Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 06

Total number of words is 4226
Total number of unique words is 1629
38.6 of words are in the 2000 most common words
54.2 of words are in the 5000 most common words
62.6 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
contro la città; ed uno di loro, secondo lo attesta Radevico di
Frisinga, gridava ad alta voce ai suoi figliuoli[132]: «Fortunati coloro
che muojono per la patria e per la libertà! Non temete la morte che può
sola oramai rendervi liberi. Se foste giunti all'età nostra, non
l'avreste voi disprezzata come noi facciamo? voi felici, che morite
avanti di temere come noi altri l'infamia delle nostre spose, e non
udite le grida de' vostri figli che implorano pietà. Oh ci sia dato di
seguirvi ben tosto! e non rimanga veruno de' nostri vecchi seduto sopra
le ceneri della città. Possano chiudersi i nostri occhi prima di vedere
la santa nostra patria caduta tra l'empie mani de' Cremonesi e de'
Pavesi!»
[132] _Radev. Fris. l. II, c. 47. — Gunt. Lig. l. X, p. 146._
La torre intanto, colpita dagli enormi sassi lanciati dalle catapulte,
minacciava rovina, e l'imperatore aveva ragione di temere che, prima
d'arrivare a' piè delle mura, schiaccerebbe, cadendo, i guerrieri che
portava. La fece perciò ritrocedere e staccarne gli ostaggi che la
ricoprivano coi loro corpi; de' quali ne furono trovati nove morti,
quattro milanesi e cinque cremaschi, e tra i primi uno de' Posterla, ed
un Landriano, due delle principali famiglie di quella città; tra gli
ultimi un giovane ecclesiastico. Altri due ostaggi erano gravemente
feriti; molti erano tuttavia illesi[133].
[133] _Otto Mor. p. 1037, 1139. — Sire Raul p. 1183. — Trist. Calchi
Hist. patr. l. II, c. 48, et 49._
Nè queste furono le sole atroci azioni che infamassero l'assedio di
Crema; ma il dovere di storico non mi forza ad intrattenermi più
lungamente in mezzo a così ributtanti memorie.
I Milanesi che desideravano divertire dall'assedio di Crema parte delle
forze imperiali, assediarono il castello di Manerbio, che possedevano i
Tedeschi sul lago di Como; ma furono costretti a ritirarsi da certo
conte Goswino che con un corpo di truppe era stato spedito
dall'imperatore in soccorso di Manerbio, e vi perdettero molti uomini.
In pari tempo furono posti al bando dell'impero i Piacentini per avere
approvigionato di viveri Milano e Crema[134].
[134] _Radev. Frising. l. II, c. 48, et 49._
Erano più di sei mesi che quest'ultima città era stata cinta d'assedio,
nè l'imperatore si lasciava muovere dall'asprezza dell'inverno a
renderlo men vivo. Fece riparare la torre mobile che gli assediati
avevano rispinta, e costruirne un'altra, che, a fronte della più
ostinata resistenza, furono portate in tanta vicinanza della muraglia,
che i balestrieri soprastavano agli assediati. (1160) Ma ciò che gli
diede maggior speranza di condurre l'impresa a felice fine, fu il
tradimento di Marchese, principale ingegnere de' Cremaschi, il quale,
passato essendo nel campo imperiale, presiedette alla costruzione di
nuove macchine contro quella città, che aveva fin allora lungo tempo
difesa[135]. Egli consigliò l'imperatore a mettere sulle torri i
migliori soldati, ed i balestrai nella parte più elevata, perchè,
dominando le mura, facessero ritrarre gli assediati dalle difese, mentre
il fior de' guerrieri getterebbe dal primo piano i ponti sulle mura. Il
rimanente dell'armata avanzavasi all'assalto tra l'una torre e l'altra,
disposta a valersi della zappa e della scala, secondo che tornerebbe più
in acconcio, tosto che vedessero abbassati i ponti levatoj. Dal canto
loro gli assediati si ordinavano sulle mura, e coperti di mantelletti
sforzavansi coi loro gatti o montoni adunchi d'impadronirsi, o di
rovesciare i ponti che dalle torri facevansi cadere sulle loro mura.
Respinti più volte da queste, altre tante le ricuperarono, ributtando
sempre valorosamente gli assalitori, tra i quali facevasi distinguere
Attone conte palatino di Baviera, il primo a lanciarsi sulle mura,
l'ultimo ad abbandonarle. Dopo aver perduto assai gente esposta alle
freccie degli arcieri, senza che potessero nè difendersi nè vendicarsi,
in sul cadere del giorno furono costretti d'abbandonare le mura
esteriori e di ripiegarsi entro i secondi ripari, disposti in tutto di
voler sostenere con egual vigore un secondo assedio[136].
[135] _Otto Morena p. 1046._
[136] _Radev. Fris. l. II, c. 59. — Otto Moren. 1045, 1047. —
Guntheri Ligurinus l. X. p. 148, 150._
Ma quando, durante la notte, riconobbero le poche forze che loro
rimanevano, e numerarono i valorosi soldati che avevano perduti, quando
videro le fosse colmate, ed osservarono la debolezza del muro interno,
abbandonaronsi alla disperazione. All'indomani proposero al patriarca
d'Aquilea ed al duca di Baviera di entrare in trattato per la resa colla
loro mediazione. Il patriarca assicurò i consoli, che il solo mezzo di
calmare la collera dell'imperatore era quello di darsi a discrezione.
Uno di loro, comprimendo il suo dolore, rispose non aver essi prese le
armi contro Federico, ma bensì contro i Cremonesi, risoluti di non
servire che a Dio ed all'imperatore: che credevano d'aver fatto
conoscere che preferivano la morte ad una ingiusta schiavitù: che la
loro alleanza coi Milanesi non aveva avuto altro oggetto, che quello di
liberarsi dalla servitù: che l'avevano mantenuta fin che Dio lo permise,
ma che ora erano sforzati di risguardare come un segno della celeste
collera la disperata situazione cui trovavansi ridotti. Ed in fatti essi
avevano ancora armi e viveri senza poterne far uso per salvezza della
loro libertà. Il console pose fine al suo parlare, chiedendo che, poichè
il vittorioso imperatore era pur determinato di castigare i suoi
concittadini, non volesse almeno darli in mano ai loro più feroci
nemici, i Cremonesi.
Finalmente Federico si lasciò piegare ad offrir loro alcune condizioni,
che vennero subito accettate. Permetteva loro di sortire dalla città
colle mogli e figli, portando in una sol volta sulle proprie spalle
quanti effetti potevano. Rispetto alle milizie sussidiarie di Milano e
di Brescia, volle che sortissero senz'armi e senza salmeria; ma permise
a tutti senza riserva di recarsi dove più loro piacesse.
In forza di tale convenzione il giorno 22 gennaro del 1160, gli abitanti
di Crema, uomini, donne e fanciulli in numero di circa ventimila
sortirono da questa sventurata città, avviandosi verso Milano.
L'imperatore abbandonò Crema al saccheggio, dopo il quale i suoi soldati
appiccaronvi il fuoco, ed i Cremonesi atterrarono poi fino alle
fondamenta tutto quanto aveva resistito all'incendio[137][138].
[137] _Radev. Fris, l. II, c. 62._
[138] Quantunque le repubbliche lombarde impugnassero le armi per
difendersi contro le armate imperiali, non cessarono però mai, anche
in tempo che trovaronsi vittoriose, di riconoscere le prerogative
dell'Impero e di rispettare l'imperatore, che non avrebbe facilmente
trovato veruna città ribelle, se loro avesse lasciati i privilegi
accordati da Ottone il grande, e non si fosse collegato, per
opprimerne alcune, colle città rivali, le di cui milizie sfogavano
sotto il di lui nome i loro odj privati sui vinti. Del resto quante
lagrime e quanto sangue dovettero versare quelle semi-repubbliche
per una larva di libertà, ed in sostanza mancanti di vera
indipendenza, di unione fra loro e per conseguenza di quiete e di
ogni civile felicità! _N. d. T._
Il settembre del precedente anno era morto papa Adriano IV, quando la
sua lite coll'imperatore incominciava a farsi viva. Il collegio de'
cardinali, riunitosi per dargli un successore, si divise fra due rivali;
Rollando originario di Siena, canonico di Pisa, cardinale del titolo di
san Marco, e cancelliere della Chiesa, fu eletto dagli uni, mentre
dall'opposta fazione fu nominato Ottaviano nobile romano, cardinale del
titolo di santa Cecilia. Il primo ch'ebbe maggiori suffragi, ed aveva il
favor popolare, fu consacrato sotto nome di Alessandro III, e dalla
Chiesa riconosciuto pur per legittimo papa. Il secondo, che prese il
nome di Vittore III, era spalleggiato dal senato e dalla nobiltà romana;
ma è verosimile che fosse egli medesimo persuaso della illegittimità di
sua elezione, poichè cercò il favore degli antagonisti dei papi e della
libertà romana, in Germania ed in Lombardia. Sperando Federico che
questa doppia elezione indebolirebbe la corte pontificia, convocò di sua
propria autorità un concilio a Pavia, intimando ai due pontefici di
presentarsi. Alessandro era stato fatto prigioniere dal suo rivale; e,
quantunque liberato dalla fazione popolare, non trovandosi abbastanza
forte per sostenersi in Roma, dimorava ora in una ed ora in altra città
a guisa di fuoruscito: pure rispose con fierezza, che il legittimo
successore di s. Pietro non era subordinato al giudizio dell'imperatore,
o dei concili. All'opposto Vittore passò a Pavia, e si guadagnò i
suffragi di Federico e de' suoi vescovi, onde, nell'atto che fu
confermata la di lui elezione, fulminò la scomunica contro Rollando o
Alessandro III, il quale dal canto suo scagliò tutti i fulmini della
Chiesa sul capo di Federico e dichiarò i suoi sudditi sciolti dal
giuramento di fedeltà[139][140].
[139] _Barron. ad ann. 1159, § 70, et sequ. — Vita Alexan. papæ III
a Card. Arragon. t. III, Rer. Ital. p. 448.-450._
Qui incominciamo a far uso della storia di Alessandro III, scritta
da un autore contemporaneo e raccolta con alcune altre dal cardinale
di Arragona. Questa preziosa opera ci compensa di quella di Radevico
che termina poco dopo quest'epoca. Essa devesi piuttosto risguardare
come la storia della guerra di Lombardia, che come quella del
pontefice. Questa storia, ordinatamente scritta, è particolarizzata
in modo che ben si conosce dettata da un testimonio oculare; e vi si
trova tutta quella imparzialità che può pretendersi da una storia
scritta in mezzo alle guerre civili. Sembra probabile che l'autore
morisse prima di papa Alessandro, poichè il racconto non arriva che
fino al 1178. Le altre due vite, quasi contemporanee, dello stesso
papa raccolte da Amalrico Augerio e da Bernardo Guidone, non
meritano pure di essere ricordate.
[140] L'elogio che il nostro autore fa alla vita anonima di papa
Alessandro III, non deve farci dimenticare dell'epoca in cui fu
scritta, nè l'autore di essa, quantunque assai diligente, s'innalza
però sopra il livello del suo secolo. _N. d. T._
La caduta di Crema non aveva scoraggiati i Milanesi, i quali, per
l'alleanza che contratta avevano col legittimo pontefice, univano la
loro causa a quella di mezza l'Europa, ed ammorzavano lo zelo de' loro
nemici. Inoltre i Tedeschi, dopo aver sostenuta una così lunga e penosa
campagna, sospiravano pel ritorno alla loro patria; onde Federico,
quantunque rimasto in Lombardia per continuar la guerra, si trovò
obbligato di licenziare la maggior parte della sua armata[141], non
ritenendo presso di se che suo cugino il duca Federico, figliuolo di
Corrado, i due conti palatini Corrado ed Ottone coi loro vassalli, i
vassalli proprj, e gl'Italiani della sua fazione. Conoscendo di non
avere forze superiori a quelle de' nemici, nel 1160 si limitò a fare la
piccola guerra.
[141] _Otto Mor. p. 1061. — Radev. Fris. l. II, c. 75._ Questa è
l'ultima notizia che prendiamo da così pregevole scrittore, il quale
dettò la sua storia lo stesso anno 1160, e la terminò allorchè
furono licenziate le truppe allemanne. Alla stessa epoca termina
Guntero il suo poema; onde dei Tedeschi non ci rimangono che Ottone
da s. Biagio e l'abate Uspergense. Sussidio assai debole.
Il fatto di Cassano fu il più importante di questa campagna. I Milanesi
avendo posto l'assedio a quel castello occupato dalle truppe imperiali,
Federico marciò il nove agosto per soccorrere gli assediati con alcune
milizie pavesi, tutte quelle di Novara, di Vercelli e di Como, i
vassalli di Seprio e della Martesana, il marchese di Monferrato, ed il
conte di Biandrate. Un rinforzo condotto dal duca di Boemia lo raggiunse
quando già trovavasi in faccia all'armata repubblicana, ch'egli circondò
da ogni banda, togliendole la comunicazione con Milano. Allorchè i
consoli s'avvidero della difficile situazione cui erano ridotti, non
volendo dar tempo ai soldati di conoscere il comune pericolo, e non
esporli a soffrire la fame, ordinarono di attaccare all'istante i
nemici. Opposero ai Tedeschi ed all'imperatore i battaglioni di porta
Romana e di porta Orientale, confidando loro la guardia del Carroccio,
perchè l'ardore con cui difenderebbero quel sacro deposito, gli
uguaglierebbe per lo meno ai Tedeschi, più di loro esperti nell'arte
militare. Collocarono i battaglioni delle altre due porte e gli
ausiliari bresciani contro gl'Italiani. Il valor personale di Federico,
sormontando ogni ostacolo, penetrò fino al Carroccio, uccise i buoi che
lo conducevano, atterrò la croce dorata ond'era ornato, e prese lo
stendardo del comune. Ma intanto l'altr'ala dei Milanesi trionfava
compiutamente degl'imperiali, di modo che le due armate credevano
ugualmente d'aver guadagnata la battaglia, quando una violenta pioggia
obbligò i combattenti a separarsi. Rientrando nel campo l'ala vittoriosa
dei Milanesi, conobbero la rotta avuta dall'altra; perchè insofferenti
dell'affronto fatto al Carroccio, uscirono tutti di nuovo per attaccare
l'imperatore, il quale, avendo perduto molti suoi valorosi soldati e
trovandosi separato dai Novaresi ch'erano fuggiti, abbandonò
precipitosamente i prigionieri ed i suoi equipaggi. I repubblicani,
paghi d'aver veduto l'imperatore fuggire innanzi a loro, rientrarono
trionfanti in Milano carichi delle sue spoglie[142].
[142] _Otto Morena Hist. Laud. p. 1087._
Il susseguente giorno furono ugualmente rotte le milizie cremonesi e
lodigiane, che marciavano con un convoglio d'approvigionamenti in
soccorso dell'imperatore: ed in pari tempo gli assediati del castello di
Cassano piombarono improvvisamente addosso alle poche truppe rimaste nel
campo, e, bruciate le macchine dei Milanesi, gli sforzarono a levar
l'assedio malgrado tutti i vantaggi riportati il precedente giorno.
Prima di porsi ai quartieri d'inverno in Pavia, Federico radunò i
feudatari italiani, e gli obbligò sotto la santità del giuramento di
raggiungere con tutte le loro forze i suoi stendardi nella vegnente
primavera. Si annoverano con dispiacere fra costoro il marchese Obizzo
Malaspina ed il conte di Biandrate, che in principio della guerra
avevano combattuto per una causa più nobile[143].
[143] _Otto Morena Hist. Laud. p. 1087._
(1161) Alcune scaramuccie di veruna importanza aprirono la campagna del
1161. Il giorno 16 di marzo i Lodigiani ed i Piacentini, senza che gli
uni sapessero degli altri, andarono nel bosco di Bulchignano posto al
confine dei loro territorj per sorprendersi reciprocamente con
un'imboscata, e vi stettero tutta la notte senz'avvedersi della
prossimità del nemico; ma essendosene in sul far del giorno accorti i
Piacentini, approfittarono della sorpresa de' Lodigiani e li fecero
quasi tutti prigionieri.
Intanto vergognandosi i Tedeschi che l'imperatore rimanesse come
abbandonato in mezzo ai Lombardi, verso la metà di giugno passarono le
Alpi per venire in suo soccorso. La loro armata di quasi cento mila
uomini si congiunse a Federico avanti il raccolto, ond'egli postosi alla
loro testa potè avanzarsi nel territorio milanese e bruciarne le biade
ancora immature fino alla distanza di dodici in quindici miglia dalla
città. I Milanesi tentarono più volte inutilmente di scacciare il nemico
dal loro territorio, ma rimasero perdenti in quasi tutti
gl'incontri[144].
[144] _Otto de Sancto Blasio in Chron. c. 16. Scrip. Rer. Ital. t.
VI, p. 874._
Quando poi in settembre s'avvicinavano a maturità i secondi raccolti, il
miglio e le fave[145][146], Federico invase di nuovo il territorio
milanese e consumò queste derrate col fuoco, come aveva prima distrutte
le biade. In tutto il rimanente della campagna i vantaggi e le perdite
si compensarono da ambe le parti; di modo che i soli fatti notabili sono
le crudeltà dell'imperatore verso i prigionieri cui faceva tagliar le
mani o appiccare.
[145] Morena nel suo barbaro latino li chiamava blava, che è la
biada degl'Italiani, vocabolo adoperato per indicare il raccolto
d'autunno e sopra tutto la biada di Turchia e la sagina, che io
credo non ancora coltivata in Italia nel dodicesimo secolo. Si
potrebbe per altro risguardare questo passo come una prova del
contrario.
[146] Anticamente il nome generico di biava usavasi in Lombardia per
indicare qualunque specie di granaglie, ma il grano turco
s'incominciò a coltivare alcuni secoli dopo l'epoca di Federico
Barbarossa. _N. d. T._
Al cominciar dell'inverno, Federico stabilì il suo quartiere a Lodi,
facendo in pari tempo fortificare Rivalta Secca e s. Gervasio per
tagliare la comunicazione tra Milano, Brescia e Piacenza, di maniera che
i Milanesi non potevano procacciarsi le vittovaglie da queste due città.
Ad accrescere le angustie di questi, oltre la ruina quasi totale delle
loro campagne, s'aggiunse un fatale incendio che consumò due quartieri
della città ov'erano posti quasi tutti i granai, talchè in sul cominciar
dell'inverno mancavano già i viveri. (1162) L'imperatore, che non
ignorava le sventure de' suoi nemici, faceva crudelmente punire coloro
che si attentavano d'introdurre vittovaglie in Milano, cosicchè in un
solo giorno rimasero senza mani venticinque paesani, che i suoi soldati
avevano trovati carichi di munizioni[147]. Perchè conobbero i Milanesi
essere loro impossibile di giungere con sì scarse provvisioni fino al
nuovo raccolto, che pure dovevano credere che verrebbe, siccome il
precedente, distrutto dai nemici, di modo che ciò che la forza delle
armi non ottenne, si consegui dall'onnipotenza della fame. I consoli
spedirono all'imperatore, che in allora soggiornava a Lodi, deputati ad
offrire umili condizioni di pace; cioè di demolire, in attestato di
sommissione, le mura in sei luoghi, e di ricevere in avvenire i podestà
che vorrà mandarli. Ma Federico rispose ai loro deputati, che non
isperassero grazia finchè non gli s'arrendessero senza condizione,
abbandonandosi affatto alla sua clemenza. Allorchè si ebbe in Milano
tale risposta, i magistrati protestarono invano di non voler rinunciare
alla libertà che perdendo la vita, perciocchè il popolo ammutinato
trionfò della loro resistenza e gli obbligò a sottomettersi[148].
[147] _Sire Raul p. 1186._
[148] _Otto Morena p. 1099._ È vero che l'imperatore lasciava in
loro arbitrio di arrendersi a discrezione o sotto così dure
condizioni, che i suoi medesimi cortigiani non credevano eseguibili;
e perciò s'applicarono al primo partito. _Burchardi Ep. de Excid.
Med. t. VI, Rer. Ital. p. 915._
Cedendo al volere del popolo gli otto consoli con altri otto cavalieri
si presentarono il giorno primo di marzo al palazzo dell'imperatore in
Lodi, e tenendo la spada nuda in mano si arresero a discrezione in nome
della città. Giurarono nello stesso tempo d'essere disposti ad ubbidire
a tutti gli ordini imperiali; giuramento che verrebbe rinnovato da tutti
i Milanesi. Tre giorni dopo, richiese l'imperatore che trecento
cavalieri venissero a deporre ai suoi piedi le loro spade e trentasei
stendardi del comune. In tal occasione Guintellino, capo degl'ingegneri,
gli portò pure le chiavi della città. Allora l'imperatore, senza per
altro far conoscere le sue intenzioni, domandò che venissero al suo
quartiere tutti quelli che furono consoli, negli ultimi tre anni, e gli
si recassero tutti gli stendardi della città; umiliante cerimonia cui i
Milanesi si sottomisero il susseguente martedì.
I cittadini di tre quartieri della città andavano avanti al Carroccio
portando in mano supplichevoli croci, e quelli degli altri tre
chiudevano la processione. Quando il sacro carro fu a vista
dell'imperatore, i trombetti della signoria fecero per l'ultima volta
eccheggiar l'aria del loro clangore; l'albero su cui sventolava lo
stendardo s'abbassò come spontaneamente innanzi al trono, e non fu
rialzato senz'ordine di Federico. Il Carroccio con novantaquattro
stendardi furono in seguito dati ai Tedeschi. Allora uno de' consoli
milanesi si fece ad arringare l'imperatore, supplicandolo d'usare
misericordia alla sua patria. Tutto il popolo si gettò subito
ginocchione, domandando perdono in nome delle croci che portavano. Il
conte di Biandrate che militava sotto Federico, prendendo una croce di
mano a quelli contro cui aveva poc'anzi combattuto e che per lo innanzi
servì, si prostrò innanzi al trono domandando grazia per loro. Tutta la
corte, tutta l'armata piangeva a così compassionevole spettacolo; e
soltanto non iscorgevasi verun indizio di commozione sul volto
dell'imperatore. Diffidando della sensibilità della consorte, non aveale
permesso di assistere a questa ceremonia; perchè i Milanesi, non potendo
avvicinarsele, gettavano verso le sue finestre le croci che erano
portate e che dovevano parlare per loro. Federico poi ch'ebbe ricevuto
il giuramento di fedeltà da tutti quelli che accompagnavano il
Carroccio, e scelti quattrocento ostaggi, ordinò al popolo di tornare a
Milano, di demolire le sei porte della città ed i muri attigui e di
riempire la fossa, ond'egli potesse liberamente entrare colla sua
armata. Dietro loro mandò pure sei gentiluomini tedeschi e sei lombardi,
tra i quali lo storico Morena, per ricevere il giuramento di fedeltà da
coloro ch'erano rimasti in Milano, e rivocò la sentenza che aveva posti
i Milanesi al bando dell'impero.
Erano omai dieci giorni passati dopo la resa della città, ed il
vincitore in cambio di occuparla colle sue truppe conduceva l'armata da
Lodi a Pavia, ove rimaneva otto giorni, senza manifestare le sue
intenzioni. Finalmente il 16 di marzo ordinò ai consoli di Milano di far
sortire tutti gli abitanti dal circondario delle mura: misteriosi ordini
che i magistrati eseguirono tremando. Molti cittadini rifugiaronsi in
Pavia, in Lodi, in Bergamo, in Como e nelle altre città lombarde; ma la
maggior parte della popolazione aspettò l'imperatore fuori delle mura,
avendo tutti, uomini, donne e fanciulli abbandonato le proprie case, che
non sapevano se avrebbero più rivedute, e Milano rimase affatto deserto.
L'imperatore comparve alla testa delle sue truppe il giorno 25 di marzo,
e pubblicò finalmente la sentenza da lungo tempo sospesa: che Milano
doveva atterrarsi fino alle fondamenta, ed il nome dei Milanesi
cancellarsi dalla nota delle nazioni lombarde. All'istante i quartieri
della città furono consegnati ai più caldi nemici con ordine di
distruggerli; porta Orientale ai Lodigiani, la Romana ai Cremonesi, la
Ticinese ai Pavesi, la Vercellina ai Novaresi, la Comacina ai Comaschi,
e porta Nuova ai vassalli del Seprio e della Martesana. L'armata
imperiale si occupò con tanto ardore della distruzione di Milano, che
dopo sei giorni di travaglio non rimaneva in piedi la cinquantesima
parte delle case. L'imperatore ritornò a Pavia la domenica delle
palme[149][150].
[149] _Otto Mor. p. 1103, 1105. — Sire Raul p. 1187. — Otto de
Sancto Blasio c. 16, p. 875. — Trist. Calchi Hist. patr. l. X, p.
253. — Galv. Flamma Manip. Flor. c. 189, p. 642._ — Veggasi sopra
tutto, _Epist. Burchardi Notarii Imp. ad Nicol. Sigebergensem
abbatem t. VI, Rer. Ital. p. 915.-918_. Abbiamo in questa lettera un
assai circostanziato racconto della ruina di Milano e
dell'impressione che fece sui Tedeschi la vittoria dell'imperatore.
[150] Queste sono piuttosto crudeltà dei tempi che di Federico, cui
il nostro autore rende più sotto la debita giustizia, dicendo che se
incrudelì nel caldo della guerra, mostrossi poi umano coi nemici
sottomessi, non infierendo che contro le insensibili mura. Nè ai
Milanesi doveva riuscire inaspettato l'ordine di atterrare la loro
città, dopo ch'essi avevano usato lo stesso trattamento ai
Lodigiani. _N. d. T._


CAPITOLO X.
_Oppressione dell'Italia. — Lega lombarda. — Sua resistenza
all'Imperatore. — Fondazione di Alessandria._
1162 = 1168.

LA vittoria ottenuta da Federico contro la prima città d'Italia e la
punizione inflittale, si celebrarono dai partigiani dell'Impero come un
nobile e glorioso trionfo, come un luminoso atto di giustizia di un
grande monarca: i deputati delle Provincie, i vescovi, i conti, i
marchesi, i podestà, i consoli delle città s'affrettarono di recarsi a
Pavia per felicitare l'imperatore di così glorioso avvenimento; e quando
si presentò loro coll'imperatrice ornato dell'imperiale diadema, ch'egli
aveva giurato di non portare finchè non avesse soggiogati i Milanesi, fu
accolto coi più caldi applausi[151]. I Bresciani ed i Piacentini, che
vedevano nella perdita di Milano la total rovina della libertà,
cercarono, sottomettendosi alle più odiose condizioni, di calmare la
collera di Federico. Essi atterrarono le torri e le muraglie delle loro
città, ne colmarono le fosse, pagarono enormi tributi, e ricevettero il
podestà mandatogli dall'imperatore. Tutto piegava innanzi a lui, ed
universale era il terrore; sicchè poteva omai lusingarsi d'aver
assicurato il suo trono contro qualunque avvenimento. Ma il potere
fondato sul terrore non è stabile, finchè la nazione non sia
compiutamente avvilita: e quantunque in que' primi istanti estremo fosse
il terrore, il carattere lombardo non aveva ancora perduta tutta la sua
elasticità; e se piegò alcun tempo sotto l'oppressione, non fu che per
rialzarsi con maggior forza. I fuorusciti milanesi, passando d'una in
altra città, raccontavano agli uomini, com'essi una volta liberi, la
deplorabile ruina della loro patria, la caduta di quelle mura difese con
tanta bravura, l'incendio e la profanazione delle chiese, la rapina o la
dispersione delle reliquie e delle sacre immagini, e le vessazioni
d'ogni maniera che, dopo distrutta la loro città, facevansi soffrire
agli sventurati loro concittadini. Non saziavansi di andar replicando
come il vescovo di Liegi e Pietro de' Cunin, che successivamente li
governarono, non contenti di averli divisi in quattro borgate, che per
loro ordine avean dovuto fabbricare due miglia lontano dalla città,
pigliavansi le loro messi, s'appropriavano i poderi, accrescevano i
tributi, e gli sforzavano a trasportare essi medesimi i materiali della
distrutta città per innalzare castelli e palagi all'imperatore[152].
Generose lagrime cadevano loro dagli occhi quando descrivevano le
battaglie che sostennero, e que' gloriosi giorni ne' quali, in mezzo ai
pericoli e mancanti d'ogni cosa, pure credevansi ancora felici finchè
vedevansi armati per difesa della patria.
[151] _Otto Mor. p. 1105, 1107. — Trist. Calc. Hist. Patr. l. X, p.
256. — Joh. Bapt. Villan. Hist. Laud. Pomp. l. II, p. 875._
[152] _Sire Raul p. 1188. — Galv. Flam. Manip. Flor. c. 192. p. 644.
— Bern. Corio Stor. Milanesi p. I, p. 54._
Le grandi sventure sogliono soffocare le antiche nimistà: Pavia,
Cremona, Lodi, Bergamo, Como, avevano aperte le loro porte ai rifugiati.
Anche in mezzo alle guerre nazionali i legami dell'ospitalità riunivano
le famiglie delle vicine città, ed accoglievansi cordialmente a tavola
coloro contro i quali poc'anzi per onore della propria città avevano
combattuto. I racconti de' Milanesi s'imprimevano più profondamente
nell'animo degli uditori dopo che i partigiani dell'Impero
incominciarono ad esperimentare ancor essi i funesti effetti della loro
vittoria. Aveva bensì Federico permesso ai Cremonesi, ai Pavesi, ai
Lodigiani di eleggersi i loro consoli; ma aveva mandati podestà a
Ferrara, a Bologna, a Faenza, ad Imola, a Parma, a Como, a Novara, città
che pur non erano alleate ai Milanesi, o che anzi avevano mandate le
loro milizie in soccorso dell'imperatore: e quando in sul finire
dell'estate questi passò in Germania, lasciava in Italia Rainaldo
cancelliere dell'Impero, ed arcivescovo eletto di Colonia, in qualità di
suo luogotenente generale, il quale rese indistintamente più grave a
tutti i Lombardi il giogo loro imposto.
Ninna scrittura ci fa meglio conoscere il terrore da cui erano compresi
gl'Italiani, quanto gli Annali genovesi. Siccome lo storico Caffaro gli
andava dettando anno per anno, conservarono dopo tanti secoli
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 07