevano quasi presa parte
alcuna nelle guerre di Lombardia, presentarono pure le loro istanze
contro queste vessazioni tanto più odiose, quanto che i ministri regi
non avevano alcun motivo di trattarli ostilmente. Pure non furono
ascoltati. Intanto essendosi l'imperatore innoltrato nell'Emilia dalla
banda di Fano, le città lombarde approfittarono del suo allontanamento
per tenere un'adunanza. Verona, Vicenza, Padova e Treviso giurarono di
sussidiarsi vicendevolmente ne' tentativi che farebbero per minorare i
diritti dell'Impero, riducendoli alla misura praticata dagl'imperatori
ortodossi predecessori di Federico. Convennero inoltre di opporsi ad
ogni usurpo del monarca, e di esaminare le prerogative che gli
appartenessero per diritto[165].
[165] Vita Alex. III a Card. Arragonio p. 456 — Se può darsi fede
allo storico greco Cinnamo (L. V, c. 13. p. 103. Bisan. t. XI),
quest'alleanza fu conchiusa ad istigazione dell'imperatore Manuele
Comneno geloso del crescente potere di Federico. Egli contestavagli
il titolo d'imperatore, e mandò Niceforo Calufi a Venezia, ed altri
agenti di minor conto nelle altre città con ragguardevoli somme di
danaro per eccitare alle armi i Lombardi in difesa della loro
libertà.
Anco i Veneziani, che da lungo tempo erano diventati odiosi a Federico,
presero parte in questa lega, che allora si credette abbastanza forte
per metter fine alle vessazioni de' governatori tedeschi: attaccò nella
Marca trivigiana que' gentiluomini ch'eransi rifiutati d'entrare nella
lega, e scacciò gli ufficiali dell'imperatore più odiosi al popolo.
Tosto che Federico ebbe notizia di tali movimenti, tornò a Pavia, ed
avendo riuniti de' Lombardi in cui più si fidava, le milizie di Pavia,
di Novara, di Cremona, di Lodi e di Como, s'avanzò alla volta di Verona
per devastarne il territorio; ma la lega veronese trasse in campagna la
sua armata, che marciò coraggiosamente contro l'imperatore. Non tardò
Federico ad avvedersi che le milizie lombarde lo seguivano di mala
voglia; e spaventato di trovarsi in loro balìa, abbandonò
precipitosamente il campo, e fuggì innanzi ai Veronesi[166]. Dopo tal
epoca tutte le città gli diventarono sospette, e perchè i marchesi, i
conti, i capitani dovevano essere naturali nemici delle città libere,
contrasse alleanza con questi, e ripartì nelle loro fortezze i suoi
migliori soldati tedeschi[167].
[166] _Acerbus Morena p. 1123._
[167] _Vita Alex. III. a Card. Arrag. p. 456._
Dopo così umiliante esperimento della sua debolezza, Federico non poteva
prolungare il suo soggiorno in Italia senza esporsi a grandissimi
rischi. Passò dunque in Germania poco dopo essersi ritirato dal
Veronese, assicurando però i suoi alleati, che sarebbe in breve tornato
con un'armata capace di mettere a dovere i sudditi ribelli.
Comunque insopportabil peso dovesse riuscire a così impetuoso carattere,
come era quello di Federico, il ritardo della vendetta, fu non pertanto
obbligato di lasciare ai Lombardi che lo avevano offeso, abbastanza di
tempo per esercitare le truppe, fortificare le città, e contrarre nuove
alleanze. L'antipapa Vittore III, che l'imperatore aveva opposto a papa
Alessandro, era morto in principio di quest'anno; ed il successore
ch'egli aveva fatto nominare, Guido da Cremona, che faceva chiamarsi
Pasquale III, non era riconosciuto da verun altro sovrano, onde Federico
trovavasi avviluppato in continui negoziati coi re di Francia e
d'Inghilterra, che lo andavano eccitando a dar la pace alla Chiesa, e
coi propri sudditi di Germania che non erano sempre disposti a
riconoscere vescovi scismatici. A tali ostacoli s'aggiunse in Germania
la guerra che rinnovossi tra le case guelfa e ghibellina, cui Federico
non poteva essere indifferente[168].
[168] _Otto de Sancto Blasio Chron. c. 18. et 19. t. VI. Rer. It. p.
875 — Conradi ab. Usper. Chron. p. 293. apud Pithaeum._
(1165) Intanto essendo morto il Vicario di Roma, papa Alessandro nominò
suo successore il cardinale di S. Giovanni e Paolo, il quale s'adoperò
per ridurre i Romani all'ubbidienza del legittimo pontefice. Per
riuscire nell'intento seppe opportunamente spargere il danaro tra il
popolo; fece entrare in Senato persone a lui affezionate, escludendone
gli scismatici; ottenne la restituzione della chiesa di S. Pietro e del
contado della Sabina ove il partito dell'antipapa aveva lungo tempo
dominato, e finalmente, a fronte dell'opposizione d'alcuni cittadini,
ottenne dalla maggioranza del popolo romano l'atto con cui spediva una
deputazione ad Alessandro per invitarlo a tornare alla sua greggia[169].
Alessandro, così consigliato dai re di Francia e d'Inghilterra, partì da
Sens ove aveva stabilita la sua dimora, e s'imbarcò a Monpellier. Spinto
dai venti a Messina, si valse di tale opportunità per rinfrescare
l'antica alleanza con Guglielmo re di Sicilia, e di là venne a sbarcare
ad Ostia. I nobili, i senatori, il clero ed il popolo gli si fecero
incontro in processione, e lo accolsero come loro pastore con
dimostrazioni sincere di rispettosa ubbidienza[170].
[169] _Vita Alex. III. a Card. Arrag. p. 456._
[170] _Ibid. p. 457. — Romuald. Saler. Chron. p. 205._
Dall'altro canto Cristiano arcivescovo eletto di Magonza, il quale era
luogotenente dell'imperatore in Toscana, erasi con un'armata tedesca
avanzato nella campagna di Roma sottomettendo Viterbo e quasi tutte le
altre città all'antipapa Pasquale; ma appena s'allontanò dalle sue
conquiste, i Romani sussidiati dalle truppe del re Guglielmo fecero
rientrare nell'ubbidienza della Chiesa quasi tutte le piazze occupate
dagli scismatici.
(1166) Guglielmo I, soprannominato il cattivo, dopo avere giovato alla
Chiesa ed alla causa della libertà, morì[171], lasciando un fanciullo
per suo successore, che fu poi chiamato Guglielmo il buono, il quale
rimase lungo tempo sotto la tutela di Margarita sua madre. Benchè
distinti da opposti nomi il padre ed il figlio tennero la stessa
condotta rispetto all'Italia, per mantenere libera la quale, siccome
richiedeva la sicurezza del loro regno, fecero causa comune col papa,
coll'imperatore d'Oriente, e colle città libere.
[171] Guglielmo I, coronato ancora vivente il padre l'anno 1150,
morì del 1166. _Romual. Saler._ p. 205. Questo storico che dopo la
congiura di Matteo Bonella fu il principale liberatore del re, fu
pure uno de' principali suoi ministri, uno dei più ricchi prelati
del regno, suo confessore, e suo medico. La sua storia di questo
assai curioso regno merita d'essere letta.
Quelle della Marca veronese facevano grandi preparativi per difendere la
propria e la libertà della Chiesa. I Veronesi ed i Padovani attaccarono
il castel di Rivoli ed il forte d'Appendoli che chiudevano i passaggi
delle montagne per cui poteva scendere Federico in Italia: ma questi,
dopo aver raccolta una potente armata, prese in autunno la strada della
Valcamonica, ed entrò in Lombardia a traverso il territorio bresciano.
Benchè ugualmente irritato contro tutte le città, che sapeva tutte a se
malaffezionate, non s'attentò di attaccarle finchè non ottenne di
dividerle con segrete pratiche. Ne' comizi adunati in Lodi nel mese di
novembre, promise di far giustizia dei torti che formavano l'argomento
delle lagnanze dei comuni, e dopo averne favorevolmente accolti i
deputati, e pacificamente congedati, s'avviò senza dar battaglia alla
volta di Ferrara e di Bologna[172].
[172] _Vita Alex. III. a Card. Arragonio p. 457._ — _Acerbus Morena
Hist. Laud. p. 1131._ — _Otto de Sancto Blasio c. 20. p. 876._
(1167) Federico per cagioni a noi ignote rallentava la sua marcia verso
l'Italia meridionale, e consumava sei mesi tra Bologna ed Ancona[173],
senza aver castigati i Lombardi che lasciavasi alle spalle, e senza
avanzarsi verso Roma che si era ribellata. I Veronesi, sempre più
vessati dai ministri imperiali, mandarono deputati a tutte le città
ugualmente maltrattate, facendole risolvere a tenere una dieta il giorno
settimo degl'idi d'aprile nel monastero di Pontida posto tra Milano e
Bergamo[174], per risolvere sul modo di provvedere alla comune
difesa[175]. Intervennero a questa dieta i deputati di Cremona, di
Bergamo, di Brescia, di Mantova e di Ferrara. I Milanesi sempre divisi
nelle loro quattro borgate vi spedirono alcuni primarj cittadini, i
quali domandarono caldamente che la dieta facesse precedere ad ogni
altra risoluzione quella di render loro la patria, affinchè non
rimanendo più esposti alle continue incursioni de' loro nemici,
potessero di nuovo unirsi alle milizie confederate per difendere la
libertà d'Italia. I deputati di tutte le città, sovvenendosi della
valorosa resistenza fatta dai Milanesi, promisero d'impegnare i loro
concittadini a rifabbricare le mura di Milano, ed a proteggere quel
popolo finchè fosse messo in situazione di potersi da se medesimo
difendere. Dopo ciò convennero intorno alla forma del giuramento
federativo, che cadaun deputato riportò alla sua patria perchè fosse
adottato dai proprj concittadini. Approvato che fosse dall'assemblea
generale d'ogni città, doveva essere ripetuto da tutti gl'individui che
la componevano. Con tale giuramento le città contraevano un'alleanza di
vent'anni, durante la quale erano tenute di ajutarsi reciprocamente
contro chiunque osasse attaccare i privilegi di cui erano in possesso
dopo il regno d'Enrico IV fino all'assunzione al trono di Federico:
promettevano pure di concorrere a compensare i danni cui potessero
andare soggetti i membri della lega nel difendere la libertà.
[173] Federico partì da Lodi l'undici gennajo ed intraprese
l'assedio d'Ancona ai primi di luglio.
[174] Pontida è posta tra Bergamo e Lecco quasi ad uguale distanza,
ed è celebre il suo monastero per questa dieta della federazione
lombarda.
[175] _Sigon. de Regn. It. l. XIV. p. 320_ — _Acerbus Mor. p. 1133_
— _Trist. Calchi Hist. Pat. l. XI, p. 268._
In tempo che i consoli delle città ed i loro deputati ritornati alle
proprie case, assoggettavano alle deliberazioni dei parlamenti generali
l'alleanza conchiusa in Pontida, i Milanesi disarmati, e divisi in
aperte borgate, temevano di essere ad ogni istante assaliti dalle
milizie pavesi, cui non erano in grado di far resistenza. Sapevano
essersi resa affatto pubblica l'inchiesta fatta all'assemblea di
Pontida, ed ogni notte poteva essere anticipatamente stata destinata dai
loro nemici per il massacro e l'incendio, e l'avvicinarsi delle tenebre
gli stringeva il cuore di spavento. Circondati da città nemiche che in
meno d'un giorno potevano mandare le loro milizie a sorprenderli, erano
pure continuamente atterriti dagli amichevoli avvisi che i Pavesi davano
ai loro ospiti milanesi[176]. Estrema era la costernazione, quando la
mattina del giorno 27 aprile del 1167 comparvero all'ingresso della
borgata di S. Dionigi dieci cavalieri di Bergamo cogli stendardi del
loro comune; e tenevan loro dietro altrettanti stendardi di Brescia, di
Cremona, di Mantova, di Verona e di Treviso. Venivano dopo loro le
milizie che portavano le armi da distribuirsi ai Milanesi[177]. Gli
abitanti delle quattro borgate riunitisi all'istante, s'avanzarono,
mettendo grida di gioja, verso la distrutta città: colà distribuironsi
tra di loro il lavoro dello sgombramento della fossa e della
ricostruzione delle mura, prima di metter mano alle loro case. Le truppe
della _lega lombarda_, che allora presero tal nome, non ritiraronsi da
Milano finchè que' cittadini non furono a portata di respingere
gl'insulti de' loro nemici, e di non temere un colpo di mano[178].
[176] _Sire Raul p. 1191._
[177] _Acta Sancti Galdini apud Bolland. 18 april. p. 594. No. 5.
notæ ad Morenam p. 1134._
[178] _Acer. Morena p. 1135_ — _Trist. Cal. Hist. pat. l. XI. p.
268_ — _Galv. Flam. man. Flor. c. 198, 201. p. 648_ — _Jacobi
Malvetii Chron. Brix. dist. VII. c. 46, p. 879, t. XIV._
La città di Pavia era così ligia all'imperatore, che niuno lusingavasi
di poterla staccare dai suoi interessi; ma la lega lombarda risguardava
come cosa di somma importanza il guadagnare alla confederazione la città
di Lodi. Questa città posta tra Cremona e Milano diventava in mano
all'imperatore una piazza d'armi troppo dannosa; perchè, occupandola
egli, potrebbe sempre a sua posta intercettare i viveri ai Milanesi, le
di cui campagne erano state in modo ruinate, che lungo tempo dovrebbero
ancora provvedersi di viveri fuori del loro territorio. I Cremonesi che
in ogni tempo furono gli alleati ed i protettori di Lodi, vennero
incaricati del trattato con que' cittadini.
I loro deputati ammessi nel consiglio di Credenza salutarono, com'era di
costumanza, a nome de' loro consoli e di tutto il popolo cremonese, i
consoli ed il popolo lodigiano; indi narrarono ordinatamente quanto essi
avevano fatto fino allora in servigio dell'imperatore, e le ricompense
che ne avevano ricevuto; giustificarono poi i progetti della lega
formata per difendere i comuni diritti, e conchiusero supplicando i
Lodigiani ad unirsi con loro per l'onore della nazione lombarda e per
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