Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 03

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un nuovo sovrano dall'altrui suffragio. Vero è però che alcuni pochi
gentiluomini toscani, lombardi e genovesi avevano assistito alla dieta,
ma ciò fu per caso, e senza missione[54]. Essi non pretesero di
conferire coi loro suffragi le due corone italiche; ma i loro
concittadini, contenti, se non della dominazione allemanna, almeno del
modo con cui la loro patria veniva amministrata, e della libertà di cui
godevano sotto stranieri sovrani, invece di opporsi, applaudirono
all'elezione di Federico.
[54] _Gunt. Ligur. lib. I, p. 6._ — È anche dubbioso che vi fossero
Genovesi, perciocchè il nome di _Ligures_ viene dato da Guntero a
tutti i Lombardi.
Fu nella dieta convocata il mese d'ottobre in Wurtzburgo, che i deputati
mandati da Federico in Italia resero conto della loro missione,
ritornando accompagnati dai delegati di papa Eugenio III per affrettare
i soccorsi del nuovo monarca contro i Romani diretti sempre da Arnaldo
da Brescia. Roberto principe di Capua, quello stesso che con tanto
coraggio aveva sussidiati i Napoletani nella guerra che loro tolse la
libertà, si presentò alla stessa dieta, implorando insieme ad altri
baroni della Puglia esigliati anch'essi, dal re e dalla nazione tedesca
di restituir loro il perduto patrimonio e di metter fine alle
usurpazioni del re di Sicilia ugualmente nemico suo, come
dell'Impero[55].
[55] _Otto Frisin. Frid. I. lib. II, cap. 7, p. 703._
Federico, giovane valoroso ed avido di gloria, vedeva quanto la riunione
delle fazioni allemanne accresceva le sue forze, ed era impaziente di
usarne. L'Italia era la sola provincia in cui potesse far conoscere la
sua attività ed i suoi talenti militari, e dove avrebbe dovuto essere
incoronato imperatore e re; ma sapeva pure che in Italia non avrebbe
trovato nè ubbidienza, nè sudditi, nè tesori, nè armate; ed egli
risguardava l'indipendenza d'Italia come uno stato di rivolta, i
privilegi, come ingiuste usurpazioni. Promise perciò soccorso a Roberto
ed ai baroni pugliesi, e segnò un trattato d'alleanza col papa, nel
quale Eugenio prometteva la corona imperiale, e Federico di ristabilire
in Roma l'autorità papale. In sul finire della dieta intimò a tutti i
vassalli del regno germanico di disporsi ad accompagnarlo in Italia
entro due anni al più tardi; e tutti i signori che assistettero alle
deliberazioni della dieta, giurarono di seguirlo in tale impresa[56].
[56] _Otto Frising. I. II, cap. 7._
In marzo del 1153 tenendo Federico un'altra dieta a Costanza, due
Lodigiani portando delle croci in mano, attraversarono la folla de'
principi, e gittandosi ai piedi dell'imperatore, domandarono colle
lagrime la libertà della loro patria, che i Milanesi avevano ridotta
nella più dura servitù. Erano omai quarant'anni da che la repubblica di
Lodi era stata sottomessa ed incorporata al territorio milanese; e la
generazione che aveva potuto aver parte in un governo libero, ed
esercitare nelle pubbliche adunanze i diritti della popolare sovranità,
era forse tutta discesa nel sepolcro: ma la dolce ad un tempo e trista
memoria della perduta indipendenza è una eredità che i repubblicani
lasciano ai loro figliuoli coll'obbligo di trasmetterla d'una in altra
generazione, per farla rivivere qualunque volta ne avranno la forza. I
cittadini lodigiani, senz'esserne autorizzati dai loro compatriotti,
condotti dal caso a Costanza, trovarono nel proprio cuore le parole che
potevano destare la compassione di persone che non intendevano il loro
idioma. I loro singhiozzi e le lagrime della rimembranza d'una patria
che più non avevano, si fecero strada al cuore di Federico, il quale
fece subito dal suo cancelliere spedire un ordine ai Milanesi di
ristabilire i Lodigiani negli antichi privilegi, e di rinunciare alla
giurisdizione che si erano usurpata. Sicherio suo ufficiale di corte fu
incaricato di portare all'istante quest'ordine ai consoli del popolo di
Milano[57].
[57] _Otto Morena Hist. Land. t. VI. Rer. Ital. p. 957. — Galvan.
Flamma Manip. Flor. c. 173, t. XI, p. 634._
Da prima recossi Sicherio a Lodi, ove partecipò ai magistrati delle
borgate, tristi avanzi della distrutta città, la missione di cui era
incaricato. Erano i Lodigiani troppo persuasi che una semplice lettera
non farebbe loro rendere la perduta libertà, e tremarono in vista del
pericolo cui gli esponeva l'inconsiderata procedura de' loro
concittadini. La loro città era stata distrutta dal fuoco, ed essi
ridotti ad abitare in villaggi aperti da ogni banda. Sapevano che la
possente cittadinanza milanese poteva, provocata dalla risentita lettera
di Federico, distruggere in poche ore le loro case, ed i loro raccolti,
quando i soccorsi di Germania tarderebbero almeno un anno. Federico li
proteggeva come usano i grandi di fare: essi credono d'aver tutto fatto
pei loro clienti, quando si prendono la cura di vendicarli. Invano i
magistrati di Lodi rappresentarono a Sicherio i loro pericoli; che non
ottennero di sopprimere la lettera imperiale, o di differirne la
consegna fino all'epoca in cui Federico entrasse in Italia.
I consoli milanesi ricevettero Sicherio in presenza dell'assemblea del
popolo, che ascoltò la lettura del dispaccio. L'indignazione eccitata da
una lettera così imperiosa fu universale; fu strappata di mano
all'araldo, e posta sotto i piedi; mentre tutti giuravano ad alta voce
di difendersi, e caricavano d'imprecazioni il despota. Sicherio si
sottrasse a stento alla moltitudine furibonda[58].
[58] _Otto Morena Rerum Laudensium p. 965._
Intanto i Lodigiani trovavansi in preda a mortali terrori: essi
mandavano le mogli ed i figli coi più preziosi effetti a Cremona ed a
Pavia; e gli uomini restavano di giorno nelle proprie abitazioni, che
abbandonavano la notte, disperdendosi ne' borghi e nelle campagne, per
timore d'essere ad ogni istante sorpresi dall'armata milanese, che
volesse punirli d'aver osato desiderare la libertà. Ma il popolo
milanese, prevenuto dell'imminente arrivo dell'imperatore, non volle,
attaccando i Lodigiani, che aveva presi a proteggere, provocare
maggiormente il suo sdegno; che anzi unitamente agli altri Lombardi
mandarono a Federico i regali che le città avevano costume di spedire al
nuovo sovrano. I deputati di Pavia e di Cremona portarono in tale
occasione al trono imperiale le loro lagnanze contro la crescente
ambizione dei Milanesi i quali conobbero ben tosto l'aggravio loro fatto
dalle vicine città, ed alla nuova stagione tentarono di vendicarsene con
alcune scorrerie sui territorj di Pavia e di Cremona[59].
[59] _Otto Morena p. 971._
La Lombardia era ancora in armi nell'ottobre del 1154 in cui v'entrò
l'imperatore. Scendeva egli le Alpi per la vallata di Trento, e marciava
alla testa di tutti i suoi vassalli, e di un'armata maggiore assai di
quante ne avevano i suoi predecessori condotte in Italia. Fermossi alcun
tempo in riva al lago di Garda per aspettarvi i suoi feudatarj; poi
s'avanzò fino a Roncaglia in vicinanza di Piacenza; segnò il suo campo
sulla pianura in riva del Po, e, secondo l'antica costumanza, vi aperse
i comizj del regno d'Italia[60].
[60] _Otto Fris. lib. II, cap. 12. 15, p. 706. — Otto Morena p. 969.
— Sire Raul, seu Radulphus Mediol. De gestis Frid. I. p. 1175, t.
VI. — Ligurinus l. II, p. 24._
Il primo atto de' comizj fu quello di privare de' loro feudi coloro che
non erano intervenuti; poi l'imperatore si dichiarò disposto a giudicare
le cause de' suoi sudditi italiani, ed a soddisfare alle loro lagnanze.
Il primo che domandasse giustizia fu Guglielmo, marchese di Monferrato,
il quale accusò la città d'Asti ed il borgo di Chieri. Questi due popoli
eransi costituiti in governi liberi, e non avendo potuto ridurre il
marchese a porsi sotto la loro protezione, facevano la guerra ai suoi
vassalli. Il vescovo d'Asti s'unì al marchese contro la sua greggia.
Tutte le nascenti repubbliche eccitavano la diffidenza o la collera di
Federico, onde prometteva al prelato ed al marchese di castigare
esemplarmente i popoli che gli avevano offesi.
Presentaronsi in appresso i consoli lodigiani e comaschi, rinnovando le
lagnanze che i Lodigiani avevano già fatte a Costanza contro i Milanesi.
I consoli di Milano trovavansi presenti e preparati a rispondere, onde
si discussero le rispettive ragioni innanzi all'imperatore, e tutte le
città manifestarono le loro inclinazioni. Si conobbero amici dei
Milanesi i Cremaschi, i Bresciani, i Piacentini, gli Astigiani, i
Tortonesi; dei Pavesi soltanto le città di Cremona e di Novara, poichè
quelle di Como e di Lodi erano soggette a Milano. Il partito pavese era
dunque evidentemente il più debole: per cui Federico chiamato a favorire
una delle due leghe, si dichiarò per quella che in appresso potrebbe
sempre facilmente opprimere; mentre quando avesse appoggiati i Milanesi,
questi non avrebbero in breve più avuto bisogno del suo favore[61].
[61] _Sire Raul p. 1175._
Ordinava intanto alle due parti di deporre le armi, e faceva che i
Milanesi lasciassero liberi i prigionieri pavesi: in appresso avendo
manifestata la sua intenzione di avvicinarsi a Novara prima di nulla
decidere intorno alle lagnanze di Como e di Lodi, chiese ai consoli di
Milano di condurlo essi medesimi a traverso al loro territorio.
La strada che naturalmente doveva tenere l'armata, fu quella che i
consoli di Milano avevano indicata, la quale attraversava, in linea
quasi retta per lo spazio di circa cinquanta miglia, Landriano, Rosate e
Trecate, ov'era il ponte sul Ticino. Ma su questa medesima linea appunto
eransi pochi mesi prima battuti in più riprese i Milanesi ed i Pavesi;
di modo che la campagna era stata rovinata: e perchè i Tedeschi
prendevano, senza pagare, non solo gli oggetti di cui abbisognavano, ma
gli animali ed i mobili, i paesani fuggivano innanzi a loro, e
lasciavano deserti i paesi per cui l'armata doveva passare. La prima
notte l'esercito di Federico s'accampò innanzi a Landriano, ove trovò
appena di che nutrirsi. Arrivò il susseguente giorno a Rosate, e perchè
le dirotte piogge ne rendevano difficile la marcia, fece alto
quarantott'ore presso a quel castello. I Milanesi non avevano calcolato
tale ritardo, e le provvisioni colà preparate essendosi consumate il
primo giorno, l'armata trovossi senza viveri. Lo stesso Ottone di
Frisinga osserva che il principe ed i soldati, travagliati dalle non
interrotte piogge, erano insofferenti e di cattivo umore, ed incolpavano
perciò i Milanesi dell'avversa stagione[62]. La sera del secondo giorno
Federico ordinò ai loro consoli d'allontanarsi dal campo e di sottrarsi
alla reale indignazione; soggiungendo di far subito evacuare il castello
di Rosate, ove trovavansi cinquecento soldati, onde la sua truppa
potesse valersi dei viveri della guarnigione. I consoli ubbidirono: nè
la guarnigione solamente, ma ancora tutti gli abitanti uscirono dal
castello conducendo di notte già innoltrata, e sotto una pioggia
freddissima e continuata, le loro mogli e figli; lo che rendeva
quest'esecuzione militare più odiosa e crudele. Presero la strada di
Milano da cui erano lontani dodici miglia, lasciando, com'era loro stato
ordinato, tutti gli effetti nel castello. V'entrò in sul far del giorno
l'armata tedesca, e, dopo averlo saccheggiato, lo spianò da cima in
fondo[63].
[62] _De rebus gestis Frid. I. l. II, cap. 14, p. 710._
[63] _Otto Morena p. 973._
Quando i fuorusciti di Rosate giunsero a Milano, volendo pure dar colpa
della loro sventura a qualcuno esposto alla loro vendetta, ripetevano le
lagnanze de' Tedeschi, rimproverando ai consoli milanesi d'aver dato
motivo della collera di Federico e della sua armata. Que' magistrati
avevano torto in faccia a quegli abitanti dell'aver condotta l'armata
presso al loro castello. Il popolo milanese era incapace di resistere
all'affascinamento d'un grande spettacolo; le lagrime delle donne di
Rosate, la miseria de' fanciulli che portavano in collo lordi di fango
ed assiderati da una pioggia gelata, lo scoraggiamento dei capi di casa
che avevano tutto perduto, facevano sui Milanesi un'impressione assai
più profonda che non la ferma e misurata eloquenza dei consoli, Oberto
dall'Orto, e di Gherardo Negro, che rendevano ragione della propria
condotta. La plebe tumultuante si portò contro la casa dell'ultimo, e la
demolì interamente. Pure questo magistrato dimenticò l'ingratitudine del
popolo, e non lasciò di servire con zelo e fedeltà la patria[64].
[64] _Otto Fris. de gest. Frid. I, l. II, cap. 13, e 15._
Altri deputati furono mandati a Federico, i quali rappresentarongli il
castigo inflitto al console, siccome una luminosa soddisfazione che il
popolo di Milano aveva voluto dargli: tentarono pure di calmarlo
offerendogli una ragguardevole ammenda, a condizione per altro di
lasciare la loro repubblica nel tranquillo possesso di Como e di Lodi.
Ma il leone che aveva assaporato il sangue, rifiutava tutt'altro
nutrimento. Federico si crucciò fieramente dell'offerta di un tributo,
quasi si fosse cercato di corromperlo col danaro[65]; e menando i suoi
soldati nelle più fertili campagne del Milanese, le lasciò a discrezione
loro. S'avanzò poscia verso i due ponti fortificati che i Milanesi
avevano costrutti sul Ticino per passare quando il volessero nel
territorio novarese, e dopo averli attraversati egli e l'armata, li fece
abbruciare. Milano possedeva pure sull'opposta riva due castelli
risguardati come chiavi del Novarese, Trecate e Galliate, ne' quali
teneva sempre guarnigione. Federico li prese d'assalto, e dopo averli
saccheggiati li fece spianare[66].
[65] _Ibid. Cap. 14._
[66] _Epist. Frid. ad Ottonem Frisin. ap. Scrip. Rer. Ital. t. VI,
p. 635._
I Milanesi osservavano attoniti le rovine fatte da questa barbara
armata, che a guisa di turbine aveva attraversato il loro territorio.
Essa ne era finalmente uscita, ma non potevano prevedersi i suoi
ulteriori movimenti; e dopo varj inutili tentativi, si era abbandonato
il progetto di calmare coi doni la cieca sua collera. Rinvenuti da
quella prima sorpresa, i magistrati pensarono a porsi in sicuro contro
nuovi attacchi. Introdussero in città abbondanti provvigioni, ne
rinforzarono con estrema cura le fortificazioni, e misero i castelli del
territorio nel migliore stato di difesa. Mandarono in pari tempo
ambasciatori alle città alleate per rinnovare gli antichi patti,
domandare ed offerire reciproco soccorso in caso d'attacco[67].
[67] _Tristani Calchi Hist. Patriæ, l. VIII, p. 222._
Nel 1154 Federico celebrò il Natale nelle vicinanze di Novara, ed al
principio del susseguente anno 1155 attraversò i territori di Vercelli e
di Torino[68]. Benchè queste due città si governassero a comune, ebbero
la sorte di trovar quel monarca loro propenso, per cui nella guerra,
ch'egli fece in seguito ai Lombardi, l'ultima fu sempre a lui attaccata.
Dopo avere passato il Po, riprese, attraversando la pianura posta a
diritta, la strada di Pavia. Guglielmo di Monferrato che seguiva
l'armata imperiale, gli rammentò le ingiurie fattegli dagli abitanti di
Chieri e d'Asti, chiedendogli il castigo di que' popoli così superbi e
gelosi della loro indipendenza. Questi spaventati dall'avvicinamento di
tanto formidabile armata, e non si fidando abbastanza delle loro torri e
delle loro mura, eransi salvati colla fuga. L'imperatore trovò affatto
deserto ed abbandonato Chieri, e la città di Asti[69]; le quali dopo il
saccheggio de' soldati furono incendiate.
[68] _Otto Fris. de Gest. Frid. I. l. II, cap. 15._
[69] Tutti gli storici contemporanei chiamano questa borgata Cairo,
ed il Muratori suppone che si parli d'un castello di tal nome posto
alle falde delle Alpi liguri quaranta miglia lontano da Asti. Ma
ponendo mente alla strada tenuta da Federico, non può essere che
Chieri. Questa borgata, ch'egli attraversò passando da Torino ad
Asti, ebbe governo repubblicano fino alla fine del tredicesimo
secolo.
S'avvicinò quindi a Tortona, città alleata di Milano, che l'aveva
soccorsa nella guerra contro Pavia. Gli fece il re intimare che
rinunciasse all'alleanza de' Milanesi, e si unisse ai Pavesi: e perchè
il Governo di Tortona rispose non essere sua costumanza di abbandonare
gli amici quand'erano nella sventura, fu la città posta al bando
dell'Impero con solenne decreto; ed il giorno 13 febbrajo il re ne
intraprese l'assedio[70].
[70] _Otto Fris. l. II, c. 17. p. 712. — Trist. Calchi l. VIII, p.
222._
È posta Tortona sopra un monticello che domina le pianure alla destra
del Po, a non molta distanza dalle falde delle Alpi liguri. Terre basse
e profonde la circondano da ogni banda, dividendola pure da Novi che
trovasi ove comincia la catena delle Alpi. La collina di Tortona non si
riunisce a questa catena che per mezzo di alcune alture che prolungansi
a levante. Su questa dirupata collina è fabbricata la fortezza, e più
abbasso un sobborgo, che, quantunque circondato di mura, non è capace di
lunga resistenza; onde il re non tardò ad impadronirsi del sobborgo, o
della bassa città, che gli abitanti avevano abbandonato, ritirandosi con
tutti i loro effetti nella città superiore.
Quando i Milanesi conobbero il pericolo dei loro amici, spedirono loro
all'istante duecento de' loro più valorosi soldati, e persuasero molti
gentiluomini delle montagne liguri, i quali eransi posti sotto la
protezione della repubblica milanese, e tra questi Obizzo Malaspina, a
ridursi nella città assediata[71].
[71] Tristano Calco ci diede i nomi de' capi di questi valorosi.
Aveva Federico fissato il suo quartiere all'occidente della città verso
il Tanaro; il duca Enrico di Sassonia occupava a mezzogiorno il
sobborgo, e le milizie pavesi eransi accampate dalla banda della loro
città. Gli assedianti aprirono tra questi diversi quartieri una fossa
che toglieva ogni comunicazione fra Tortona e la campagna. Si
fabbricarono macchine d'ogni sorta, altre per nettare i merli gettando
pietre contro i soldati, altre per rompere le mura. E tali erano i
progressi ch'eransi fatti dagl'ingegneri in quest'arte, che raccontasi
avere un gran macigno, gettato da una balista avanti al portico della
cattedrale, ucciso, spezzandosi, tre de' principali cittadini che
stavano colà deliberando intorno al modo di difendere la città. Per
ordine di Federico erano state innalzate alcune forche in faccia alle
mura, per appendervi coloro che si facessero prigionieri, siccome
colpevoli di ribellione.
Intanto i Tortonesi venivano resi forti, per così dire, dalla
disperazione, ed insultavano gli assedianti con frequenti sortite, e
specialmente il campo de' Pavesi, perchè tra i posti avanzati di questi
ed i loro era situata la sola fonte cui gli assediati potessero attinger
acqua; ma il re rinforzò questo quartiere mandandovi colle sue truppe il
marchese di Monferrato. Cercò pure di abbattere la torre, chiamata
_Rubea_, la sola che non fosse fondata sulla rupe; ma i minatori reali
furono scontrati dagli assediati che scavavano delle contromine, e li
fecero perire soffocati nelle loro gallerie[72].
[72] _Otto Fris. de gestis Frid. I. l. II, c. 17._
Non potendo i Pavesi allontanare affatto dalla fonte affidata alla loro
custodia gli assediati, vi gettarono cadaveri d'uomini, e d'animali per
corrompere le acque; ma la sete vincendo ogni ribrezzo, non lasciavano
per questo di beverne con avidità. Giunsero in fine a renderla affatto
inservibile gittandovi solfo infiammato e pece. Tale assedio si
protrasse fino alle feste di Pasqua; per celebrare le quali Federico
accordò alla sua armata una tregua di quattro giorni; tregua di cui
pochissimo approfittarono gli assediati travagliati dalla fame e dalla
sete.
Il clero di Tortona sortì processionalmente per chiedere al re la grazia
di non accomunarlo al gastigo di una città colpevole ch'egli abbandonava
alla sua collera; ma Federico non ascoltò le vili preghiere d'una
corporazione che abbandonava i suoi fratelli in tanta calamità, ed
avendo costretto quegli ecclesiastici a rientrare in città, fece
ricominciare l'attacco[73].
[73] _Ibid. cap. 19._
Intanto la sete rendevasi ai Tortonesi insopportabile, i quali avendo
esauriti tutti i soccorsi della pazienza e del coraggio, dopo
sessantadue giorni di trincea aperta, non potendo ottenere migliori
condizioni, si arresero a patto di sortire dalla città portando sulle
spalle gli effetti di cui potrebbero caricarsi una sola volta, lasciando
tutto il restante all'armata vittoriosa. Così sortirono in fatto da
Tortona, ma dimagrati e sfiniti in modo, che più gloriosa rendevasi la
lunga resistenza. Presero la strada di Milano, e mentre si scostavano
dalla loro patria, vedevano innalzarsi le fiamme che la
distruggevano[74].
[74] _Otto Morena, p. 981. — Otto Fris. l. II, c. 20 e 21, p. 718. —
Abbas Usp. in Chron., p. 283. — Godafr. Viterbiensis in Pantheo.
pars XVIII, t. VII, p. 464. — Sicardi Ep. Crem. Chron., p. 599, tom.
VII Rer. Ital._
Qual che si fosse l'infelice fine dell'assedio di Tortona, i
repubblicani lombardi prendevano buon augurio dal vedere che una sola,
ed una delle meno popolose e potenti loro città, avesse fermata due mesi
la marcia della più formidabile armata che il re tedesco potesse
condurre contro di loro, e gli fosse costata più sangue e sudore che ad
Ottone la conquista di tutta l'Italia. Un grandissimo esempio di
costanza e di coraggio era stato dato per la libertà; i Tortonesi ne
erano i martiri, e furono posti sotto la protezione delle repubbliche
per la di cui causa avevano tanto sofferto. Furono ripartiti tra le
famiglie milanesi con cui avevano formati legami di ospitalità, ed i
consoli promisero di rialzare le mura di Tortona tosto che partirebbe
l'armata tedesca.
Mentre questi valorosi fuorusciti colle loro mogli e figli, portando i
miseri avanzi di loro fortune, entravano in Milano tra le acclamazioni
del popolo ammiratore della loro virtù, Federico entrava trionfalmente
in Pavia, ove facevasi coronare nella chiesa di S. Michele presso
all'antico palazzo dei re lombardi[75].
[75] _Otto Fris. l. II c. 21. p. 718._
Impaziente di associare a quello di re il titolo d'imperatore
s'incamminava ben tosto alla volta di Roma, passando in vicinanza di
Piacenza e di Bologna, ed attraversando la Toscana senza provocare, nè
provare ostacoli.
Papa Eugenio III era morto del 1153; Anastasio IV suo successore non
aveva regnato più di un anno; e quando Federico s'avvicinava a Roma era
salito sulla cattedra di S. Pietro Adriano IV. In questa città viveva da
più anni in pace Arnaldo da Brescia, protetto dal senato, ed applaudito
dal popolo, cui denunciava le ambiziose usurpazioni del clero. In
principio dell'anno, Adriano IV aveva fulminato l'interdetto contro di
Roma[76], che fino al presente non soggiacque mai a così fatto castigo
spirituale; e siccome il popolo incominciava a lagnarsi d'essere,
all'avvicinarsi della Pasqua, privo delle sacre cose, il senato,
consigliandosi colla prudenza, non volle compromettere la pubblica
tranquillità, ponendola in urto colle usanze religiose, e persuase
Arnaldo ad allontanarsi da Roma, condizione richiesta dal papa per
riconciliarsi colla città. Arnaldo si rifugiò presso un gentiluomo della
Campania, aspettando le determinazioni che prenderebbe Federico.
[76] _Bar. Ann. Ecc. ad ann. 1155, §. 2, 3, e 4. Card. Aragonius in
Vit. Ad. IV. p. 442. Sc. Rer. Ital T. III. P. 1._
I due partiti forzavansi ugualmente di guadagnarsi il favore del
monarca. Aveva Adriano mandati a riceverlo a S. Quirico tre cardinali, i
quali ottenevano in compenso della promessa della corona imperiale, che
Federico lo ajuterebbe a soggiogare i Romani. Il re per dargli una
caparra della sua protezione fece arrestare il conte Campano che aveva
dato asilo ad Arnaldo, e non lo rilasciò finchè non ebbe consegnato
quell'eloquente nemico de' papi al Prefetto di Roma, magistrato eletto
da Adriano, ed a lui devoto. Il popolo atterrito ugualmente dai fulmini
della Chiesa e dalle minacce dell'esercito Allemanno, non si mosse a
favore dell'apostolo della libertà, dichiarato eretico da un concilio;
ed avanti che i Romani avessero tempo di rinvenire da questa prima
sorpresa, la vendetta papale era compiuta. Il Prefetto teneva il
prigioniero nella sua abitazione in castel s. Angelo; di dove in sul far
del giorno lo fece tradurre alla piazza del Popolo, destinata alle
esecuzioni de' delinquenti. Dal rogo, su cui si fece salire per
abbruciarlo, Arnaldo potè vedere a perdita di vista le tre lunghissime
strade che facevan capo innanzi al patibolo, e che formano quasi la metà
di Roma. Colà, ignorando l'estremo pericolo del loro legislatore,
giacevano ancora immersi nel sonno quegli uomini, che tante volte aveva
chiamati alla libertà. Il fracasso dell'esecuzione, e le fiamme del rogo
risvegliarono i Romani, che si armarono ed accorsero, ma troppo tardi,
per salvarlo. Le coorti del papa rispinsero colle loro lance coloro che
desideravano di raccogliere come preziose reliquie le ceneri
d'Arnaldo[77].
[77] _Vita ad Pap. — Otto Fris. l. II, c. 21, p. 721._
Dopo tale esecuzione, Adriano accompagnato da' suoi cardinali s'avanzò
fino a Viterbo all'incontro di Federico. Qualunque fosse il bisogno
ch'egli aveva di lui, voleva, in sull'esempio de' suoi predecessori,
ridurre l'imperatore ad umiliarsi innanzi al capo della Chiesa prima
d'essere da lui esaltato. Federico, vedendolo avvicinarsi, non si mosse
per tenergli la staffa ed ajutarlo a discendere dal mulo: tanto bastò
perchè il papa si rifiutasse di dargli e di ricevere il bacio di pace
finchè l'orgoglioso monarca, alle persuasioni de' suoi cortigiani che
avevano veduto Lotario nella medesima circostanza, si piegò a così
umiliante ceremoniale. Si ebbe le destrezza d'assicurarlo che tale
condiscendenza non comprometteva in verun modo la sua dignità, giacche
non al papa, ma all'apostolo da questi rappresentato, riferivasi tale
omaggio[78].
[78] _Mur. Ant. It. Dis. IV. vol. I, p. 117._
Venti miglia più lontano tra Nepi e Sutri presentaronsi a Federico i
deputati del senato romano. Ottone di Frisinga ci conservò per intero il
discorso che diressero all'imperatore[79]. Rammentarono l'antica gloria
di Roma, che era debito dell'imperatore di ripristinare; parlarono del
dominio che la loro città ebbe lungo tempo di tutto il mondo; dominio
cui poteva ancora aspirare dopo avere scosso l'ingiusto giogo de' preti;
richiedevano da Federico che, prima d'entrare nella loro città, giurasse
di rispettare le costumanze e le antiche leggi di Roma riconfermate coi
loro diplomi da tutti gl'imperatori; finalmente di assicurare i
cittadini dalla licenza dei Barbari, e di pagare cinque mila libbre
d'argento agli ufficiali che, in nome del popolo romano, dovevano
coronarlo in Campidoglio.
[79] _Otto Fris. l. II, cap. 22._
Quantunque l'orgoglio di Federico fosse rimasto ferito dall'altero
carattere d'Adriano, aveva sagrificato alla dignità della religione, ed
all'età del pontefice l'amor proprio, ma nulla aveva potuto prevenirlo
per l'alterezza del senato romano. Que' sentimenti repubblicani che
combattuti aveva in Lombardia, non gl'ispiravano punto di stima e di
rispetto; onde rispose in tal modo da despota: non essere egli fatto per
ricevere condizioni, ma per darle al popolo: che quando fa il bene de'
suoi sudditi, non segue che gl'impulsi del proprio cuore senz'esservi
obbligato da veruna legge o giuramento. Dopo ciò rimbrottando ai
deputati romani la degenerazione loro dagli antenati, e la debolezza
attuale in confronto dell'antico valore, li rimandò con disprezzo.
Mentre i deputati si ritiravano, li fece inseguire da un corpo di mille
cavalieri che occuparono la città Leonina. È questa una parte di Roma
posta sul monte Vaticano al di là del Tevere intorno alla basilica di s.
Pietro. Era stata fortificata dell'848 da Papa Leone IV, dopo che i
Saraceni avevano spogliata quella basilica, e perciò portava il suo
nome[80]. La città Leonina non comunica colla città principale che per
mezzo di un ponte fabbricato a lato di Castel sant'Angelo[81], il quale
fu preso dai Tedeschi, e barricato. Dopo tali precauzioni Federico ed
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