Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 05

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dalle pietre che si gittavano dall'alto, ruppero la volta dell'edificio
e forzarono gli assediati ad arrendersi[111]. Federico fece porre sulla
sommità di questa torre una petriera che, signoreggiando le mura della
città, faceva grandissimo danno agli assediati.
[110] Eranvi altravolta in tutte le piazze di Roma, e probabilmente
in tutte le colonie romane, di tali portici chiamati _archi di
Giano_, destinati a difendere i mercanti dal sole e dalla pioggia.
L'arco di Giano quadriforme nel Velabro di Roma è il solo che siasi
conservato fino ai nostri giorni. La torre posta sull'uno e
sull'altro erano opere posteriori de' tempi barbari.
[111] _Rad. Fris. l. I, c. 38. — Otto Morena, p. 1013._
D'altra parte i Milanesi, in alcune scaramucce di non molta importanza,
sorpresero i Tedeschi, e tolsero loro sì grande quantità di cavalli che
vendevasi cadauno per quattro soldi di terzuoli[112]; ma non ebbero
ulteriori vantaggi. Fino dal cominciare della guerra provarono la
fortuna contraria, e tutto loro riusciva male: nè solamente erano stati
abbandonati dai loro alleati, ma li vedevano servire nel campo nemico. I
Cremonesi ed i Pavesi abusavano del favore imperiale per rovinare le
campagne, estirpando e bruciando i vigneti, i fichi, gli ulivi[113];
atterravano le case, scannavano i prigionieri; e per dirlo in una
parola, facevano la guerra con quella feroce barbarie cui s'abbandonano
spesso i deboli esacerbati da lunga oppressione, ed inebriati dalla
presente prosperità[114]. I Milanesi miravano dall'alto delle mura la
rovina delle loro campagne, e soffrivano nell'interno la fame e la
mortalità; e molti del popolo che risguardavano siccome un sacro dovere
l'ubbidienza all'imperatore, attribuivano alla vendetta del cielo
queste, per essi, nuove calamità. Altri, e specialmente la gioventù,
mostravano maggior costanza; e nelle loro assemblee obbligavansi gli uni
verso gli altri a sacrificare la vita per la salvezza della patria, e
per l'onore della città.
[112] Tre franchi. Le monete de' tempi d'Ottone erano state alterate
assai: Federico le ristabilì. Il suo danaro d'argento pesava un
danaro ed un grano; ma lasciò ugualmente in corso il danaro di
terzuolo pesante 18 grani con un terzo di fino e due di rame. Venti
di questi grani formavano il soldo in discorso. Devo al conte Luigi
Castiglione di Milano, ed alla sua ricca collezione di monete
milanesi, tutte le mie teorie intorno alla storia monetaria di
Lombardia, che gli antiquarj hanno lasciata nella più profonda
oscurità.
[113] Forse alcuno l'avrà scritto, ma non so che nemmeno a que'
tempi potessero provare gli ulivi presso Milano. _N. d. T._
[114] _Radev. Frising. L. II, c. 39._
Mentre i cittadini divisi di sentimento rimanevano indecisi sul partito
da prendersi, il conte di Biandrate, il principale e più potente
gentiluomo di Milano, aveva saputo acquistarsi la confidenza dei due
opposti partiti, e, senza perdere il favore popolare, conservare il suo
credito alla corte. Poi ch'ebbe scandagliato l'animo dell'imperatore,
chiese ed ottenne dai consoli di adunare il popolo nella piazza
pubblica. Allora rammentando ai suoi concittadini quanto aveva fatto
egli medesimo per difesa della patria, ed il suo conosciuto attaccamento
alla causa della libertà, il più grande dei beni, il solo per cui
s'acquisti gloria combattendo, gli scongiurò a non prolungare una
resistenza che omai non lasciava veruna speranza di felice fine, di
cedere, non alle armi, ma alla fame, alla peste, più assai terribili
nemici di Federico; di cedere a coloro cui i loro antenati non avevano
sdegnato di sottomettersi, avendo malgrado il valore e la virtù loro
ubbidito ai re transalpini, a Carlo Magno, al grande Ottone; di cedere
perchè instabile è la fortuna, onde conservando illesa la loro patria
potevano pure sperare di vederla un giorno ricuperare l'antico suo
splendore[115].
[115] _Rad. Fris. t. I, c. 40 — Ligur. l. VIII, p. 114._
Ai Lombardi mancava quella ferma confidenza nel destino della loro
repubblica, che avevano gli antichi Romani; quella impossibilità di
concepire altra esistenza fuori dell'indipendenza e della libertà;
quella forza d'animo che si ostina contro le sventure per un sentimento
superiore al freddo calcolo dei vantaggi e dei pericoli. La repubblica
era ancora giovane, e la ricordanza della passata dipendenza indeboliva
l'energia de' cittadini; le loro istituzioni non erano proprie a
sostenere e formare le virtù pubbliche; e non andavano debitori del
valor loro, qual che si fosse, che alla natura ed alla libertà, non
all'avvedutezza dei legislatori. Essi cedettero alle persuasioni del
conte, e spedirono deputati a Federico, il quale accordò loro tali
vantaggiose condizioni cui ben potevano sottoporvisi senza vergogna:
obbligavansi i Milanesi di rendere la libertà a Como ed a Lodi, a
giurare fedeltà all'imperatore, a fabbricargli un palazzo a spese del
Comune, a pagargli in tre termini entro un anno nove mila marche
d'argento, per guarentire la quale somma dovevano dare alcuni ostaggi;
finalmente a rinunciare ai diritti reali ch'essi possedevano.
L'imperatore dal suo canto prometteva che, tre giorni dopo aver ricevuti
gli ostaggi, allontanerebbe l'armata dalle mura di Milano, senza
permettergliene l'ingresso. Venivan compresi nel trattato gli alleati di
Milano, i Tortonesi, i Cremaschi, e gl'Isolani del Lago di Como,
sanzionando colla sua autorità la continuazione della loro alleanza, e
permettendo ai Milanesi l'elezione dei Consoli nella pubblica assemblea
del popolo, a condizione che gli eletti gli giurassero fedeltà, e che
altri deputati si presenterebbero a lui nelle seguenti calende di
febbrajo a rinnovare il giuramento de' Consoli. Per ultimo offerse la
sua mediazione per trattar la pace tra Milano ed i suoi alleati da un
lato, e dall'altra parte le città di Cremona, Pavia, Novara, Como, Lodi
e Vercelli, con patto che fossero dalle due parti rilasciati i
prigionieri: sul quale ultimo articolo acconsentì che nel caso che non
potessero aver felice esito le trattative di pace, gl'Italiani potessero
ritenere i rispettivi prigionieri, senza ch'egli avesse diritto di
lagnarsene[116].
[116] Questo trattato viene fedelmente riportato da Radevico
Frisingense. _L. II, c. 41._
Ben lungi che la costituzione repubblicana di Milano e delle altre città
dipendenti dall'alta signoria dell'Impero fosse riconosciuta dalle
leggi, queste città non aspiravano nemmeno apertamente all'indipendenza,
ritenendo che il giuramento di fedeltà all'imperatore era una formalità
di obbligo, e che per antico costume dovevasi pagare al medesimo una
somma di danaro qualunque volta veniva in Italia; onde la tassa di nove
mila marche imposta in quest'occasione ai Milanesi non doveva sembrar
loro esorbitante. La liberazione di Lodi e di Como era il solo articolo
oneroso di questo trattato, sembrando gli altri convenuti tra uguali
potentati[117]; di modo che il trattato smentisce in parte il racconto
degli storici imperiali, i quali mostrano Federico in quest'impresa
sempre accompagnato dalla vittoria. Se i successi non fossero stati
compensati dalle perdite non è supponibile che i Milanesi avessero
potuto ottenere così vantaggiose condizioni. Ma in tutto questo periodo
non possono consultarsi che scrittori parziali di Federico[118].
[117] Il preambolo di questo trattato non ricorda nè l'umiliazione
dei Milanesi d'implorare perdono, nè la clemenza dell'imperatore di
accordarla. Niente ritrovasi nella sua forma che sia più duro delle
condizioni. Comincia con semplicità in tal modo. «In nomine Domini
nostri Jesu Christi, haec est conventio per quam Mediolanenses in
gratiam imperatoris redituri sunt et permansuri.»
[118] Le nostre guide in questa parte di Storia fino alla conquista
di Milano sono tre scrittori contemporanei. Radevico Canonico di
Frisinga di cui ho già parlato, è il primo. Allievo di Ottone di
Frisinga di cui ne continuò la storia, adotta i suoi pregiudizj di
famiglia, ed è come il maestro, appassionato ammiratore di Federico
cui dedicò la sua Storia, cercando ad ogni modo di dar risalto alla
sua gloria, a spese de' suoi nemici. Pure non era insensibile
all'entusiasmo della libertà, e siccome d'ordinario riporta
estesamente gli atti originali, la verità traspira dalla sua
narrazione ancora quando non è favorevole al suo Eroe. Il secondo è
Ottone Morena: magistrato lodigiano, ed impiegato da Federico
nell'ufficio di giudice, scrisse una storia de' suoi tempi,
intitolata _Historia rerum laudensium_ assai voluminosa, ed
abbondante di curiose particolarità, ma marcata dell'impronta di
quella servilità che io rimprovero ai legisti italiani, e piena
d'invettive contro Milano. Abbiamo finalmente uno storico milanese
Sire Raul, o Rodolfo milanese, la di cui storia di Federico I sempre
abbreviatissima, e probabilmente interpolata in più luoghi,
c'istruisce assai più delle passioni de' Lombardi, che de' fatti.
Qualunque ella siasi, ci è pertanto preziosa, perchè Rodolfo è il
solo scrittore repubblicano di questo mezzo secolo, di cui siasi
conservata l'opera, col di cui sussidio si possano rettificare gli
esagerati racconti degli scrittori del contrario partito. Lessi
pure, ma con pochissimo profitto, due scrittori tedeschi
contemporanei _Otto de Sancto Biasio_, ed _Abbas Uspergensis
Chronicon_.
Tale convenzione fu sottoscritta il giorno 7 di settembre, e non molto
dopo l'imperatore si trasferì a Roncaglia per presiedere la dieta del
regno d'Italia, alla quale intervennero ventitrè tra arcivescovi e
vescovi delle principali diocesi, molti principi, duchi, marchesi, e
conti, i consoli ed i giudici di tutte le città. L'imperatore aveva con
lui quattro legisti bolognesi, discepoli di Guarnieri, che in sul
cominciar del secolo aveva introdotto nello studio di Bologna la scuola
di giurisprudenza.
In niuna precedente dieta italiana eransi, come nella presente, vilipesi
i diritti del popolo. L'arcivescovo di Milano in un discorso di
consuetudine, rispondendo a quello pronunciato da Federico, diede il
primo esempio di vile adulazione. I vescovi che due secoli prima,
dominando le città, erano così caldi per l'indipendenza, furono i
principali nemici della libertà dei popoli, dopo che le città ebbero
scosso il giogo vescovile. «Spetta a voi (diceva il prelato milanese a
Federico) spetta a voi a statuire intorno alle leggi, alla giustizia, ed
all'onore dell'Impero; sappiate che vi fu accordato pieno diritto sui
popoli per istabilire novelle leggi, e che la vostra volontà sola è la
regola della giustizia: una lettera, una sentenza, un editto da voi
emanati, diventano all'istante leggi del popolo. E per verità, non è
forse doveroso, che il lavoro abbia la sua ricompensa? che colui che ha
l'incarico di proteggerci, goda invece le dolcezze del comando[119]?»
[119] _Rad. Fris. lib. II, c. 4. p. 786. — Gunther. Ligurinus, l.
XVIII, p. 124._
Tale press'a poco era il linguaggio de' legisti, approvando tutto quanto
di basso e di vile si contiene nella giurisprudenza de' romani
imperatori; accostumati a risguardare i libri di Giustiniano come la
ragione scritta, e non altro conoscendo delle cose romane, che i suoi
padroni, univano le massime del dispotismo all'amore che professavano
alla loro scienza, da cui riconoscevano la propria riputazione e la loro
gloria. I legisti infatti fino alla fine delle repubbliche italiane
ebbero sempre opinioni poco liberali.
Federico fece rivendicare dai suoi giureconsulti in faccia alla dieta i
reali diritti di cui erasi a poco a poco spogliata la sua corona. Le
prerogative imperiali riclamate da un principe vittorioso, alla testa di
una potente armata, furono spiegate e difese con tutte le sottigliezze
scolastiche e legali. I proprietari dei diritti signorili scoraggiati
dalle nuove opinioni del clero, e trovandosi ugualmente incapaci di far
fronte agli argomenti de' dottori bolognesi ed alle armi tedesche,
s'appigliarono al partito di rassegnare tutti i loro privilegi al
monarca. La dieta dichiarò che le _regalie_ spettavano a lui solo, e che
sotto il nome di regalia erano compresi i ducati, i marchesati, le
contee, il diritto di coniar monete, i pedaggi, il diritto del _fodero_,
ossia, approvvigionamento, i tributi, i porti, i mulini, le pesche, e
tutti i redditi provenienti dai fiumi. Per ultimo aggiunse a tutto
questo che i sudditi dell'Impero dovevano pagare un testatico al suo
capo[120].
[120] _Otto Mor., p. 1019. — Radev. Fris., l. II, c. 7._
Per altro Federico non fece uso di così vaste concessioni, nè forse era
prudente il farlo. Confermò a tutti i diritti di cui erano possessori,
mercè un'annua corresponsione indicante l'alta signoria dell'Impero. E
per tal modo con apparente generosità aggiunse trenta mila talenti, dice
Radevico, che non suole impiegare che frasi classiche, all'entrate
dell'Impero. Furono verosimilmente trenta mila marche, o trenta mila
libbre d'argento, trovandosi queste valutazioni impiegate negli editti
della stessa epoca.
La medesima Dieta dichiarò pure di pertinenza dell'imperatore la nomina
dei consoli e dei giudici, ma coll'assenso del popolo. Federico
introdusse in quest'occasione un importante cambiamento
nell'amministrazione della giustizia. Durante la dieta erano state
prodotte, secondo l'antica consuetudine del regno, moltissime cause
private, affinchè venissero giudicate dall'imperatore. Egli si lagnò
d'essere sollecitato a pronunciare i suoi giudizj, dicendo che l'intera
sua vita non basterebbe a ciò; ed in conseguenza incaricava in ogni
diocesi delle incumbenze giudiziarie alcuni nuovi magistrati, detti
_podestà_, ch'egli obbligavasi di nominare sempre stranieri alle città
che dovevano reggere[121].
[121] _Radev. Fris. l. II, c. 6._
Tale innovazione apparentemente provocata dal solo amor di giustizia,
poteva riuscir fatale alla libertà, ed ebbe infatti il preveduto
effetto. I podestà trovaronsi bentosto in opposizione coi consoli. I
primi, siccome persone scelte dall'imperatore nella classe de'
gentiluomini a lui più affezionati, o in quella de' legisti, mostravansi
sempre favorevoli al potere arbitrario; i secondi, nominati dal popolo,
erano i campioni della libertà cui dovevano la propria esistenza. Quando
l'imperatore conobbe questa rivalità, si prese cura d'abolire i consoli,
onde rimanessero più potenti i podestà. Ciò diede luogo a quasi tutte le
guerre che si accesero in appresso, ma è cosa notabile che, avendo il
popolo ottenuta intera libertà, non abolisse un'istituzione straniera,
che aveva ricevuta dalle mani d'un sovrano. Rispettando l'ordine
stabilito, conservò i podestà ch'egli stesso nominava, e coi podestà
tenne vivo nel comune un lievito del potere arbitrario; e
quest'abitudine di riclamare l'autorità d'un solo, costò in progresso a
molte repubbliche la libertà.
Nella stessa dieta fu ratificata una legge intorno alla conservazione
della pace, affatto opposta alle prerogative dei comuni, perciocchè a
questi, siccome ai duchi, marchesi, conti, capitani, valvasori, si
toglieva il diritto di far la guerra e la pace, di cui erano in possesso
da tanto tempo: ma perchè tutti erano a parte dei disordini inseparabili
dalle guerre private, niuno ardì opporsi ad una legge tanto favorevole
all'umanità[122].
[122] _Radev. Frisin. l. II, c. 7._
Questa notabile dieta fu chiusa con un giudizio dell'imperatore intorno
alla contesa che da lungo tempo agitavasi tra Piacenza e Cremona. La
prima fu alleata dei Milanesi, l'altra aveva mandate le sue milizie
sotto le insegne di Federico; e ciò bastò a determinare il favore del
principe, che fece atterrare le mura di Piacenza e le torri, e riempirne
le fosse.
Tutto omai piegava ai voleri di Federico, il quale approfittando di
tanta prosperità, faceva ansiosamente ricercare se nelle antiche
provincie romane eravi alcun diritto da rivendicare all'Impero:
nell'antica divisione del quale erano toccate all'imperatore d'Occidente
le isole di Corsica e di Sardegna. Mancando di miglior titolo egli pensò
di valersi di questo, e spedì i suoi commissari ai Pisani ed ai
Genovesi, ingiungendo loro di trasportarli in quelle isole. E perchè sì
gli uni, che gli altri non si prestarono alle sue domande, arse di
sdegno contro di loro, e minacciò di sfogarlo sopra Genova[123]. I
Genovesi dal canto loro non erano contenti della legge emanata dalla
Dieta intorno ai diritti reali; appoggiandosi ad antichi privilegi
degl'imperatori, che li dispensavano da ogni tassa e da ogni servizio, a
motivo della povertà delle loro montagne, e per ricompensarli della cura
che si prendevano di difendere le coste dagl'infedeli. Temendo che
Federico facesse tener dietro i fatti alle minacce, uomini, donne,
fanciulli, lavoravano notte e giorno con instancabile zelo per mettere
la loro città in istato di vigorosa difesa, rinforzando le mura,
coprendole di macchine da guerra, e facendo delle _piatta-forme_ con
alberi ed antenne di navi. Non trascurarono intanto di mandare una
onorata deputazione di magistrati all'imperatore, tra i quali trovavasi
pure lo storico Caffaro. Seppero questi così opportunamente impiegare
l'accortezza e le ragioni, e mostrarsi ad un tempo sommessi e
coraggiosi, che Federico si accontentò di ricevere dodici mila marche
d'argento in tacitazione d'ogni sua pretesa[124].
[123] _Idem, l. II, c. 9._
[124] _Caffari Annal. Gen. l. I, p. 270 et 271._
Supponeva l'imperatore che le decisioni della Dieta di Roncaglia lo
assolvessero dall'osservanza del trattato fatto coi Milanesi, e quindi
sottrasse Monza alla loro giurisdizione, quantunque gli avesse
assicurato il possedimento di tutto il territorio, tranne Lodi e Como.
Poco dopo li privò pure dei contadi della Martesana e del Seprio,
investendone un nuovo Signore; pose guarnigione tedesca nel castello di
Trezzo, e, per far cosa grata ai Cremonesi, ordinò che si distruggessero
le mura di Crema. Mandava in pari tempo a Milano il suo cancelliere per
sostituire il podestà ai consoli in onta alla letterale convenzione del
trattato di pace[125]; perchè il popolo risguardando quest'atto come un
aperto oltraggio, prese furibondo le armi, e sforzò il cancelliere a
sortire all'istante dalla città: nè i Cremaschi avevano diversamente
trattato il messo che loro recava l'ordine di atterrare le mura.
[125] _Sire Raul p. 1181, 1182. — Otto Morena p. 1021. — Radev.
Frisin. l. II. c 21._
Prima che ciò accadesse, gran parte de' signori tedeschi che avevano
accompagnato l'imperatore, eransi, dopo la sommissione di Milano,
ritirati alle loro case, ed al cominciare dell'inverno l'armata di
Federico trovavasi molto indebolita; oltre che erasi avanzata in parte
verso Bologna per sostenere i deputati, che dovevano far eseguire nel
territorio della Chiesa i decreti della dieta di Roncaglia. I Milanesi,
convinti che il sovrano credevasi disobbligato dall'osservanza dei
trattati fatti coi sudditi; i Milanesi che sapevano d'averlo offeso, e
non ignoravano quanto fosse proclive alla vendetta, credettero di
prevenirlo, e si prepararono subito alla guerra. L'imperatore teneva
guarnigione nel castello di Trezzo, posto in riva all'Adda, quattro
miglia al di sopra del ponte di Cassano; lo che aprivagli sempre la
strada del territorio milanese, e toglieva a quegli abitanti il
vantaggio di difendersi dietro i fiumi che da due lati cingono la loro
diocesi. I Milanesi attaccarono perciò Trezzo, e se ne impadronirono in
tre giorni, ma non furono ugualmente felici nell'attacco di Lodi che
difende un altro passaggio dell'Adda[126].
[126] _Radev. Fris. l. II. c. 32. — Otto Morena p. 1023. — Sire Raul
p. 1182._
L'imperatore conoscendosi troppo debole per punire all'istante tanti
oltraggi, si limitò a denunciarli ad una corte plenaria che adunò ad
Antimiaco presso Bologna. Il vescovo di Piacenza, quantunque città da
lungo tempo alleata coi Milanesi, si diffuse in invettive contro di
questi provocando un decreto della Corte che metteva Milano al bando
dell'Impero, ed ordinava ai principi di riunirsi di nuovo per muovergli
guerra.
Questa corte o dieta si occupò inoltre di altre gravissime cause.
Adriano IV si lagnò della condotta de' messaggieri reali venuti a
visitare il patrimonio della Chiesa. Sosteneva il papa, che l'imperatore
senza sua intelligenza non poteva mandare deputati a Roma, perchè quella
non era subordinata che alla Chiesa, che l'imperatore non poteva
pretendere il diritto del _fodero_ dal patrimonio di s. Pietro che in
occasione di recarsi a Roma per ricevere la corona dalle mani del papa;
che i vescovi d'Italia sono bensì tenuti a prestargli il giuramento di
fedeltà, ma non di vassallaggio; siccome non erano tenuti a ricevere i
messaggieri imperiali ne' loro palazzi; per ultimo, che tutti i
possedimenti della contessa Matilde essendo devoluti alla santa Sede,
spettavano al papa i tributi di Ferrara, di Massa, di tutto il
territorio posto tra Acqua pendente e Roma, del ducato di Spoleti e
delle isole di Sardegna e di Corsica. A queste gravi contestazioni
un'altra se n'aggiunse assai più frivola, ma forse più calda rispetto
allo stile adoperato dalla cancelleria imperiale nello scrivere al
papa[127].
[127] _Radev. Fris. l. II, c. 18.-20, et 30, 31. — Baron. ad ann.
1159, § 1.-19._
Rispondeva Federico, che i suoi messaggieri, abitando ne' palazzi
vescovili, abitavano in propria casa, perchè fabbricati sul suolo
imperiale; che i vescovi non potevano dispensarsi dal dichiararsi suoi
vassalli finchè rimanevano in possesso dei feudi dell'Impero; per ultimo
essere affatto insussistente la pretesa sovranità del papa nella città
di Roma, mentre egli aveva il titolo di re dei Romani.
La guerra di questo monarca coi Milanesi, e la vicina morte d'Adriano,
non permisero, è vero, che questa lite s'inasprisse troppo, ma fu
cagione che il senato romano, che ancora mantenevasi nemico de' papi, si
rappacificasse coll'imperatore.
Nella disuguale contesa che i Milanesi rinnovavano coll'imperatore, non
contavano altri alleati che i Cremaschi, popolo valoroso ma debole, ed i
Bresciani che nella precedente campagna non avevano dato prove di molta
fermezza. I Tortonesi o non osarono, o non hanno potuto soccorrerli.
Federico aveva costretti gli abitanti di Piacenza e dell'Isola sul lago
di Como, a rinunciare all'alleanza de' Milanesi per unirsi a lui; e le
città di Como e di Lodi, già soggette ai Milanesi, avevan prese le armi
contro di loro. Lodi nuovamente fortificata con un ponte sull'Adda,
apriva il territorio milanese ai nemici, padroni di quella città.
Aggiungevasi a tali ristrettezze, le campagne rovinate nella precedente
guerra, il tesoro esausto, la morte de' più bravi cittadini per cui
trovavansi in peggiori circostanze che all'epoca della prima invasione:
di modo che la risoluzione ardita di dichiarar la guerra, potrebbe
chiamarsi stoltezza, se generosi motivi non l'avessero provocata. È
nobile orgoglio il poter dire: siamo deboli, siamo abbandonati, saremo
sterminati, chè non è in nostro potere il soggiogar la fortuna, ma
questo residuo di ricchezze che possiamo sagrificare alla patria; questa
rimanenza di vigore che sentiamo nelle nostre braccia, questo sangue
libero che bolle ancora nelle nostre vene, dobbiamo pur consacrarli ad
un nobile oggetto; noi non possediamo tutto ciò che per combattere il
dispotismo; e noi non ci sottometteremo che quando, oltre aver perduta
ogni speranza di vincere, ci sarà tolto ogni mezzo di resistenza[128].
Con tali sentimenti, con tanta costanza, l'entusiasmo si perpetua, la
seguente generazione rivendica quella che soggiace, i despoti si
snervano a forza di vincere, e sulle rovine delle città libere s'innalza
di nuovo lo stendardo della libertà.
[128] Ho riportata fedelmente questa declamazione più da retore che
da storico, perchè non è in facoltà d'un traduttore di mutilare il
testo. Il discreto lettore darà quel peso che merita a quest'uscita
dell'autore, non perdonabile che in un lungo lavoro pregevole per
infinite bellezze. _N. d. T._
Federico non intraprese la seconda volta l'assedio di Milano, ma usando
destramente di tutti gli avvantaggi che gli dava la facilità di entrare
all'improvviso nel territorio milanese, di porsi in sicuro nel caso di
sinistro evento, e la superiorità della sua cavalleria tanto pel numero
che per la disciplina, si limitò in quella estate a devastare le
campagne de' suoi nemici, bruciando le messi, facendo atterrare o
scorzare gli alberi fruttiferi, distruggendo ogni sorta di commestibili,
e vietando sotto severissime pene il recar vittovaglie a Milano, al qual
oggetto faceva continuamente battere dalla cavalleria tutte le
strade[129]. I Milanesi per altro ch'eransi anticipatamente provveduti,
ed inoltre avevano stabilita una saggia economia nella distribuzione de'
viveri, osservarono con apparente non curanza la desolazione delle loro
campagne.
[129] _Radev. Fris. l. II, c. 23._
In questo frattempo i Cremonesi, avendo avuto qualche considerabile
vantaggio sui Bresciani, determinarono l'imperatore a far l'assedio di
Crema. Essi furono i primi ad accamparsi presso questa città il giorno 3
o 4 di luglio, raggiunti otto giorni dopo dall'imperatore con rinforzi
che aveva ricevuto di Germania.
Crema è posta sulla riva del Serio in una paludosa pianura tra l'Adda e
l'Oglio, ventiquattro miglia distante da Milano, ed altrettante dalle
montagne. Questa piuttosto borgata che città, che borgata allora si
chiamava, era cinta di doppio muro, e d'una fossa piena d'acqua larga e
profonda assai. I Cremaschi, che non senza pena eransi sottratti alla
dipendenza de' Cremonesi, conservavano per Milano una fedeltà a tutta
prova. Avvertiti del pericolo de' loro alleati, i Milanesi destinarono
Manfredo di Dugnano, uno de' loro consoli, a recarvisi con quattrocento
pedoni ed alcuni cavalli, che promettevano di mantenere finchè durasse
l'assedio, quantunque a tale epoca, avendo Federico divisa la sua
armata, danneggiasse già il territorio milanese[130]. Anche i Bresciani
mandarono a Crema alcuni soccorsi.
[130] _Sire Raul, p. 1182._
Intanto gl'imperiali avevano, secondo l'antico costume, incominciato a
lavorare intorno ad una linea di circonvallazione, per togliere alla
città ogni comunicazione colla campagna, ed assicurarsi ad un tempo
dalle sortite degli assediati. Ma questi non cessavano di molestarli; ed
in un attacco che fecero mentre l'imperatore era lontano, combatterono
con tanto valore, che si mantennero superiori fino a notte, quantunque
non avessero più di cento cavalli. Allorchè Federico tornò al campo,
indispettito fieramente perchè i Cremaschi avessero osato di battere le
sue truppe, come avesse giusto motivo di farlo, ordinò che si
appiccassero alcuni prigionieri in faccia alle mura. Gli assediati,
credendosi in dovere di far uso del barbaro e talvolta impolitico
diritto di rappresaglia, esposero sulle mura allo stesso supplicio un
egual numero di Tedeschi[131].
[131] _Radev. Fris. l. II, c. 45, p. 823._
Allora Federico fece loro intimare da un araldo, che ad alcun patto non
farebbe loro grazia, essendo determinato di trattarli coll'estremo
rigore: e per darne una barbara prova fece morire quattro ostaggi presi
a Crema prima della guerra, e sei deputati che i Milanesi mandavano a
Piacenza, tra i quali un nipote dell'arcivescovo.
Alcuni giovanetti cremaschi trovavansi ancora come ostaggi in potere di
Federico. Egli li fece attaccare ad una torre che doveva spingersi
contro la città, mentre gli assediati, con nuovi mangani o catapulte,
sforzavansi di tenerla lontana. Sperava così Federico di costringere i
Cremaschi a non adoperare le loro macchine, che minacciavano di spezzare
la sua torre; pure non lasciava loro veruna speranza di salute, avendo
fatti morire altri ostaggi; onde quand'anche i Cremaschi per salvare
quegl'infelici avessero sagrificata la città, non erano perciò lusingati
di avere sopportabili condizioni. I padri di quelle sventurate vittime,
armati sulle mura, mettevano lamentevoli grida, ma non lasciavano di
combattere e di dirizzare le catapulte contro la torre che avanzavasi
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