Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 02 (of 16) - 01

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STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO
DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.
Traduzione dal francese.
TOMO II.



Italia
1817.


STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE


CAPITOLO VII.
_Ambizione dei Milanesi, e loro conquiste in Lombardia ne' primi
cinquant'anni del secolo XII. — Regni di Lottario III, e di
Corrado II. — Rivoluzioni di Roma._
1100 = 1152.

Le passioni religiose rese vive dalla lite delle investiture, dopo avere
violentemente agitati l'Impero e la Chiesa, s'andarono da sè medesime
calmando in conseguenza dello spossamento prodotto dalla lunghezza e
dall'acerbità degli odj; poichè quelle calunnie, quelle ingiurie, quelle
invettive, che prima commovevano i popoli, erano, per il fattone abuso,
divenute indifferenti. Vedendo le nazioni, dopo sì lunga lotta, i due
partiti ugualmente forti, conobbero che non dovevasi prestar fede nè
alle grandi promesse degli unì, nè temere le minacce degli altri; che
ogni virtù non è da una sola banda, nè tutt'i vizj dall'altro lato, e
che niun partito poteva ripromettersi la parziale protezione del cielo.
Le private mire degli agitatori del popolo sono finalmente palesi, cessa
l'illusione, e quella spaventosa macchina, che aveva sommossa tutta la
società, non poteva più raddrizzarsi, nè ingannarla.
Anche assai prima della pace di Worms apparivano manifesti indizj della
stanchezza degli opposti partiti, dell'Impero e del Sacerdozio. Intanto
vedevansi rinascere, e ciò direttamente risguarda l'oggetto della
presente storia, le gelosie tra le vicine città, le guerre private, e lo
sviluppo delle passioni repubblicane prender luogo nel cuor degli
uomini, invece del fanatismo religioso.
Durante il torbido regno d'Enrico IV, le città lombarde avevano
sordamente adottato il governo municipale; e già ai tempi d'Enrico V,
oltre l'amore di libertà, incominciavano a nutrire pensieri ambiziosi di
conquista. Ogni città era libera, ma disuguale la popolazione di tutte
le città. L'estensione e la fecondità del territorio, il vantaggio della
posizione, le antiche prerogative civili ed ecclesiastiche, rendevano le
une più ricche e potenti delle altre. Milano e Pavia primeggiavano su
tutte le città lombarde, ed i loro cittadini, divisi da una pianura di
sole venti miglia non attraversata da verun fiume, avevano in tanta
vicinanza frequenti motivi di disgusti; perciocchè, oltre la rivalità di
gloria e di potenza, davan loro cagione di acerbe guerre i confini delle
diocesi non divise dalla natura, ed i dispareri sul corso delle acque
destinate alla irrigazione de' terreni.
Da principio si offesero indirettamente, cercando di ridurre in podestà
loro le città vicine più deboli; lo che divise tutta la Lombardia in due
fazioni, delle quali eran capo Milano e Pavia. Cremona, che dopo queste
era la più potente repubblica, tentò del 1100 d'impadronirsi di
Crema[1]. Pavia moveva guerra a Tortona nel 1107, e Milano attaccava
Lodi e Novara; le quali per timore di servitù chiedevano ajuto alla
metropoli amica. E per tali cagioni Crema e Tortona si posero sotto la
tutela de' Milanesi, mentre Pavia, Cremona, Lodi e Novara si collegarono
per far testa alla potenza de' Milanesi. I Bresciani, antichi rivali di
Cremona, si collegarono con Milano, siccome gli Astigiani, nemici dei
Tortonesi, s'unirono a Pavia. E tra le città più lontane, Parma e Modena
seguivano d'ordinario la parte milanese; Piacenza e Reggio l'opposta
lega.
[1] _Campi, Istoria di Cremona l. I, p. 17. — Ludov. Cavitelli
Cremon. Annales apud Graevium t. III, p. 1293._
Le loro guerre incominciarono sempre con leggieri scaramucce tra le
popolazioni vicine, che in tempo delle messi danneggiavano le campagne
nemiche. Riscaldati dalle fresche offese gli antichi odi, solevano
sfidarsi a battaglia in un luogo e giorno determinati, in cui gli uomini
de' due Stati atti alle armi andavano tutti col loro carroccio contro al
nemico. Presso questi repubblicani la bravura teneva sola luogo d'ogni
arte militare, ed una sola battaglia chiudeva d'ordinario la campagna e
la guerra. Siccome le due parti non aspiravano che all'onore del
trionfo, cercavan meno d'esterminare il nemico, che d'insultarlo e
d'avvilirlo. I Milanesi avendo del 1108 battuti i Pavesi, e fatti loro
moltissimi prigionieri, li condussero nella pubblica piazza, ove, poichè
ebber loro legate le mani al di dietro, ed appesovi un lumicino,
permisero loro di tornare alle proprie città, accompagnandoli per breve
tratto di strada colle fischiate[2].
[2] _Galvan. Fiamma Manip. Florum c. 159. Rer. Ital. t. XI. p. 628._
Non però tutte le guerre terminavano con sì poco danno. Milano era
chiuso dai territorj di sette repubbliche; Como, Novara, Pavia, Lodi,
Cremona, Crema e Bergamo: delle quali la più lontana, Cremona, trovavasi
a sole cinquanta miglia di distanza. Crema più debole delle altre erasi
posta sotto la protezione de' Milanesi, e formava, per così dire, parte
del loro Stato. La comune sicurezza riuniva le altre contro Milano, la
quale, quando potesse momentaneamente disunirle, era sicura di opprimere
le più deboli: e siccome veruna stabile alleanza legava le sei città, e
la pace e la guerra erano ugualmente cagione di frequenti separazioni, i
Milanesi ebbero ben tosto opportunità di combatterle separatamente, ed
incominciarono col dichiarar guerra a Lodi l'anno 1107[3].
[3] _Johan. Bap. Villanove Laudis Pomp. Hist. ap. Craevium t. III,
l. I, p. 856. — Landulphi Junior. Hist. Mediol. c. 16, p. 486._
(1107 = 1111) Questa guerra durò quattr'anni, dal 1107 al 1111, nel qual
tempo, se dobbiam credere agli storici lodigiani, i loro concittadini
furono più volte in aperta campagna vittoriosi. Non pertanto perdettero
molta parte del loro raccolto, e dovettero soffrire le ingiurie de'
nemici che avanzavansi ad insultarli fin presso alle mura della città. A
que' tempi, non conoscevasi quasi miglior modo di far gli assedj:
perciocchè quando gli assalitori non riducevano il nemico ad uscir dalle
porte per vendicarsi dei dileggi battendosi in aperta campagna, erano
ben tosto costretti di ritirarsi. Gli artigiani che formavano il grosso
dell'armata, e non erano pagati, mal potevano tenersi lungo tempo
lontani dalle loro officine. I Milanesi rinnovavano ogni anno la guerra,
ed ogni anno abbruciarono la messe de' Lodigiani, o la trasportarono nel
proprio territorio, malgrado i soccorsi de' Cremonesi e de' Pavesi.
Finalmente nel giugno del 1111 presero d'assalto le muraglie delle
città, che le milizie lodigiane, spossate dalle lunghe vigilie e dalla
fame, non ebbero forza di difendere[4]. I Milanesi diedero allora libero
corso al concepito odio, atterrarono le mura di Lodi, e ne incendiarono
le case, ripartendone gli abitanti in sei borgate, che sottoposero a
severissime condizioni, alle più odiose leggi; di modo che di
quell'infelice città non rimasero che le miserabili ruine nel luogo che
poi chiamossi Lodi vecchio. Quarantasett'anni dopo quegli abitanti
rifabbricarono una nuova città a qualche distanza dalla distrutta.
[4] _Galvan. Flam. Manipulus Florum c. 163. t. XI. R. It. p. 629. —
Trist. Calchi Hist. Patriæ l. VII, p. 208._
(1118) Una guerra di maggior considerazione intrapresero i Milanesi
contro la città di Como l'anno 1118, la quale fu descritta da un poeta
comasco assai vicino a que' tempi. Il suo poema è quasi la sola memoria
che ci resta di quella sanguinosa contesa[5].
[5] _Cumanus, seu de Bello comensi anonimum Poema ap. Scr. Rer. Ital
t. V. p. 399. Cum notis Jo. Mariæ Stampæ._
In principio del poema il cantore comasco paragona le sventure della sua
patria a quelle di Troja[6]: e quantunque egli non si rassomigli in
veruna cosa ad Omero, i descritti avvenimenti ci ricordano vivamente le
generali circostanze della guerra trojana. L'assedio di Como dura dieci
anni, e combattono contro gl'infelici Comaschi tutte le piccole
repubbliche lombarde. In questa lunga lotta le milizie loro fecero i
primi esperimenti del proprio valore, e s'agguerrirono in modo da potere
in appresso resistere a Federico Barbarossa, lo Zerse de' secoli di
mezzo.
[6]
_Testantur montes, testatur, et hoc Baradellus._
_Troja suis ducibus defenditur; Hector in illis_
_Affuit, Æneas, nec non Paris, Hectoris omnes_
_Pugnabant fratres, pugnat fortissimus Adam_
_Deque Piro dictus, duros deverberat hostes,_
_Hortatur socios, in pugna recreat omnes._
_Cuman. V. 38. p. 414._
Le opinioni religiose non furono da principio straniere a tale contesa.
Mentre i Lombardi seguivano generalmente la parte imperiale, Como stava
per il Papa, che gli aveva dato un vescovo di loro piena
soddisfazione[7]. L'antipapa Burdino, ossia Gregorio VIII, aveva
nominato vescovo di Como un diacono della chiesa milanese, chiamato
Landolfo, della nobile famiglia di Carcano. Sperando costui di
approfittare della dimora d'Enrico V in Italia, erasi recato fino al
castello di s. Gregorio, di dove co' suoi maneggi disturbava la diocesi
del suo rivale. Una notte il legittimo vescovo Guido, sortito dalla
città coi due consoli Adamo di Pirro e Gaudenzio Fontanella, sorprese il
castello di s. Gregorio, facendo prigione Landolfo, ed uccidendo molti
suoi parenti, e partigiani che cercarono di difenderlo. Coloro che
poterono sottrarsi al massacro, fuggirono a Milano, portando con loro le
insanguinate vesti degli uccisi, che stesero sulla pubblica piazza,
sedendosi taciturni a canto alle medesime, mentre le vedove ed i figli
degli estinti colle lagrime e coi gemiti invocavano i passeggieri, e
supplicavano il popolo di vendicare tanta ingiuria. Intanto le campane
chiamano i fedeli ai divini ufficj. L'arcivescovo Giordano fermò il
popolo all'ingresso del tempio, ordinando al clero che lo seguiva di
chiuderne le porte; e dichiarò che non si riaprirebbero che a coloro che
prendessero le armi per vendicare la chiesa e la patria[8]. Ne' paesi
liberi si commovono ed agitano le menti colla sorpresa dello spettacolo;
mentre dove la volontà d'un solo decide della pace e della guerra, tutto
ciò rendesi inutile.
[7] Guido Grimoldi di Galavesca. Gli storici milanesi risguardano
come una cosa vergognosa per la loro patria l'avere sostenuto lo
scisma, onde o non ne fanno parola, o cercano di darne colpa ai
Comaschi loro nemici; e per tal modo resero oscura assai questa
parte del loro racconto: ma ciò che non è dubbioso, si è che
Landolfo Carcano, difeso dai Milanesi, era un vescovo scismatico
eletto da Enrico V (_Scheda Antiqu. ap. Jos. Mariam Stampam præfatio
ad Cumanum p. 407._); e che il poeta comasco dà ad Anselmo da
Clivio, uno degli arcivescovi di Milano, l'aggiunto di _male
pactus_, che pare corrispondere al vocabolo di simoniaco. Veggasi
_Cumanus v. 686_, p. 428.; la prefazione premessa al Poema dal
Muratori _p. 402_, e Landolfo di s. Paolo _c. 37, t. V, p. 507_.
[8] _Landulph. Junior Hist. Mediol. c. 34, p. 504. Notæ Saxii ad
eundem. — Trist. Calcus Hist. pat. l. VII, p. 210._
I Milanesi corsero alle armi, e dietro ad un araldo mandato a sfidare i
Comaschi, uscirono pomposamente col carroccio e colle bandiere spiegate
dalla città loro, prendendo la strada di Como. Trovarono a' piedi del
monte Baradello le milizie comasche, con cui attaccarono una battaglia,
che senza alcun vantaggio degli uni o degli altri si prolungò fino alla
notte. I Milanesi approfittarono dell'oscurità per discendere
inosservati sulle ghiaje del torrente Aperto, lungo il quale
s'accostarono fino alle mura di Como, i di cui abitanti abili alle armi
trovandosi tutti nel campo presso Baradello, fu facile ai primi di
rompere le porte della città non difesa, ed abbandonarla alle fiamme. In
sul far del giorno vedendo i Comaschi che i nemici eransi allontanati,
s'avviarono alla città loro a traverso la montagna; e quando giunsero
alla sommità la videro, atterriti, coperta da denso fumo illuminato
dalla fiamma divoratrice. Scesero impetuosamente dalla cima del
Baradello, e fattisi addosso ai Milanesi intenti al saccheggio, gli
oppressero e fugarono in modo, che, rimasti all'istante padroni della
città, ebber tempo di estinguere l'incendio, e di rimettere le abbattute
porte[9].
[9] _Cum. v. 63.-114, p. 415. — Trist. Cal. Hist. Patriæ l. VII, p.
211. — Bern. Corio Stor. Mil. p. I, p. 28._
Sembra che a quest'epoca i Comaschi fossero i più valorosi soldati
d'Italia. Forse la vicinanza della Svizzera, l'abitudine di viaggiare
per le alte montagne e di navigare sopra un lago assai burrascoso, gli
aveva agguerriti prima degli altri. I ricchi e potenti villaggi situati
sul pendìo delle Alpi erano tutti soggetti a Como; ma non tutti erano
contenti di tale onerosa dipendenza. Quello d'Isola posto presso al lago
in faccia ad un'isoletta da cui prese il nome[10], volendo affatto
emanciparsi da Como, (1119) spedì deputati a Milano, che segnarono un
trattato d'alleanza colla repubblica. Allora gli abitanti d'Isola
equipaggiarono una flotta di battelli, e nella susseguente primavera
osarono di sfidare i Comaschi; i quali, sortiti colla loro flotta, li
ruppero e dispersero, senza poter approfittare della vittoria, costretti
di rientrare in città per opporsi a più temuti nemici che s'avanzavano
dalla parte di terra.
[10] Quest'isoletta, a sedici miglia al nord di Como, e cinquanta
passi solamente lontana dalla spiaggia, può avere un miglio di
circuito. Ebbe un castello assai forte fabbricato dai Lombardi.
Non si sa comprendere la cagione che consigliò tutte le città lombarde
ad abbracciare le parti della città, di cui erano a ragione più gelose,
contro una repubblica che mai le aveva offese, e da cui non avevano che
temere; e cresce la sorpresa vedendole prender parte a tale
confederazione, in tempo che non potevano ignorare che il principale
motivo della guerra era quello di appoggiare un vescovo scismatico
contro il legittimo pastore. Lo che è una aperta prova, che in tale
epoca la parte d'Enrico e dell'antipapa Burdino prevaleva in Lombardia;
attestando il poeta comasco[11] che i Milanesi avevano spediti deputati
a tutte le città vicine, ed ottenuti soccorsi da Cremona, Pavia,
Brescia, Bergamo, Vercelli, Asti, Novara, Verona, Bologna, Ferrara,
Mantova e Guastalla. La contessa di Biandrate, che aveva il suo feudo
tra Milano e Novara, andò al campo dei Milanesi portando in braccio il
figliuolo ancora bambino, ed i gentiluomini della Garfagnana, alpestre
contrada degli Appennini, mandarono ai confederati un corpo di
cavalleria.
[11] Cumano v. 200.-215. Malgrado la positiva testimonianza del
poeta comasco, seguito poi da tutti gli storici lombardi, io dubito
tuttavia di questa lega fra tante città, che non avevano verun
motivo di nimicizia verso i Comaschi, ed erano anzi fra di loro
rivali. Forse eransi soltanto arrolati all'armata milanese pochi
volontarj di quelle città; forse il poeta ne accrebbe il numero per
render più gloriosa la lunga resistenza e la caduta della sua
patria.
Non osarono i Comaschi di affrontare in aperta campagna tanti nemici, e
gli aspettarono entro le loro mura. La città di Como presenta la
configurazione d'un gambero; la sua bocca è rivolta all'estremità del
lago, e ne forma il porto. Due sobborghi, Vico e Colognola, stendonsi
lungo le spiaggie opposte come le chele del gambero, il di cui corpo si
allunga in sul piano chiuso da tre colline tutte difese da una rocca,
cioè Castelnuovo a levante, Baradello a mezzodì, e Carnesino a ponente;
per ultimo un terzo sobborgo, che, ripiegandosi, si prolunga tra levante
e mezzogiorno, raffigura la coda del gambero[12]. I Milanesi coi loro
confederati attaccarono i sobborghi di Vico e di Colognola; ma non
avendoli ottenuti d'assalto, dopo aver perduta molta gente, ed uccisa
quasi altrettanta agli assediati, fecero proclamare da un araldo, che in
agosto del susseguente anno riprenderebbero l'assedio della città.
Questa costumanza d'annunciare l'epoca d'una nuova spedizione[13] era un
impegno d'onore che guarentiva i nemici da ogni sorpresa, e che tra
tanti e così acerbi odj procurava lunghi intervalli di tregua alle
rivali popolazioni.
[12] Piano di Como presso Alessandro Ducker. _Grœvius t. III, p.
1199._
[13] Cumanus v. 263. Trovansene altri esempi ne' successivi anni
_v._ 271 e 313.
(1120-1127) Negli otto anni susseguenti dal 1120 al 1127, i Milanesi
rinnovarono ogni estate le ostilità loro contro i Comaschi, ma sempre
meno vigorosamente. Spedivano soccorsi ai villaggi che avevano fatti
ribellare a Como, e la guerra omai non si faceva che sulle rive dei
laghi Maggiore, di Lugano e di Como, ov'eran posti i paesi ribelli. I
Comaschi furono lungo tempo vittoriosi, castigarono sul proprio lago gli
abitanti d'Isola e di Menaggio, ed equipaggiarono una flotta su quello
di Lugano per contenere le popolazioni ancora fedeli, e far rientrare
nell'ubbidienza loro i sollevati. E perchè i nemici dominavano il fiume
Tresa, per cui il lago di Lugano comunica con il lago Maggiore,
trasportarono le navi della flotta coi carri da uno all'altro lago,
benchè distanti otto miglia; ed avendo di buon mattino lanciate in acqua
le loro barche, corsero trionfanti le coste del Verbano, rassicurando i
loro alleati, e saccheggiando i sorpresi nemici.
(1125) La perdita del vescovo Guido, che fu l'anima di tutte le loro
intraprese, accaduta del 1125, riuscì oltremodo dannosa ai Comaschi. Una
così lunga guerra gli aveva impoveriti di gente e di danaro: ogni anno
parte del raccolto era stato distrutto, molti paesi eransi sottratti al
loro dominio, e le stesse vittorie avevano distrutti i più valorosi
guerrieri. Ma la campagna del 1126 riuscì loro costantemente
svantaggiosa, onde i Milanesi poterono accorgersi che, raddoppiando i
loro sforzi, otterrebbero nel susseguente anno intera vittoria.
(1127) In primavera del 1127 i Milanesi avanzaronsi di fatto verso Como
con un'armata assai più numerosa che negli antecedenti anni, avendo
avuto modo d'interessare nella loro lite quasi tutte le repubbliche che
vi avevano presa parte del 1119. Se prestiamo fede al poeta comasco,
vedevansi nell'armata milanese gli stendardi di Pavia, di Novara, di
Vercelli, del giovane conte di Biandrate, d'Asti, d'Alba, d'Albenga, di
Cremona, di Piacenza, di Parma, di Mantova, di Ferrara, di Bologna, di
Modena, di Vicenza e dei cavalieri della Garfagnana[14]. Nè i Milanesi
accontentaronsi al presente d'attaccare i castelli che difendevano la
città, ma s'avanzarono sul piano ov'è fabbricata, ed accamparonsi presso
alle sue mura. Avevano ordinato agli abitanti della borgata di Lecco,
posta all'estremità d'un golfo del lago di Como[15], di condurli legnami
di costruzione; ed avevano assoldati a Pisa ed a Genova alcuni
ingegneri. Quelli di Pisa erano specialmente esercitati nell'arte di
dirigere le mine, ed i Genovesi in quella di costruire macchine
militari[16]. Fabbricarono gli ultimi a non molta distanza dalle mura
quattro torri con parapetto coperto di pelli di bue, onde preservarle
dal fuoco. Posero fra le torri due gatti, specie di montoni, in ciò solo
diversi da quelli usati dagli Antichi che erano armati d'un uncino
destinato a cavar le pietre smosse dal loro urto. Formarono inoltre
quattro baliste per lanciare massi di pietra al di là delle mura: e
quando tali macchine trovaronsi terminate, furono dall'armata a suono di
trombe strascinate presso le mura in mezzo alle grida di gioja.
[14] _Cum. V. 1834 e segu. p. 452._ — Veggasi la nota a _p. 15_.
[15] Lecco è posto all'estremità del Golfo a Levante, dove le acque
del lago tornano a formare l'Adda.
[16] _Cum. v. 1815, e segu. p. 452._
Dal canto loro i Comaschi non trascuravano verun mezzo di difesa.
Avevano cavate le loro fosse, aggiunti speroni alle mura, coperte le
parti più deboli di cuoi e d'altre materie cedenti. Avevano in pari
tempo equipaggiata la loro flotta, destinata ad attaccare
all'opportunità gli abitanti dell'Isola che bloccavano la città dalla
banda del lago. Malgrado il numero infinitamente maggiore de' loro
nemici, tentarono con una sortita d'incendiare le macchine degli
assedianti; ma furono respinti dopo aver dato sorprendenti prove di
valore.
Intanto a fronte della vigorosa resistenza degli assediati, le macchine
erano state spinte fino alle mura: il montone aveva squarciata parte
della muraglia, e si continuava a batterla, onde allargarne la breccia
per renderla praticabile alla cavalleria, di cui i Milanesi volevano
prevalersi nell'assalto del susseguente giorno. I Comaschi tentarono di
chiudere durante la notte l'apertura della breccia colle palafitte, ma
s'avvidero allora che la maggior parte de' loro guerrieri eran periti in
così lunga guerra, non restando omai che vecchi spossati dalle fatiche e
fanciulli inabili alle armi[17]. Ridotti vedendosi a tali estremità,
piuttosto che arrendersi, presero la disperata risoluzione d'abbandonare
la patria e cercare altrove la pace e la libertà. Per primo luogo di
rifugio prescelsero il castello di Vico; e mentre caricavano sulle loro
barche le donne ed i fanciulli con quanto avevano di prezioso, fecero
nel cuore della notte una disperata sortita per tenere i Milanesi
occupati intorno alla breccia, onde non s'accorgessero della fuga.
L'evento corrispose ai loro voti: dopo avere con un subito attacco
sparso il terrore nel campo nemico, s'imbarcarono anco i soldati, e
giunsero al castello di Vico senz'essere molestati nel loro tragitto.
[17] _Cumanus v. 1900, e segu. p. 454._
I Milanesi, rinvenuti da quella subita sorpresa, s'accostarono alle
porte che trovarono aperte ed abbandonate[18], vi appiccarono il fuoco,
ma non ardirono d'avanzarsi più in là finchè il nuovo giorno non li
rassicurò dal timore d'un'imboscata. Crebbe la loro sorpresa quando
videro la città spogliata di gente e di roba, ed il castello di Vico
provveduto di soldati e di macchine, e disposto a sostenere un nuovo
assedio ancora più lungo di quello di Como, perciocchè gli scogli su cui
Vico era fabbricato, lo assicuravano dai danni della zappa e del
montone. I Milanesi mandarono allora una deputazione di ecclesiastici ad
offrire ai Comaschi una vantaggiosa capitolazione, che fu ben tosto
accettata. Venivano conservate ai vinti tutte le proprietà a condizione
che prendessero parte in tutte le guerre dei Milanesi, che soggiacessero
alle tasse comuni, ed atterrassero le mura di Como, di Vico, di
Colognola[19]. In tal modo ebbe fine la guerra comasca; e questa città,
ormai incapace di difendersi, rimase lungo tempo in podestà dei
Milanesi, e non riebbe la libertà che ai tempi della lega lombarda
formatasi sotto gli auspicj di Federico Barbarossa, di cui Como seguì le
parti.
[18] _Cum. v. 1953 p. 455._
[19] _Id. v. 1974 ad finem p. 455._
La sommissione di Lodi e di Como rese Milano più potente delle sue
rivali e di lunga mano più potente, non essendovene altre che avessero
città soggette. L'ambizione de' Milanesi crebbe per sì prosperi
successi, che li trassero ben tosto in nuove guerre. Abbiamo altrove
veduto che avevan preso a proteggere Crema, più borgata che città,
dipendente rispetto alle cose spirituali e nelle temporali dal vescovo o
dalla città di Cremona. Del 1129 i Cremaschi tentarono di sottrarsi
dalla dipendenza di Cremona, ed invocarono il braccio dei Milanesi
siccome garanti de' loro privilegi. I Cremonesi invece si rivolsero ai
Pavesi, ai Piacentini, ai Novaresi, ai Bresciani, i quali gelosi
dell'ingrandimento di Milano, cui avevano essi medesimi contribuito,
colsero con ardore questo pretesto per attaccare così potenti rivali.
Questa nuova guerra tra popolazioni di forze quasi pari rimase
secondaria a liti di più alto rango, cui avea dato luogo la successione
dell'impero. Enrico V era morto senza lasciar figliuoli l'anno 1125. La
dieta de' principi tedeschi, riunitasi a Magonza per dargli un
successore, erasi divisa fra due Case da lungo tempo rivali, le di cui
gare agitarono la Germania e l'Italia, ed i di cui nomi divennero in
appresso i distintivi di due opposti partiti. I quattro ultimi
imperatori erano usciti da una famiglia che governava la Franconia
quando fu fatto imperatore Corrado; famiglia talvolta distinta col nome
di Salica, e talora con quello di _Gueibelinga_ o _Waiblinga_, castello
della diocesi d'Augusta nelle montagne dell'Hertfeld[20], dove forse
ebbero origine i suoi primi ascendenti; ed i suoi partigiani chiamaronsi
poi Ghibellini. Un'altra potente famiglia originaria d'Altdorf possedeva
in questi tempi la Baviera, e perchè progressivamente ebbe più principi
chiamati Guelfo o Welfo, fu alla medesima ed ai suoi partigiani dato il
nome di Guelfi[21]. Gli ultimi due Enrichi e la casa de' Ghibellini
avevano sostenute lunghe guerre contro la Chiesa, di cui i Guelfi eransi
dichiarati protettori. Quando morì Enrico V, suo nipote Federico
d'Hohenstauffen duca di Svevia, che aveva avuta la miglior parte della
sua eredità, lusingavasi pure che la corona imperiale non uscirebbe
dalla propria casa. Pure la Dieta, dietro i consigli dell'arcivescovo di
Magonza nemico della Casa Salica, ne dispose diversamente, proclamando
imperatore Lotario, duca di Sassonia, nemico della famiglia
Ghibellina[22]. Questo monarca non tardò a stringersi con nuovi legami
ai Guelfi, accordando in isposa al loro capo Enrico IV duca di Baviera
l'unica sua figlia ed erede che gli portava in dote il ducato di
Sassonia[23].
[20] _Otto Frising. de Gest. Friderici I lib. II c. 2. Rer. Ital. t.
VI pag. 699. — Mascovius Commen. de Reb. Imp. sub Conrado III lib.
III p. 141._
[21] _Chron. Weingartense de Guelfis ap. Leibn. t. I. p. 781._
Stando ad una cronaca bavara citata da Mascovio lib. III, p. 141,
tali nomi furono dati alle parti dopo la battaglia di Winsberg tra
Corrado III e Guelfo il 21 dicembre del 1140.
[22] _Otto Fris. in Chr. l. VII, c. 17, p. 137. — Mascov. Comment.
de Reb. Imp. sub Lothario II l. I, p. 1._
[23] L'anno 1127 alla Dieta di Mersburgo. _Mascov. p. 12._
Quantunque Lotario fosse il legittimo successore di Enrico, il passaggio
dell'autorità sovrana ad una casa nemica dovea essere cagione di
violenti convulsioni allo stato. Nella primavera del 1126 il principe
Ghibellino prese le armi, e ridusse la guerra in Alsazia ove possedeva
molti castelli; ma in questa prima campagna si trattò la guerra con poco
vigore[24].
[24] _Mascov. Comment. l. I, § 6, p. 9._
(1127) Nel 1127 Corrado duca di Franconia e fratello di Federico,
tornato di terra santa dove aveva combattuto contro gl'infedeli, rialzò
colla sua presenza il partito che d'ora innanzi chiameremo ghibellino:
forzò Lotario a levar l'assedio a Norimberga; prese, trovandosi a Spira,
il titolo di re, e passò di là in Italia, sperando di prevenire Lotario,
e di guadagnare i Lombardi al suo partito[25].
[25] _Otto Frising. Chron. l. VII c. 17, p. 137._
(1128) Di fatti i Milanesi nel 1128 ricevettero magnificamente Corrado
qual successore d'Enrico e legittimo monarca. Il clero ed il popolo
furon chiamati a parlamento sulla pubblica piazza, in cui Ruggiero
Clivelli cavaliere, e Landolfo da s. Paolo, lo storico, deputati
dell'arcivescovo, discussero le ragioni dei due competitori innanzi al
popolo, il quale chiese concordemente che venisse l'arcivescovo ad
incoronare il principe. Questa ceremonia si eseguì in Monza il 29 giugno
del 1128, e rinnovossi poi a Milano nella basilica di s. Ambrogio[26].
[26] _Landulphus Tun. l. I § 23, p. 37._
Frattanto papa Onorio, e le città di Pavia, Cremona, Novara, Brescia e
Piacenza eransi dichiarate in favore di Lotario: onde queste città
aprirono una Dieta in Pavia per trattare intorno alla guerra da farsi a
Corrado; ed i loro vescovi scomunicarono Anselmo, arcivescovo di Milano,
colpevole d'aver posta la corona sul capo dell'usurpatore; il quale,
indebolito da questa opposizione del clero, non potè dare esecuzione
all'impresa che meditava contro Roma, e gli fu forza consumare in Parma
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