Le invasioni barbariche in Italia - 05

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nella Tracia, erano in armi, ed aumentavano sempre. Solo la sua grande
autorità ed energia aveva potuto riuscire a tenere in equilibrio forze
così diverse e tra loro cozzanti, che da un momento all'altro potevano
venire a conflitto. L'aver saputo mantenere un tale equilibrio gli
procurò giustamente il nome di Grande; ma a farlo durare occorrevano
costantemente una mano ferma e sicura, una mente superiore. Era quello
che veniva appunto a mancare colla sua morte, quando l'Impero fu
lasciato ai due suoi figli del pari incapaci.


CAPITOLO VI
Arcadio ed Onorio — Rufino, Stilicone ed Alarico

Sino dai tempi di Diocleziano l'Impero era stato quasi sempre diviso in
varie parti, sotto imperatori diversi, più o meno dipendenti da uno di
essi. Questa divisione, che non escludeva il concetto della unità, era
stata suggerita dalla grande difficoltà, che un solo doveva incontrare
a voler governare e difendere tutto l'Impero contro i nemici, che da
ogni parte contemporaneamente lo assalivano. Teodosio, come vedemmo,
potè riunirlo sotto il suo scettro; ma alla sua morte lo lasciò
nuovamente diviso fra i suoi due figli, Arcadio, cui assegnò l'Oriente,
ed Onorio, cui assegnò l'Occidente, senza che intendesse con ciò di
formare due Imperi separati,[16] come si è più volte ripetuto. Se non
che, questa divisione seguiva ora in condizioni affatto nuove, che ne
mutarono il carattere, e col tempo la resero definitiva. Nella elezione
degl'imperatori, fatta in modi assai diversi, sempre però con la
partecipazione dell'esercito, s'era fin dal tempo di Costantino, e più
ancora di Valentiniano I, andato introducendo il principio ereditario,
cercandosi, per quanto era possibile, di non uscire dalla stessa
famiglia. Prima di morire, Teodosio s'era a questo fine associati i due
figli, che ora gli succedevano, l'uno affatto indipendente dall'altro.
Ma essi erano ambedue di minore età, Arcadio avendo 18 anni, Onorio
soli 10, e però l'uno e l'altro ancora incapaci di governare. E
Teodosio, che ben lo sapeva, aveva lasciato il primo affidato alle
cure del prefetto Rufino, suo primo ministro; il secondo, al valoroso
generale Stilicone, _Magister utriusque militiae_, un Vandalo che aveva
gloriosamente combattuto sotto di lui contro Eugenio, e ad esso aveva
raccomandata la difesa dell'Impero. Così non solo i due imperatori
minorenni erano l'uno indipendente dall'altro; ma erano stati affidati
alle cure di due uomini potenti ed ambiziosi del pari, che tra di loro
non potevano andare d'accordo. Tutto ciò portava inevitabili difficoltà
per l'avvenire.
L'ordinamento del governo continuava sempre quale lo avevano formato
Diocleziano e Costantino. Quattro Prefetti del Pretorio alla testa
delle quattro Prefetture: l'Italia cioè con le sue isole e l'Africa,
la Gallia con la Spagna e la Britannia, l'Illirico, l'Oriente. A
Costantinopoli come a Roma v'era un Prefetto della città con un
Senato, che andava sempre più perdendo il suo potere politico, per
divenire come una Curia municipale. Le Prefetture erano divise in
Diocesi, e queste in Province, a lor volta suddivise in Municipi, i
quali erano ordinati a similitudine di Roma, col loro Senato o Curia
e la plebe. Essi restarono, nel disfacimento generale dell'Impero,
l'unico organismo destinato a sopravvivere, trasformandosi però
sostanzialmente. Accanto a quest'amministrazione civile, come abbiamo
già visto, era l'ordinamento militare, coi _Magistri peditum_ e
_Magistri equitum_, due uffici che si univano spesso in una persona
sola, chiamata allora _Magister militum_ o _Magister utriusque
militiae_. Il numero di questi grandi ufficiali militari variava
spesso: in Oriente ne vediamo fino a cinque. In Italia si trova non
di rado un _Magister utriusque militiae_, quale adesso era appunto
Stilicone.
Se non che questo doppio ordinamento civile e militare, che procedeva
parallelamente, avrebbe dovuto, come abbiamo già visto, metter capo
alla sola autorità suprema dell'Imperatore. Ma ciò era divenuto
impossibile ora che a due imperatori inesperti e indipendenti
l'uno dall'altro, si aggiungeva la gelosia e l'antagonismo dei due
consiglieri che dovevano guidarli. Rufino, oriundo della Gallia,
avido, furbo, ambizioso e crudele, era per queste sue stesse qualità di
grado in grado salito ai primi onori. Costretto a raccogliere danaro
per l'amministrazione e per l'esercito, doveva aggravare di tasse
il popolo, cui era perciò divenuto odioso. Ma essendo egli Prefetto
del Pretorio per l'Oriente, avendo la sua sede nella capitale, ed
essendosi a tempo di Teodosio, che negli ultimi anni di sua vita aveva
riunito l'Impero, trovato a far le parti di primo ministro, presumeva
ora di poter dirigere non solo la politica generale dell'Oriente, ma
quella ancora dell'Occidente. Stilicone dall'altro lato, avendo colle
armi contribuito a ricostituire l'antica unità, e trovandosi ancora
alla testa dell'esercito, col quale aveva a tal fine vittoriosamente
combattuto, godeva di questo la piena fiducia. Aveva inoltre sposato
Serena, la nipote di Teodosio, che morendo (così generalmente si
diceva) gli aveva affidato il mandato di vigilare sui due suoi figli.
E però, se Rufino pretendeva di comandare politicamente, Stilicone
pretendeva di comandare militarmente su tutto l'Impero. S'aggiungeva
a ciò, che come capo dell'amministrazione, Rufino rappresentava i
Romani, e come capo dell'esercito, Stilicone, il quale era un barbaro
egli stesso, per forza delle cose, rappresentava i barbari, che
nell'esercito prevalevano. I due principali personaggi dell'Impero si
trovavano adunque fatalmente alla testa di due partiti, con pericolo
evidente in un avvenire non lontano.
Certo la posizione di Rufino era assai più difficile, perchè se egli
aveva in mano la borsa, Stilicone aveva le armi. E per riempire la
borsa erano necessarie le tasse, che partorivano odio. Nella Corte
stessa non mancavano intrighi contro di lui, tanto più che Arcadio,
non essendo come Onorio un fanciullo, già cominciava a mostrarsi
intollerante d'una tutela permanente ed incomoda. E ne diè prova
sposando la figlia d'un generale franco, Eudoxia, celebre per la sua
bellezza, che gli era stata raccomandata dall'eunuco Eutropio, il quale
aveva l'ufficio di _Praepositus sacri cubiculi_: tutto ciò a dispetto
di Rufino, che avrebbe voluto dargli la propria figlia. Nondimeno la
sua autorità era sempre grandissima, come si vide ben presto.
I Goti federati, dolendosi ora di non avere i consueti sussidi, e più
di tutti dolendosi Alarico loro capo, perchè non aveva potuto avere
il titolo chiesto di _Magister militum_, cominciarono a percorrere
il paese, tumultuando e saccheggiando. Stilicone allora s'avanzò
alla testa dell'esercito, per sottometterli; ma Rufino potè, in nome
d'Arcadio, ordinargli che s'occupasse solo delle cose d'Occidente, e
rimandasse a Costantinopoli i soldati che appartenevano all'Oriente, e
che erano la più parte barbari, anzi Goti. Stilicone dovette obbedire,
e li fece partire sotto il comando del generale goto Gainas, il quale
si vuole che cospirasse con lui, d'accordo con l'eunuco Eutropio,
contro Rufino. Certo è in ogni modo, che quando i soldati furono presso
Costantinopoli, ed il 27 novembre 395 vennero passati in rivista da
Arcadio insieme con Rufino, questi si trovò a un tratto circondato;
e subito si avanzò un soldato, che dicendo, — con questa spada ti
colpisce Stilicone, — lo ferì mortalmente. Il suo cadavere venne dalla
moltitudine fatto a pezzi. Alcuni ne portarono in giro pel campo la
testa infitta sopra una lancia; altri ne portarono un braccio, con la
mano tenuta in attitudine di chieder nuove tasse.
In conseguenza della morte di Rufino crebbe assai il potere di
Eutropio, che gli successe; e pareva ancora che i barbari fossero
addirittura divenuti i padroni in Costantinopoli, essendo riusciti
ad occupare i principali uffici militari e civili. Ma ciò appunto
provocava una reazione vivissima del sentimento romano. E di esso il
retore Sinesio rendevasi interpetre presso l'Imperatore, incitandolo
a porsi «alla testa dell'esercito, come gli antichi Cesari; e non
permettere che i barbari piglino posto perfino nel Senato, che portino
la toga da essi disprezzata, che riempiano le legioni e facciano
tumulto, che mettano a pericolo l'Impero. L'esercito deve essere, egli
concludeva, di Romani che difendano la patria.» Ma ciò nonostante il
potere di Gainas e dei Goti era sempre grandissimo. Era cresciuto, è
vero, anche il potere di Eutropio, che nel 399 fu nominato Console;
ma questi, generalmente odiato, venne in discordia con la Imperatrice
e con Gainas. Il quale riuscì a farlo condannare a morte, dopo di che
assunse l'ufficio di _Magister utriusque militiae_, e fu davvero l'uomo
più potente in Costantinopoli. Se non che, questo suo potere appunto
ridestò più che mai la violenta reazione del partito nazionale, la
quale s'accese maggiormente quando all'antagonismo politico s'aggiunse
il religioso.
Allora era vescovo di Costantinopoli S. Giovanni Crisostomo, uomo di
grande autorità e fermezza, irremovibile anch'esso nella sua dottrina
atanasiana, già fatta prevalere da Teodosio. I barbari erano invece
ariani, e però Gainas loro capo mal tollerava che nella capitale
dell'Oriente non vi fosse una sola chiesa destinata al loro culto,
e che essi dovessero trovarsi costretti a cercarla fuori delle mura.
Se non che tutto ciò era secondo le leggi e gli ordini di Teodosio; e
Crisostomo, deliberato a non cedere in nulla, li fece leggere a Gainas,
ricordandogli che aveva accettato di servire l'Impero, con l'obbligo
di rispettarne le leggi. Non volendosi cedere nè da una parte nè
dall'altra, gli animi s'accesero per modo che il 12 luglio 400 scoppiò
contro i barbari un tumulto assai violento. Molti ne furono uccisi,
gli altri si dovettero ritirare dalla città, e Gainas, combattuto,
inseguito, cercò di salvarsi nella Dacia, passando il Danubio con
alcuni dei suoi. Ivi fu ucciso dagli Unni, che credettero con ciò di
far cosa grata all'Impero. Questo fu il più notevole avvenimento nella
vita di Arcadio, giacchè Costantinopoli fu così libera dai barbari;
l'Impero orientale riprese il suo carattere greco-romano, che serbò
fino alla sua caduta; e l'Imperatore potè governare coll'appoggio del
partito nazionale ortodosso. Restavano però sempre i Goti federati,
che occupavano la Tracia e si stendevano nella Mesia, ingrossandosi
ora con tutti i fuggiaschi dell'esercito sbandato di Gainas, trovandosi
sempre più irritati e scontenti, perchè era un pezzo che i soldati non
ricevevano le paghe. Che cosa bisognava dunque fare di questa enorme
massa di gente scontenta, di questo popolo in armi e minaccioso?
Sin dal tempo di Rufino c'era stato in Oriente il disegno di spingere
Alarico coi suoi in Occidente. Così non solo si liberavano colà da
un pericolo continuo, ma si dava del filo da torcere a Stilicone. Si
voleva però evitare il pericolo che i due generali barbari facessero
causa comune contro Costantinopoli; o pure che Stilicone, decidendosi
a combattere sul serio i Goti e riuscendo a vincerli, finisse col
divenire più potente che mai. E fu perciò che, poco dopo la morte
di Teodosio, Rufino lo aveva costretto a fermarsi, togliendogli una
parte dell'esercito. Da un altro lato Stilicone, sebbene fido soldato
dell'Impero, era un barbaro anch'esso, e non poteva desiderare, quando
anche avesse potuto, distruggere affatto i Goti. Non gli conveniva
neppure umiliarli troppo, senza addirittura disfarli, perchè così li
avrebbe resi sempre più avversi e pericolosi ad Arcadio e ad Onorio.
Avrebbe quindi voluto dimostrar loro che poteva colle proprie armi
tenerli a freno, e poi, secondo il pensiero stesso di Teodosio,
aggregarli all'Impero, aumentandone così la forza. In tal modo se
ne sarebbe anche avvantaggiata non poco la sua posizione militare
e politica, quello appunto che a Costantinopoli si voleva evitare.
Ne seguì quindi per qualche tempo, che l'Oriente spingeva i Goti
verso l'Occidente, che a sua volta li rimandava indietro: erano come
ballottati da una parte all'altra.
Tutto ciò doveva naturalmente sempre più irritarli. E così finirono
verso il 395 (la data non è però sicura) coll'eleggersi un proprio re
nella persona appunto di Alarico, che noi abbiam visto fin dalla sua
prima gioventù combattere valorosamente in Italia sotto Teodosio. Esso
era della nobile stirpe dei Balti, nome che Jordanes dice significare
audace (_id est audax_), e che risponde infatti alla parola inglese
_bold_, ardito. Educato alla disciplina militare romana, egli veniva
adesso levato sugli scudi dai suoi connazionali; e ciò aveva una
grande importanza, perchè così i Visigoti federati si ricostituivano
come nazione, o almeno come esercito indipendente dentro l'Impero.
Tanto maggiore si doveva quindi a Costantinopoli sentire il bisogno
di liberarsene, spingendoli sempre più verso l'Occidente. Se non che
Stilicone si trovava anch'esso alla testa d'un formidabile esercito,
di cui, per la debolezza d'Onorio, disponeva a suo arbitrio, e poteva
quindi energicamente resistere. Infatti, quando Alarico s'avanzò,
saccheggiando, nella Grecia (396), gli andò subito incontro, e
respintolo dal Peloponneso, lo chiuse nei monti. Pareva allora che lo
avesse già in suo potere; ma invece si seppe a un tratto, che Alarico,
insieme con tutti i suoi e col bottino raccolto, s'era per l'Epiro
settentrionale messo in salvo. Molte furono le voci allora diffuse. Chi
diceva che era stata una sua abile manovra; chi supponeva che era stata
negligenza o tradimento di Stilicone, e chi finalmente affermava che
tutto era conseguenza di segreti accordi d'Alarico con Costantinopoli.
Certo è che Stilicone se ne tornò tranquillo in Italia, senza
inseguirlo, e che Alarico se ne andò in quella parte dell'Illirico
che apparteneva all'Oriente. Ivi rimase col consenso di Arcadio, che
gli concesse anche l'ambito ufficio di _Magister militum_. E si trovò
come a cavallo fra l'Oriente e l'Occidente, con grande facilità di
ripigliare la strada momentaneamente abbandonata. Intanto aveva modo
non solo di nutrire i suoi, ma di provvederli anche largamente delle
armi, che si trovavano nei magazzini dell'Impero.
La sua mira costante era adesso, per più ragioni, divenuta l'Italia.
Ve lo spingevano da Costantinopoli, per liberarsi una volta di lui e
dei suoi. Dopo la rivolta nazionale del 12 luglio 400, e lo sterminio
dei barbari, l'Oriente non poteva più essere una sede nè sicura nè
gradita ai Goti. Ve lo spingeva anche la sua personale ambizione ed
un vero spirito di avventure. Secondo la leggenda, una voce interiore
gli andava continuamente ripetendo: _Penetrabis ad Urbem!_ Quale fosse
allora il suo disegno, è difficile dirlo con precisione; probabilmente
non lo sapeva lui stesso. Alarico era un ardito soldato, senza un vero
genio politico o militare; una specie di capitano di ventura, come
la più parte dei generali barbarici di quel tempo, che non avevano
una patria, e combattevano sopra tutto per meglio assicurare la loro
posizione personale. Si trovava però a capo d'una immensa moltitudine
di soldati, vecchi, donne, bambini, e questo gl'imponeva molti doveri,
gli dava grandi pensieri. Che sognasse farsi imperatore dell'Occidente,
non è possibile. Non avrebbe saputo come governarlo; ed inoltre un tale
pensiero sarebbe allora ad un barbaro sembrato quasi un sacrilegio.
S'avanzava quindi minacciando, saccheggiando, sperando sempre di trovar
finalmente modo di far parte integrante e normale dell'Impero.
In Italia era intanto assai cresciuta la forza e l'autorità di
Stilicone, specialmente dopo che gli era riuscito di far domare la
ribellione di Gildone, seguìta in Africa nel 398. Egli aveva sposato
una nipote di Teodosio, ed aveva dato sua figlia Maria in moglie ad
Onorio; nel 400 fu anche nominato Console. Tutto questo lo faceva
apparire come un possibile pretendente all'Impero, almeno pel suo
figlio; e ciò gli cresceva autorità, ma gli procurava anche nemici. Per
necessità delle cose si trovava divenuto come il difensore naturale
dell'Italia. E quindi appena seppe che i barbari s'avanzavano, corse
nella Rezia e respinse un esercito giunto colà sotto il comando di
Radagasio, che era d'accordo, a quanto pare, con Alarico. Raccolse poi
quanti più uomini potè, e col suo esercito così ingrossato, discese
nell'alta Italia. Ivi pensò, innanzi tutto, a liberare e mettere
al sicuro Onorio, che trovavasi allora in Asti, esposto al pericolo
d'essere circondato dai nemici. Lo indusse a trasferire la sua sede
da Milano, ove s'era quasi sempre fermato, a Ravenna, che si poteva
più facilmente difendere, ed aveva il vantaggio del mare. Così dal
402 al 475 essa restò sempre capitale dell'Impero d'Occidente, e poi
fu capitale dell'Esarcato, che di là potè facilmente comunicare con
Costantinopoli.
Ma ora bisognava provvedere alla difesa contro Alarico, che s'avanzava
con un esercito numerosissimo. Stilicone richiamò quindi dalla
Britannia la dodicesima legione, e quel che era assai più grave,
richiamò anche le legioni che si trovavano a guardia del Reno,
lasciando così da quel lato aperta la porta ad altri barbari. Voleva
provvedere al pericolo imminente, pensando che, una volta vinto
Alarico, avrebbe facilmente potuto respingere gli altri barbari, forse
anche facendosi aiutare da lui, dopo averlo battuto. Il 6 aprile 402
(data incerta anche questa), i due eserciti s'incontrarono a Pollenzo
sul Tanaro, a venti miglia da Torino, e vi fu una vera battaglia. Era
di settimana santa, e Stilicone, senza occuparsi di ciò, sorprese il
nemico nel campo, mentre celebrava le sacre feste. La vittoria fu sua,
ma i Goti si poterono liberamente ritirare. E sebbene fossero di nuovo
battuti presso Verona, se ne andarono a casa senza essere inseguiti. Si
tornò quindi, come era naturale, a parlar di tradimento. Nondimeno nel
404 Onorio, accompagnato da Stilicone, entrò da trionfatore in Roma. E
furono, in questa occasione, celebrati quei giuochi dei gladiatori, che
più volte, per istigazione dei Cristiani, erano stati invano proibiti.
Questa volta però un monaco orientale, Telemaco, si gettò in mezzo
ai combattenti nell'arena del Colosseo, per separarli in nome di Gesù
Cristo. Egli fu lapidato dalla folla, tra le grida d'indignazione; ma
si afferma che d'allora in poi i giuochi inumani cessassero davvero.
La condotta ardita di Telemaco era un'altra prova dell'energia sempre
maggiore, che lo spirito cristiano andava manifestando.
Dopo che Alarico si fu ritirato, Radagasio che era stato già prima
battuto nella Rezia, si avanzò con un esercito, che Orosio porta a
duecentomila uomini, altri fanno ascendere fino a quattrocentomila,
il che prova la poca credibilità di queste cifre. Era in ogni modo un
esercito assai numeroso, che Stilicone affrontò in Toscana, riuscendo a
chiuderlo nei monti presso Fiesole, dove lo affamò e disfece, pigliando
prigioniero lo stesso Radagasio, che fu poi ucciso (405). Tutti gli
altri morirono o si sbandarono, andando per fame raminghi. E questa
vittoria che avrebbe dovuto crescer favore al capitano che l'aveva
ottenuta, rese invece più clamorose le voci di tradimento, massime
quando poi arrivò la notizia che moltitudini di Alani, di Svevi e di
Vandali, passato il Reno, rimasto indifeso, erano penetrati nella
Gallia (406) e liberamente si avanzavano. — Se ha così facilmente
disfatto Radagasio, si diceva, è segno che poteva, volendo, fare lo
stesso con Alarico. Ma è un barbaro, e vorrebbe lasciar l'Impero in
balìa dei barbari. Perciò ha richiamato le legioni dal Reno, lasciando
invadere la Gallia, come fra poco sarà invasa anche la Spagna. Onorio
dovrebbe imitar suo fratello Arcadio, che seppe liberarsi di Gainas, il
quale se non era insieme coi suoi distrutto, avrebbe dato in mano dei
Goti l'Oriente, che è invece tornato ad essere romano. Se in ugual modo
non si provvede in Occidente, ben presto anche Roma e l'Italia saranno
dominate dai barbari. —
Questi sentimenti infiammarono tutta la parte romana dell'esercito, a
segno tale che le legioni della Britannia nel 407 proclamarono nuovo
imperatore uno il quale pareva non avesse altro titolo che il nome di
Costantino, ma che nel fatto poi dimostrò maggiore energia che non si
supponeva. Egli venne subito nella Gallia, per combattere i barbari;
ma ormai non era più possibile ricacciarli al di là del Reno. Riuscì
nondimeno a ripigliar la guardia del fiume, per impedire almeno che
ne passassero altri. Intanto arrivavano dall'Italia nella Gallia
nuove legioni, mandate da Onorio a ristabilire la sua autorità contro
il _tiranno_, come era chiamato Costantino, perchè non si riteneva
legittima la sua elezione. Così in Occidente si trovavano a contrasto
due imperatori fra di loro e coi barbari. Tutto ciò si attribuiva
a colpa di Stilicone, che veniva perciò sempre più odiato, sempre
più calunniato. Infatti, sebbene avesse con tanta energia e fortuna
combattuto Radagasio, il quale era pagano, pure lo accusavano di
esser fautore dei pagani, aggiungendo che tale era suo figlio, e che
egli aspirava a farlo imperatore d'Occidente. Più tardi, quando morì
Arcadio (1º maggio 408), si affermava invece che egli presumeva farlo
imperatore d'Oriente. — Non contento, dicevano, d'aver dato sua figlia
Maria in moglie ad Onorio, dopo la morte di lei, lo aveva indotto
a sposar l'altra sua figlia Termanzia, senza curarsi che il clero
cristiano condanna le seconde nozze con la sorella della prima moglie.
— Insomma ogni arme era buona contro di lui, e si riuscì infatti a
renderlo odioso ai Cristiani ed ai Pagani.
Ma quello che era peggio, cominciava ora ad ingelosirsi ed
insospettirsi di lui anche Onorio, il quale aveva un certo sentimento
tradizionale dell'autorità imperiale, e mal tollerava, sebbene non lo
dimostrasse ancora aperto, questo Vandalo che suscitava l'avversione
di tutto il partito nazionale romano. Se non che la sua indole incerta
e titubante lo faceva sempre oscillare. Dopo la battaglia di Pollenzo,
pareva che avesse accettato il disegno di Stilicone, che era di
lasciare ad Alarico, sotto la dipendenza dello stesso Onorio, tutta
la Prefettura d'Illiria, sebbene questa fosse stata da qualche tempo
divisa fra l'Occidente e l'Oriente. Stilicone pensava che così si
sarebbero resi contenti i Goti; si sarebbe avuto a propria disposizione
tutto l'esercito di Alarico, e si sarebbe, col suo aiuto, potuto
rimettere l'ordine nella Gallia e nella Spagna, contro i barbari e
contro Costantino, che ora vi spadroneggiava. In conseguenza di ciò,
Alarico s'era già mosso dall'Epiro, quando, per ordine improvviso di
Onorio, fu inaspettatamente fermato. Un tal fatto, come era naturale,
lo sdegnò in estremo grado, e quindi egli s'avanzò minaccioso verso
l'Italia, chiedendo quattromila libbre d'oro, per essere indennizzato
delle spese che aveva fatte. Ed essendosi Onorio sbigottito, la
domanda fu col suo assenso portata e sostenuta da Stilicone in Senato,
con la dichiarazione che bisognava consentire, perchè non s'era in
grado di resistere. Ed il Senato dovè cedere anch'esso; ma parve che
per un momento almeno l'antico spirito, l'antica energia romana si
ridestassero, e che il senatore Lampridio esprimesse il sentimento
comune, quando esclamò: _Non est ista pax, sed pactio servitutis!_
In verità Stilicone era un barbaro romanizzato. Dall'unione di questi
due elementi, che ne costituivano la personalità, scaturivano la sua
forza e la sua debolezza. Essi coesistevano nell'Impero, e fino a che
vi si tenevano in equilibrio, e potevano continuare l'uno accanto
all'altro, senza venire a conflitto, la personalità di Stilicone
rappresentava la società in cui egli si trovava. Di qui la sua forza.
L'idea di valersi dei Goti a vantaggio dell'Impero, poteva sembrare
una continuazione della politica di Teodosio, che a lui lo aveva
raccomandato, sperando che volesse e sapesse difenderlo. Una volta
però che dentro l'Impero fosse sorto il conflitto fra i due elementi
che lo costituivano, la personalità politica di Stilicone sarebbe
stata distrutta, ed egli avrebbe dovuto inevitabilmente soccombere.
Purtroppo il conflitto si poteva dire adesso già cominciato. Infatti
i Goti, anche dopo ottenuta la chiesta indennità, erano scontenti
e minacciavano. Lo sdegno del partito romano era salito al colmo, e
si accennava perciò a Stilicone come ad una vittima necessaria alla
salute dell'Impero. Nè mancava chi soffiava nel fuoco più che poteva,
e fra gli altri un ufficiale della guardia imperiale, di nome Olimpio.
A Ticino (Pavia) si trovavano allora le legioni romane, destinate,
a quanto pare, a ripigliare la guerra contro Costantino e contro i
barbari nella Gallia, dove tutto era in disordine. La colpa d'ogni
danno, d'ogni pericolo presente, veniva colà attribuita a Stilicone,
che si trovava a Bologna. — Egli, così dicevano, aveva voluto salvare
ad ogni costo i Goti; aveva lasciato indifeso il passaggio del Reno,
perchè altri barbari come lui inondassero l'Impero, ciò che pur troppo
era avvenuto. — Onorio allora si trovava appunto a Pavia, dove a un
tratto scoppiò un tumulto violento (408). La città andò a sacco; gli
amici di Stilicone furono messi a morte; e l'Imperatore, da nessuno
offeso, pareva uno spettatore indifferente, forse già prima consapevole
di ciò che ora avveniva.
Alla notizia della rivolta, Stilicone era per muovere subito da
Bologna, alla testa de' suoi soldati barbari, per difendere Onorio
e domare i ribelli. Ma quando seppe che questi non correva nessun
pericolo, che non dava neppur segno di disapprovare quello che sotto
i suoi occhi avveniva, non volle, egli generale dell'Impero, al quale
era affezionato, provocare una sanguinosa battaglia fra una parte
e l'altra dell'esercito. Questo fece scoppiare la rivolta anche
fra i suoi, pronti a difendere lui, ed a vendicare i compagni. Il
tumulto fu tale che la sua persona si trovò in grave pericolo, e fu
costretto a rifugiarsi a Ravenna, in una chiesa. Colà giunsero i messi
di Olimpio, che gl'intimarono d'arrendersi, giurando solennemente
d'avere ordine di prenderlo in custodia, salva la vita. Ma quando
poi, stando alla fede giurata, Stilicone s'arrese, dissero subito
che era sopravvenuto l'ordine di ucciderlo. Alcuni de' suoi, che lo
avevano colà accompagnato, si dimostrarono pronti a metter mano alle
armi, per difenderlo fino all'estremo. Ma esso aveva capito che ormai
tutto era inutile; e pensando, anche in quell'ultima ora, alla salute
dell'Impero più che alla sua propria, non volle, morendo, provocare
la guerra civile. E ordinò ai suoi di deporre le armi, dichiarando
d'essere deciso ad arrendersi. Il 23 agosto 408 sottomise tranquillo la
testa alla scure. Suo figlio fu ucciso in Roma, sua figlia Termanzia
venne dal palazzo imperiale rimandata alla madre Serena, cui era poco
dopo serbata, nella stessa Roma, un'assai trista fine. Molti degli
amici e parenti di Stilicone, sopra tutto i soldati barbari, vennero
perseguitati; le loro mogli e i loro figli uccisi. E quasi a coronare
l'opera nefasta, Onorio pubblicò un editto contro gli eretici, ai quali
vietava di far parte della milizia palatina, e si mostrò avversissimo
ai pagani, confiscando i beni dei loro tempii, ordinando la distruzione
dei loro altari.
La prima conseguenza di tutta questa disgraziata tragedia fu, che un
numero grandissimo di soldati barbarici, trentamila circa, così almeno
si dice, andarono ad ingrossare l'esercito di Alarico, il quale divenne
a un tratto più potente e minaccioso che mai. Ma che cosa poteva, che
cosa voleva egli fare adesso? Certo non sognava neppure di rovesciare
l'Impero o d'impadronirsene. Egli non se ne dichiarava neanche nemico.
Si trovava alla testa d'una moltitudine armata, che aveva bisogno di
vivere, e però voleva, insieme coi suoi, in un modo o l'altro, ma in
un modo riconosciuto e legale, far parte dell'Impero, pronto anche a
servirlo, a ricostituirne l'autorità contro i ribelli nella Gallia
o altrove, assumendo il grado di _Magister utriusque militiae_. Ma
quando ciò fosse avvenuto, l'Impero sarebbe rimasto in balìa de'
barbari, ed era quello appunto che Onorio non voleva consentire.
Figlio di Teodosio, per quanto debole e vacillante, esso sentiva, in
parte almeno, la dignità del suo grado, e pensava che, cedendo alle
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