Le invasioni barbariche in Italia - 01

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LE
INVASIONI BARBARICHE
IN
ITALIA

DI
PASQUALE VILLARI

CON TRE CARTE

ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
1901


PROPRIETÀ LETTERARIA
152-900. — Firenze, Tip. di S. Landi, Via Santa Caterina, 12


AL
PROF. ALBERTO DEL VECCHIO


PREFAZIONE

Il fine che mi sono proposto nello scrivere questo libro è assai
modesto, ma è anche assai difficile a raggiungere. Il lettore
giudicherà se sono riuscito. Io dirò solo in che modo sorse in me
l'idea di accingermi all'opera.
Non si può negare che dopo la costituzione del regno d'Italia molto
si è da noi progredito nello studio della storia. Ne sono una prova
il gran numero di _Archivi storici_, che si pubblicano in ogni
regione; le _Deputazioni e Società di Storia patria_, che sorgono per
tutto; la grande quantità di documenti, che ogni giorno vengono alla
luce; i progressi che han fatto la paleografia, la diplomatica, la
filologia classica e la neo-latina, la storia del diritto, il metodo
e l'erudizione storica in genere. Con tutto ciò libri che narrino gli
avvenimenti del passato in modo facile e piano, agevolmente leggibili,
i quali una volta erano assai numerosi in Italia, e servivano di
modello alle altre nazioni, vanno oggi divenendo fra noi sempre più
rari. Pure è certo che le ricerche d'archivio si fanno per poter sempre
meglio e più sicuramente scrivere le narrazioni destinate alla gran
maggioranza dei lettori.[1] Noi invece passiamo dai libri scolastici,
che si leggono a scuola, e poi si gettano via, ai libri d'erudizione,
che servono solo ai dotti di mestiere o, come oggi li chiamano,
specialisti.
È facile capire qual grave danno tutto ciò debba recare alla nostra
letteratura, alla nostra cultura; massime se si riflette, che la
storia in genere, e quella dell'Italia in ispecie dovrebbe essere
un mezzo non solo d'istruzione, ma anche di educazione nazionale,
contribuendo efficacemente a formare il carattere morale e politico
del nostro paese. Cesare Balbo, animato sempre di nobile patriottismo,
deplorò in tutta la sua vita che noi non avessimo una storia popolare
d'Italia, tale che tutti potessero leggerla con piacere e profitto.
Egli si provò più volte a scriverla, ma rimase come sgomento dinanzi
alle molte difficoltà che incontrava. Oggi, dopo la pubblicazione di
tanti nuovi documenti, dopo tante nuove e così sottili dispute, le
difficoltà sono cresciute piuttosto che scemare. Alcune di esse possono
dirsi intrinseche alla natura del soggetto; altre invece dobbiamo
riconoscerle conseguenza del nostro modo di trattarlo e dell'indirizzo
che abbiam preso nei nostri studi.
Arduo assai deve certo riuscire il narrare in modo facile e chiaro la
storia d'un paese che fu nel passato diviso in tanti Stati diversi,
ciascuno dei quali ebbe il suo proprio carattere, le sue proprie
vicende. Nel mezzogiorno abbiamo una monarchia feudale; nell'Italia
centrale lo Stato della Chiesa, con un governo che è diverso da ogni
altro, e la cui storia si collega con quella di tutta quanta l'Europa;
più al nord abbiamo la moltitudine infinita dei Comuni e delle
Signorie. Come, dove trovare un filo conduttore, che guidi chi scrive
e chi legge? Queste difficoltà, è ben vero, non s'incontrano solamente
in Italia; anche la Germania è stata sempre divisa e suddivisa. Nè
sarebbero difficoltà insuperabili, se noi stessi non le rendessimo per
colpa nostra anche maggiori; il che avviene in molti e diversi modi.
In tutte quante le nostre scuole, in tutte le nostre pubblicazioni
ci occupiamo oggi quasi esclusivamente di storia italiana. È divenuto
poco meno che impossibile il vedere fra di noi apparire un libro sulla
storia della Riforma, della Rivoluzione francese, della Germania,
dell'Inghilterra, della Spagna, delle nazioni estere in generale.
Ma la nostra storia è così strettamente connessa con quella di tutta
l'Europa, che senza studiar l'una non è possibile comprendere l'altra.
Chi infatti potrebbe mai intendere la storia italiana del Medio Evo,
senza quella della Germania, o indagare le origini prime del nostro
Risorgimento, senza occuparsi della Rivoluzione francese? Chi potrebbe
farsi un concetto chiaro della Contro-Riforma in Italia, senza aver
prima compreso la Riforma di Lutero? Ne segue perciò che, se questa
tendenza verso un'erudizione esclusiva ed unilaterale ci fa sempre
più diligentemente indagare ed esaminare i particolari problemi della
storia italiana, ci rende invece assai difficile comprenderne il
carattere generale, e valutare con giusto criterio la vera parte che
noi abbiamo avuta nella civiltà del mondo. Più di una volta ci tocca
infatti l'umiliazione di vedere gli stranieri scrivere sulla storia
dell'Italia antica, medioevale o moderna libri migliori dei nostri: e
da essi la nostra gioventù deve apprendere la storia del proprio paese.
Pur troppo questi libri, non ostante la molta dottrina ed il buon
metodo, sono scritti non di rado con uno spirito ostile all'Italia;
il patriottismo degli autori li spinge naturalmente ad esaltare la
loro patria a danno della nostra. E così ne segue che si diffondono
anche fra di noi sul carattere morale e politico degl'Italiani,
sull'intrinseco valore della nostra civiltà, della nostra letteratura
idee e giudizi poco esatti, che ci nocciono assai, facendoci perdere la
giusta coscienza di noi medesimi.
Non lieve ostacolo a scrivere una storia nazionale che, pur essendo
patriottica e popolare, sia imparziale, viene anche dalle relazioni
in cui l'Italia si trova colla Chiesa. Noi abbiamo scrittori guelfi
e scrittori ghibellini: i primi vorrebbero sempre lodare i Papi,
giustificando tutto quello che fecero; i secondi vorrebbero invece
sempre biasimarli, cercando di porre in ombra la parte, certo
grandissima, che ebbero nella storia del nostro paese. A questo
s'aggiunga l'abbandono in cui sono fra di noi gli studi religiosi, la
storia della teologia e del Cristianesimo. E come si può senza di essi
comprendere la storia d'un popolo, che ha fondato la Chiesa cattolica,
d'un popolo la cui vita religiosa fu così intensa, così strettamente
unita con la sua vita politica, letteraria, artistica e civile?
Pensando e ripensando a tutto ciò, mi parve che dovesse in Italia
riuscire assai utile una collezione di volumi, che trattassero
separatamente, in modo popolare, i vari periodi della storia d'Italia,
sotto i suoi molteplici aspetti, e con essa anche la storia dei vari
popoli civili. Di siffatte collezioni ogni regione d'Europa e gli
Stati Uniti d'America ne hanno oggi parecchie; perchè non potremmo, non
dovremmo noi averne almeno una? Mi decisi quindi a farne la proposta
all'egregio editore comm. Hoepli, che l'accolse con favore, e si pose
all'opera.
Due volumi sono già venuti alla luce. Il primo è una nuova edizione
del ben noto libro del conte Balzani sulle cronache italiane, da lui
riveduto e corretto. Il secondo è una storia del nostro risorgimento
pubblicata dal prof. Orsi del Liceo M. Foscarini di Venezia. Altri tre
volumi non tarderanno molto, io spero, a veder la luce. Uno, già quasi
compiuto, è del prof. Errera, dell'Istituto Tecnico di Torino, sulla
storia delle scoperte geografiche. Il prof. Salvèmini del Liceo Galileo
di Firenze, ed il prof. Brizzolara dell'Istituto Tecnico di Reggio
Calabria scrivono sulla storia moderna dell'Europa. Altri volumi sono
in preparazione.
E per contribuire anch'io, come meglio posso, all'opera comune,
pubblico ora questo primo volume di storia italiana, nel quale
mi occupo delle invasioni barbariche. Non è un libro erudito, nè
scolastico, e neppure di storia generale e filosofica, come il _Sacro
Romano Impero_ del Bryce, o le _Rivoluzioni d'Italia_ del Quinet. I
fatti debbono qui essere narrati nella loro cronologica successione
e logica connessione, senza discutere o dissertare, e, per quanto
è possibile, senza annoiare. Mi sono, com'è naturale, servito delle
opere recentemente pubblicate, come quelle del Bury, del Malfatti, del
Bertolini, del Dahn, del Mühlbacher, dell'Hartmann,[2] e più di tutte
di quella dell'Hodgkin. Non ho trascurato alcuni autori più antichi
come il Gibbon, il Tillemont ed il Muratori, che non invecchia mai;
nè ho tralasciato di ricorrere alle fonti. Ma le citazioni, salvo casi
eccezionali, sono di regola escluse. Credevo dapprima che lo scrivere
questo piccolo volume, che si occupa d'un periodo solo della storia
d'Italia, quando questa non era anche divisa e suddivisa, dovesse
riuscirmi comparativamente agevole; ma ho dovuto pur troppo accorgermi
che anch'esso era, per me almeno, assai difficile. Non mi sono però
mancati aiuti e consigli preziosi di due dotti colleghi e carissimi
amici, i professori Achille Coen ed Alberto Del Vecchio, ai quali mi è
grato manifestar pubblicamente la mia vivissima riconoscenza. Nè posso
dimenticare il giovane e valoroso professor Luiso, che volle aiutarmi
rivedendo le bozze di stampa.
Se questi primi volumi incontreranno il favore del pubblico; se
esso vorrà essere indulgente verso le imperfezioni inevitabili in
un'impresa, che fra di noi può dirsi nuova; e se non ci verrà meno la
cooperazione degli studiosi, noi crediamo che la nostra collezione
potrà riuscire utile alla cultura del paese, ed agevolare non poco
la via a scrivere sempre meglio quella storia nazionale e popolare
d'Italia, tanto desiderata e tanto desiderabile. Siamo in ogni modo
persuasi, che una raccolta quale noi l'abbiamo ideata è oggi non solo
utile, ma anche necessaria al nostro paese più che ad ogni altro. E
crediamo che, quando pure fossimo condannati a non riuscire, l'impresa
verrebbe assunta da altri più fortunati di noi, perchè risponde ad
un vero bisogno dell'ora presente. Il materiale storico che si è
raccolto, e va ogni giorno più aumentando, è immenso; nè deve rimanere
il privilegio e la proprietà di pochi dotti, ma deve essere coordinato
e reso accessibile a tutti. Solo così potremo riuscire ad infondere nel
paese la coscienza di ciò che esso fu ed è veramente, la cognizione
sicura della parte che l'Italia ebbe, di quella che può e deve oggi
avere nella storia e nella civiltà del mondo.


LE INVASIONI BARBARICHE IN ITALIA


LIBRO PRIMO
DALLA DECADENZA DELL'IMPERO ROMANO FINO AD ODOACRE


CAPITOLO I
La caduta dell'Impero

Perchè cadde l'Impero Romano? La risposta che subito si presenta
è questa: i Romani eran corrotti e dalla corruzione infiacchiti;
i barbari, più rozzi, erano anche più morali e più forti. Quando
passarono il Reno e il Danubio, la vittoria non poteva essere dubbia;
l'Impero doveva crollare, una società nuova doveva formarsi. Ma perchè
mai si corruppe e s'infiacchì un popolo, che per tanti secoli era
stato l'esempio della disciplina, della virtù e della forza; che aveva
saputo conquistare il mondo? La corruzione non era la causa, era la
conseguenza, il primo segno della decadenza già cominciata. L'Impero,
che Tito Livio già vedeva piegarsi sotto il peso della sua stessa
grandezza, non poteva durare eterno.
Esso aveva formato l'unità civile e morale del mondo antico, la quale
era stata necessario apparecchio alla costituzione delle nazionalità.
Per vivere e prosperare, queste hanno infatti bisogno di essere in
relazione fra di loro, di sentirsi come parti diverse d'una stessa
famiglia. Ma il loro sorgere rendeva impossibile l'esistenza del mondo
antico, il quale riconosceva l'assoluto predominio d'una civiltà sola,
al di fuori della quale tutti erano barbari. Se perciò da una parte, e
vista da lontano, la caduta dell'Impero ci apparisce come qualche cosa
d'inaspettato e straordinario; da un'altra reca maraviglia invece la
sua lunga durata. Sotto una forma o l'altra, noi lo vediamo infatti
sopravvivere a sè stesso in tutto il Medio Evo. E più tardi ancora
tenta, sebbene invano, di rinascere dalla tomba, prima con Carlo V,
poi con Napoleone I. Il vero è che l'unità dell'Europa e la diversità
dei popoli che l'abitano sono due fatti innegabili del pari, dai quali
risultano le vicende della storia moderna.
Roma era stata una città, un municipio, che aveva cominciato col
conquistare e romanizzare le popolazioni vicine, con esse l'Italia,
con l'Italia quasi tutto il mondo allora conosciuto. Ma il dominio
d'una città sola sopra un così vasto territorio, sopra genti così
diverse, imponendo a tutte lo stesso governo, la stessa legislazione,
la stessa lingua ufficiale, doveva, con l'estendersi, incontrare
difficoltà sempre maggiori. Era stato comparativamente facile
assimilare le popolazioni romane; ma l'Africa, la Spagna, la Rezia, la
Gallia resistettero invece sempre più ostinatamente. E una difficoltà
nuova s'incontrò nell'Asia Minore e nella Grecia, dove per la prima
volta i Romani trovarono una civiltà superiore alla loro. Conquistato
colle armi il paese, furono essi conquistati dalla cultura greca, cui
dovettero assimilare la propria, per diffonderle ambedue nel mondo. E
così, quando l'Impero fu giunto al Reno ed al Danubio, esso non aveva
più nessuna vera unità intrinseca, corrispondente a ciò che di fuori
appariva. Non era uno Stato, non era una nazione; era un amalgama di
popoli diversi, uniti insieme dalla forza, e sottomessi alla stessa
civiltà. Al di là dei confini c'era un paese vastissimo, abitato da
popolazioni bellicose e barbare, che s'avanzavano minacciose come un
fiume che straripa.
Da un tale stato di cose, la società romana fu profondamente turbata. E
prima di tutto ne fu alterata la costituzione stessa dell'esercito, che
era stato lo strumento principale della conquista e della fondazione
dell'Impero. Una volta, così osservava giustamente il Gibbon, gli
eserciti della Repubblica erano formati di proprietari e coltivatori
del suolo, i quali pigliavano parte alle assemblee, votavano le leggi
di Roma, e la difendevano colle armi. Il benessere della patria era
immedesimato col proprio. Una battaglia vinta era la loro fortuna, una
battaglia perduta era la loro rovina personale. Tutti gl'interessi
morali e materiali, consacrati dalla religione, si univano a fare
di essi cittadini e soldati eroici, che dopo la guerra tornavano
tranquilli e modesti ai loro campi. Chi potrebbe mai supporre che gli
abitanti della Rezia, della Spagna, della costa africana potessero
combattere con lo stesso ardore, con la stessa fede, per difendere
una potenza alla quale si sentivano spesso estranei o avversi? Questi
eserciti mandati a difendere confini sempre più estesi, più lontani e
continuamente assaliti, divennero di necessità eserciti stanziali. Chi
era chiamato a farne parte, abbandonava il luogo nativo, i campi, se
ne aveva, i quali perciò spesso restavano incolti, e rimaneva sotto
le bandiere, in paese straniero, fino a che gli bastavano le forze.
Di qui il bisogno sempre maggiore e le difficoltà sempre crescenti di
trovar nuove reclute, che bisognava allettare con nuovi privilegi,
con paghe maggiori. E quindi l'uso d'accogliere sotto le bandiere
perfino gli schiavi, ma sopra tutto i barbari, che ben presto formarono
la parte maggiore degli eserciti romani. La guerra divenne così un
mestiere, e la forza delle armi risiedeva più nella disciplina che nel
patriottismo. Pure tale era la potenza di questa disciplina, tale il
fascino maraviglioso che il nome sacro di Roma e dell'Impero esercitava
sugli animi, che di elementi così diversi si riuscì a formare un
esercito formidabile, il quale, per più secoli ancora, continuò ad
operare miracoli.
A mantenere questo esercito numeroso e lontano occorrevano spese
enormi. Era perciò necessario d'aggravare il paese di tasse. A poco a
poco l'occupazione continua della Curia e dei Decurioni nei Municipi
si ridusse a cavar denari da popolazioni già dissanguate. Costretti
ad essere responsabili di ciò che occorreva, anche se i contribuenti
non potevano pagarlo, il loro ufficio, una volta ambito come un onore,
divenne un peso da cui ognuno cercava liberarsi, perfino con la fuga,
con l'esilio volontario. E così anche qui l'interesse privato, che in
altri tempi era immedesimato col pubblico, si trovava ora con esso a
conflitto: principio inevitabile di debolezza e di decadenza morale in
tutte le società.
Le continue guerre andarono sempre più aumentando il numero degli
schiavi. I capi degli eserciti avevano accumulato enormi fortune, al
pari dei fornitori di esso, e dei governatori delle province. I ricchi
divenivano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, e l'usura
li riduceva alla miseria. Questi finivano allora col mettersi alla
dipendenza dei vasti possessori di terre, sotto forma di coloni più
o meno attaccati alla gleba, pagando un affitto sulle terre che erano
state già loro proprietà. Ne nacque una vera questione agraria-sociale,
causa non ultima delle guerre civili e della totale decadenza. La
classe media fu distrutta, e si formò quella dei latifondisti, che
furono possessori di più diecine di migliaia di schiavi, di trenta,
di quaranta miglia quadrate di terre, quasi d'intiere province. Il
latifondo, che di sua natura tende ad ingrandirsi, aggregandosi le
terre vicine, porta seco la cultura estensiva dei campi, esaurisce la
fertilità del suolo, e ne diminuisce il prodotto. Così l'Italia non
bastò più a se stessa, al suo esercito, anche il grano della Sicilia
essendo scemato. E cominciò a dipendere dall'Africa, senza il cui aiuto
correva pericolo d'essere affamata.
Tutto il vasto territorio dell'Impero era disseminato d'un gran numero
di città, molte delle quali, colonie civili o militari. Queste città
erano ordinate a similitudine della capitale, colle loro assemblee,
coi loro magistrati, le scuole, i tempii, i bagni, gli acquedotti, le
caserme, gli anfiteatri. Esse erano congiunte tra di loro da una rete
di strade, che è fra le opere più maravigliose di tutta l'antichità.
Partendo dal Foro Romano, in mille direzioni diverse, arrivavano ai
confini. Ad ogni cinque o sei miglia si trovava un numero sufficiente
di cavalli, per tenere fra loro in pronta comunicazione tutte le parti
dell'Impero. La campagna affatto deserta, sparsa qua e là di ville o
masserie, era coltivata da schiavi e coloni, che non differivano molto
fra di loro. La sera si riducevano nelle città o nelle ville. Anche
l'industria, assai limitata, era affidata agli schiavi, che arrivarono
ad un numero sterminato. Il Gibbon afferma che ai tempi di Claudio
la popolazione dell'Impero contava 120 milioni, dei quali 60 erano
schiavi. Ma anche senza dar piena fede a queste cifre, è certo che più
d'una volta le ribellioni degli schiavi condussero l'Impero all'orlo
dell'abisso.
Alla testa d'una tale società si trovava un sovrano con assoluto
potere, e sotto di lui spadroneggiavano l'esercito ed i latifondisti.
L'esercito volle ben presto fare e disfare, o almeno approvare esso
gl'imperatori, dividendosi qualche volta in partiti, e proclamandone
più d'uno nel medesimo tempo; il che fu causa di assai gravi e spesso
sanguinosi conflitti. I latifondisti avevano i più alti uffici dello
Stato, divenuti ereditari nelle loro famiglie, e si trovavano alla
testa d'una numerosa burocrazia. Abitavano nelle città insieme con una
plebe di nullatenenti oziosi, alla quale, perchè non tumultuasse, era
necessario far larghe e continue distribuzioni di grano, allettandola
con spettacoli e giuochi: _panem et circenses_. Se a tutto ciò
s'aggiunge che in una società così vasta, divisa e disorganizzata,
quegli stessi barbari che la minacciavano al confine, erano già in
maggioranza fra gli schiavi e nell'esercito, si capirà facilmente che
ormai non c'era più forza umana che potesse evitare una spaventosa
catastrofe.
A tutte queste cause civili, militari, economiche di divisione
e debolezza, s'aggiungeva non ultima la questione religiosa. Il
Cristianesimo s'avanzava trionfante dall'Oriente, annunziando il
principio di una nuova rivelazione, d'una nuova vita morale. La
sua teologia nasceva, è vero, dall'innesto della filosofia greca
col Vangelo; ma esso mirava alla distruzione del Paganesimo, su cui
l'Impero era fondato. Il monoteismo era la negazione del politeismo; la
rivelazione non s'accordava con la filosofia antica. Il Cristianesimo
condannava la forza e la violenza, proclamava tutti gli uomini, tutti
i popoli uguali innanzi a Dio, e l'Impero aveva, colla forza e colla
violenza, sottomesso tutti i popoli a Roma. Il Cristianesimo inoltre
sottoponeva la Città terrena e degli uomini alla Città celeste e di
Dio. Per esso la vita sociale in questo mondo aveva valore solo come
apparecchio alla vita d'oltre tomba. La società, la patria, la gloria,
tutto ciò per cui Roma era stata grande, per cui aveva vissuto, che
più aveva ammirato, perdeva il suo valore. E così non si trattava
solo di sostituire una religione ad un'altra; si trattava di demolire
i principii fondamentali di una filosofia, di una letteratura, di
una civiltà intera, di tutto un mondo morale, per sostituirvene un
altro. È facile immaginarsi qual profondo sovvertimento tutto ciò
dovesse portare nell'animo dei Romani, quali profonde ferite vi
dovesse lasciare. E si capiscono perciò le feroci persecuzioni, più
crudeli che mai da parte dei migliori e più convinti imperatori. Ma
il sangue dei martiri sembrava solo innaffiare la nuova pianta, per
farla crescere più rigogliosa. Tutti gli oppressi accoglievano con
ardore la nuova fede, che valendosi delle vecchie istituzioni romane,
fondava una Chiesa universale, la quale s'impadroniva rapidamente di
tutta la società. Abbatteva gli antichi altari, per costruirne dei
nuovi; trasformava gli antichi tempii; fondava ospedali, istituti di
beneficenza, scuole, che erano tante fortezze destinate a demolire
sempre più la vecchia società. La caduta dell'Impero non spaventava
punto i Cristiani, perchè menava seco la caduta del Paganesimo. La
stessa venuta dei barbari, la più parte già convertiti, appariva loro
come provvidenziale, perchè destinata a punire quelli che ancora
adoravano gli Dei falsi e bugiardi, che tenevano sempre aperto il
tempio di Giano.
Che tutto ciò portasse un profondo disordine morale, che gli
uomini dell'antica società si abbandonassero allo scetticismo, alla
disperazione, ai vizi più bassi ed osceni, non è da far maraviglia. Ma
pur grande veramente doveva esser sempre la vitalità dell'Impero, se
potè continuare a resistere più secoli, respingendo l'un dopo l'altro
i ripetuti assalti delle numerose orde barbariche. Di questa sua
vitalità, non solo materiale ma anche morale, fu prova la diffusione
e la importanza in esso assunta dalla filosofia stoica, che venne di
Grecia, ma ebbe in Roma un suo proprio carattere pratico, col quale
tentò assumere la direzione della vita, pigliando quasi il posto
della religione. Difficilmente nella storia del mondo si troverebbe
un tentativo più nobile, più eroico e più disperato ad un tempo,
di quello fatto dagli stoici. In mezzo alla unione forzata di tanti
popoli, alla fusione e confusione di tante religioni, di tante forme
diverse del Paganesimo, che crollava da ogni lato, essi cercarono di
rinnovarlo e salvarlo dagli assalti vittoriosi del Cristianesimo,
fondandosi sul concetto, sul culto della più pura, disinteressata
virtù. Rinunziando alla speranza d'una vita futura, ad ogni ricompensa
in questo o nell'altro mondo, disprezzando la gloria presso i posteri,
non curando la opinione dei contemporanei, raccomandavano la virtù come
fine a sè stessa, scopo unico della vita, come quella che trovava in sè
ogni compenso, sgorgava spontanea, irresistibile dal cuore dell'uomo.
La serena tranquillità con cui gli stoici affrontavano la morte, per
difendere la giustizia, parve un momento divenir contagiosa, quasi
volessero con una nuova serie d'eroi rinnovar la gloria dell'antica
Roma. Ma pur troppo non era che un tentativo filosofico, il quale non
poteva esser che l'opera di pochi spiriti eletti. Non era sperabile
che penetrasse nelle moltitudini e le esaltasse, come faceva il
Cristianesimo, che parlava a tutti e di tutti s'impadroniva. Pure
fu come un baleno, che per breve tempo illuminò di luce vivissima
l'Impero, e che più tardi sembrò ripetersi novamente colla diffusione
del Neoplatonismo, predicato da Plotino e da Porfirio.
Marco Aurelio fu la vivente e più splendida personificazione dello
Stoicismo, il quale salì con lui sul trono imperiale. Indifferente
alla gloria, disprezzatore d'ogni materiale ed appariscente grandezza,
amico della giustizia e della virtù, era nemico della guerra. Ma
quando i confini dell'Impero furono minacciati dai Marcomanni, che
insieme con altri barbari avevano passato il Danubio, egli assunse
il comando dell'esercito, e combattendo fino alla morte con valore di
gran capitano, li respinse e disfece. Nè durante il conflitto tralasciò
le sue meditazioni filosofiche; ma ritirandosi la sera nella tenda,
continuava a scrivere quei _Pensieri_ che rimasero immortali. «Nessuno,
dice il Renan, scrisse mai con uguale semplicità, per solo suo uso,
senza volere altri testimoni che Dio. Il suo pensiero morale, puro,
libero da ogni legame sistematico o dommatico, si sollevò ad un'altezza
che non fu mai superata. Ed il suo libro, il più puramente umano che
sia stato mai scritto, visse d'una eterna giovinezza.» Nè egli fu
il solo dei veramente grandi Imperatori. Dalla morte di Domiziano
all'ascensione di Commodo al trono (96-180 d. C.), noi troviamo, con
Nerva, Traiano e i due Antonini, una serie di sovrani che rappresentano
la giustizia, la sapienza e la virtù chiamate a governare il mondo. Il
Machiavelli, repubblicano, aspro nemico di Cesare, esaltato lodatore
di Bruto, è pieno della più entusiastica ammirazione per quel periodo
dell'Impero. Il Gibbon afferma, che se gli fosse chiesto, in qual tempo
mai, durante tutta la storia del mondo, il genere umano fu più felice,
non saprebbe indicarne un altro. Ma egli, che qui appunto sorvola più
che mai sulle crudeli persecuzioni dei Cristiani, per parte d'alcuni
di questi medesimi imperatori, è pur costretto ad aggiungere, che tutto
dipendeva allora dalla volontà d'un uomo solo e dall'esercito. Infatti
prima e dopo di tali imperatori, ve ne furon dei pessimi. E subito le
forze disorganizzatrici, che solo per breve tempo poterono rimanere
latenti, si scatenarono, portando alla superficie quella corruzione e
decomposizione sociale, che non poteva più essere fermata, e che doveva
inesorabilmente aprire la via ai barbari.


CAPITOLO II
I Barbari

L'assalto improvviso che nel 114 a. C. dettero i Cimbri, i quali
si avanzarono con un impeto inaspettato, disfacendo ripetutamente i
Romani, aprì a questi la prima volta gli occhi sul pericolo che li
minacciava dalla Germania. C. Mario, è vero, in due grandi battaglie
(102 e 101 a. C.), li disfece compiutamente, e per circa mezzo secolo
i confini rimasero tranquilli. Ma Giulio Cesare, dopo molte vittorie,
si trovò anch'esso di fronte ad un esercito germanico, comandato da
Ariovisto che, passato il Reno, era penetrato nella Gallia, combattendo
valorosamente. Cesare lo disfece e lo inseguì al di là del fiume. Ma
ivi trovò come un mondo nuovo: un popolo numeroso, bellicoso e quasi
nomade; una società in tutto profondamente diversa dalla romana;
un clima assai rigido; un suolo pieno di paludi e di boschi, senza
possibilità di approvvigionamenti, infesto all'avanzarsi d'un esercito
romano. Col suo sguardo penetrante, col suo grande senno pratico, capì
subito, che non era il caso di pensare ad una stabile conquista, molto
meno a romanizzare quelle genti, e si ritirò novamente al di qua del
Reno.
Dopo la sua morte, i Romani non imitarono la prudenza del valoroso
capitano. Ripassarono il Reno, penetrarono nel cuore della Germania;
vi portarono le loro leggi, la loro amministrazione, le loro tasse. E
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