Le invasioni barbariche in Italia - 03

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colla massima facilità si univano e si separavano, per riunirsi di
nuovo. Quando una _Civitas_ era vinta e decomposta nei suoi _Pagi_,
questi facilmente si reggevano da sè soli, o si fondevano con quelli di
un'altra, senza perciò sentirsi punto sgomenti. L'individuo, che per
la distruzione del villaggio o del gruppo cui apparteneva, si fosse
trovato isolato e abbandonato, usato com'era nella foresta, a contare
sopra tutto sulla forza del suo braccio e sul suo coraggio personale,
non provava nessuno sgomento, si univa facilmente a quelli che prima
incontrava. Tutto questo fece assai spesso credere ai barbari, e fece
a molti ripetere poi, che dinanzi ad essi i Romani si spaventavano
e tremavano come donne. E ciò, sebbene questi li avessero poco prima
disfatti, ed ogni volta che riuscivano a riannodare le fila spezzate,
tornassero a vincerli ed a metterli in precipitosa fuga.
Così fu che per circa due secoli e mezzo l'Impero dovè non solo
respingere i continui assalti parziali d'oltre Reno e d'oltre Danubio;
ma più di una volta si trovò di fronte a formidabili eserciti di
barbari confederati, che penetrarono dentro l'Impero, e resero
necessarie a salvarlo battaglie addirittura gigantesche. Una di queste
fu quella da noi già ricordata, combattuta da Marco Aurelio. A un
tratto, non si sa come nè perchè, forse cacciate da altre genti, si
videro le popolazioni germaniche avanzarsi, riunite in una immensa
moltitudine, nella quale primeggiavano i Marcomanni ed i Quadi.
Penetrarono nella Dacia, passarono il Danubio, invasero l'Impero, e
per la prima volta il sacro suolo d'Italia venne toccato dal piede di
soldati germanici (167 d. C.). Fu allora che Marco Aurelio, abbandonati
i suoi studi, assunse il comando dell'esercito, e conducendosi da gran
capitano, in una serie di battaglie fortunate, respinse il nemico
al di là del confine, e combattè sino alla sua morte, seguita il 17
marzo 180. Ma in quella lunga e gloriosa lotta, si vide che le forze
dell'Impero cominciavano ad esaurirsi. Era stato necessario combattere
i barbari con altri barbari, ed alcuni di essi si erano anche dovuti
accogliere dentro i confini, esempio pericoloso che più tardi riuscì
funesto. Tuttavia si potè continuare per un secolo ancora a vivere
abbastanza tranquilli, fino a che gli stessi eventi, ripetendosi in
proporzioni sempre maggiori, portarono finalmente conseguenze assai più
gravi.
Infatti un'altra di queste grandi battaglie si dovè dare contro i Goti,
sui quali dobbiamo ora un istante fermarci, perchè furono essi che
dettero più tardi il colpo mortale all'Impero. Una opinione largamente
diffusa, li fa venire dalla Scandinavia, di dove, per ragioni a noi
ignote, si sarebbero avanzati verso il sud. A tempo degli Antonini
li troviamo nella Prussia orientale, alla bocca della Vistola; circa
la metà del terzo secolo erano nella Russia meridionale, verso il
Mar Nero, insieme coi Gepidi, divisi in Ostrogoti e Visigoti, cioè
Goti orientali ed occidentali. Questa derivazione dalla Scandinavia e
questo lungo cammino verso il sud è messo in dubbio da altri scrittori,
i quali ritengono invece che i Goti siano addirittura popolazioni
germaniche orientali, e più che un popolo, un amalgama di genti
diverse, le quali si distesero al nord ed al sud, avanzandosi poi verso
l'occidente. Alcuni li fecero derivare dai Geti, coi quali vorrebbero
confonderli. Sono però questioni difficili a risolversi con certezza,
anche perchè nel Medio Evo il nome di Goti si dava a genti assai
diverse.
Comunque sia di ciò, dalla Russia meridionale, avanzandosi verso
occidente, cominciarono ad assalire i confini dell'Impero, che,
come dicemmo, erano, sin da quando s'era fatta l'annessione della
Dacia, divenuti da questo lato assai più deboli. E dopo molti assalti
sanguinosi, si mossero finalmente nel 268, con un formidabile esercito,
ad una vera e propria invasione, menando seco le donne ed i vecchi.
Trovarono però anche questa volta virile resistenza nelle legioni
romane, comandate dall'imperatore Claudio. Questi scriveva al Senato
che, nonostante il disordine in cui i suoi predecessori avevano
lasciato l'Impero, nonostante la mancanza d'armi e d'ogni cosa più
necessaria, s'avanzava per difenderlo contro un esercito di 320,000
Goti, che avevano già passato il confine, deciso a vincere o morire.
Un sì gran numero di armati è probabilmente esagerato, essendovi forse
compresi anche i non combattenti. E così pure deve ritenersi esagerato
il numero di 6000 navi, che alcuni danno ai Goti, e che altri riducono
a sole 2000. In ogni modo, trattavasi d'una invasione, di cui non s'era
mai vista l'uguale, e che pure in due grandi battaglie (268 e 269)
fu vinta e respinta da Claudio. La prima ebbe luogo a Naissus, nella
Serbia, e fu d'incerto resultato. Pure coloro stessi che la dissero
perduta dai Romani, ammisero che vi perirono 50,000 Goti. Nella seconda
battaglia questi furono dalla cavalleria romana chiusi nei Balcani, ove
dalla fame, dalla peste e dal ferro vennero quasi totalmente distrutti.
Dei sopravvissuti una parte si salvò colla fuga, altri rimasero
prigionieri o schiavi addirittura, altri accettarono di servire nelle
legioni romane. Molta fu la preda, e così grande in essa il numero
delle donne, che ogni soldato romano ne ebbe due o tre per sua parte.
Il che viene a confermare sempre più, che si trattava non d'un esercito
solamente, ma d'una vera e propria invasione. Claudio allora scriveva
di nuovo al Senato, dicendo: — Ho disfatto un esercito di 320,000 Goti,
ho mandato a picco 2000 delle loro navi. — E per questi fatti egli ebbe
il soprannome di _Gotico_. Ma il gran numero di cadaveri fece scoppiare
una peste crudelissima, che uccise anche lui, il quale così potè dirsi
vittima della sua stessa vittoria.
Questa vittoria era certamente una prova novella della forza ancora
grandissima dell'Impero. Ma quello che nello stesso tempo dimostrava
le forze inesauribili dei barbari, si fu il vedere che, dopo perdite
così enormi, essi continuarono i loro assalti senza interruzione.
È chiaro che le perdite erano subito risarcite da altre e diverse
genti, le quali da ogni parte sopravvenivano. L'imperatore Aureliano
(270-75), che successe a Claudio, ed era buon soldato, non meno che
accorto politico, dopo avere valorosamente resistito, finì col venire
ad un accordo, cedendo spontaneamente ai Goti la Dacia, a patto che
non avrebbero passato il Danubio. E così si abbandonava ai barbari
una provincia fertile, in gran parte già romanizzata, dalla quale
moltissimi de' suoi abitanti dovettero emigrare. Si restringevano però,
secondo i consigli di Augusto, i confini dell'Impero alla linea più
sicura del Danubio. Di ciò infatti Aureliano venne generalmente lodato;
e vi fu coi Goti quasi un altro secolo di pace relativa, interrotta
solo da tre guerre, mosse a tempo di Costantino, nelle quali essi
furono sempre respinti, l'ultima volta con la perdita, si dice, di
100,000 uomini, morti di fame, di freddo e di ferro. Tuttavia questa
linea del Danubio, da lungo tempo indifesa, rimaneva ora il lato più
vulnerabile dell'Impero. I Goti si trovavano nella Dacia in grandissimo
numero, e andavano aumentando pel continuo sopravvenire di nuove
genti. E ciò, quando era andato sempre crescendo il numero dei barbari
che facevan parte di quell'esercito, che doveva contro altri barbari
difendere il Danubio.


CAPITOLO III
La riforma dell'Impero — Diocleziano e Costantino — L'agitazione
religiosa — Ariani ed Atanasiani — Neoplatonismo — Giuliano l'apostata
— Il vescovo Ulfila, e la conversione dei Goti

I pericoli continui a cui l'Impero si trovava esposto, avevano
fatto più volte sentire la necessità d'una riforma, la quale fu
infatti condotta a compimento da Diocleziano (284-305) e Costantino
(323-337). Primo suo scopo era il bisogno di dare una maggiore
unità amministrativa e militare, concentrando il potere nelle mani
dell'Imperatore, facendone un vero autocrata, conferendogli anche
un carattere sacro e religioso. A rendere più agevole l'opera del
governo, sopra tutto ad evitare i continui pericoli delle tumultuose
successioni, Diocleziano s'era associato, col titolo di Augusto,
Massimiano; poi altri due, Costanzo e Galeno, col titolo di Cesari.
La divisione del governo non portava quella dell'Impero, che restava
sempre affidato alla suprema sua direzione. Ogni volta che uno dei
quattro governanti moriva, i tre superstiti dovevano eleggere il
successore, e così si sperava di evitare le scosse ed agitazioni
continue. Ma questa parte della riforma fallì interamente allo scopo.
Infatti, dopo l'abdicazione di Diocleziano, l'Impero cadde, per circa
venti anni (305-323), in preda a continui tumulti, fino a che non
successe, unico imperatore, Costantino, il quale condusse a compimento
la parte veramente utile e necessaria delle riforme di Diocleziano.
L'Impero venne diviso in quattro Prefetture dell'Italia, della Gallia,
dell'Illirico, dell'Oriente. Il potere civile fu nettamente diviso
dal militare, e procederono parallelamente, emanando però ambedue
dall'Imperatore, capo supremo, che circondato dai suoi ministri,
comandava ad ognuno. I Prefetti del Pretorio, abbandonato del tutto
quel potere militare che avevano avuto in passato, furono messi, coi
poteri esclusivamente civili, alla testa delle Prefetture, divise in
Diocesi sotto i Vicari, e queste in Province sotto i Presidi, Consolari
o Correttori. Seguiva poi una lunga serie di minori ufficiali,
che si distendevan su tutto l'Impero, con attribuzioni e gerarchie
minutamente, precisamente determinate, per meglio amministrare, e
sopra tutto più rapidamente riscuotere le tasse. Lo stesso fu fatto
nell'esercito coi suoi _Magistri militum_ (_peditum et equitum_),
sotto cui erano i _Duces_, i _Comites_, discendendo con pari ordine
sino ai gradi ultimi. Questa riforma prolungò senza dubbio la vita
dell'Impero, dandogli maggiore ordine, unità e disciplina, rafforzando
l'esercito. Ma essa aumentò anche le tasse e le vessazioni del fisco
nel riscuoterle; sottopose l'Impero ad una vasta rete burocratica, con
le inevitabili e dannose conseguenze, che non tardarono molto a farsi
sentire. Roma, col suo Senato, il quale conservava parte dell'antico
splendore, non però l'antico potere, ebbe un suo proprio Prefetto
(_Praefectus Urbi_). Essa e l'Italia furono ridotte alla condizione
di province, sottomesse non solo al governo, ma anche alla tassa
provinciale sui terreni. Già da un pezzo Roma era solo di nome capitale
dell'Impero. Infatti Diocleziano ed i suoi tre colleghi risiedevano
a Nicomedia, presso il Mar Nero; a Sirmio, non lungi da Belgrado; a
Treveri, a Milano. Il vero è che la necessità di difendere la linea
del Reno, del Danubio, ed anche dell'Eufrate, a cagione della continua
guerra persiana, spostava da un pezzo verso l'oriente il centro di
gravità dell'Impero, come si vide adesso anche più chiaramente.
Costantino, lo abbiamo già detto, condusse a compimento la riforma di
Diocleziano. Ma sotto questo Imperatore vi fu una dura persecuzione dei
Cristiani, e Costantino invece, riconoscendo la forza irresistibile
della nuova religione, l'adottò solennemente, sperando con essa di
rafforzare l'Impero. L'altro fatto che, nella sua vita, ebbe una
grande importanza storica, fu il trasferimento della capitale da Roma
a Bisanzio, sul Bosforo. La scelta della nuova capitale, che da lui
ebbe il nome di Costantinopoli, fu assai felice. Essa era non solo
più vicina al Danubio, ed un centro commerciale di primissimo ordine,
che poteva essere facilmente approvvigionato dall'Egitto; ma era anche
strategicamente come una fortezza resa inespugnabile dalla natura. E
ciò fu provato dalla resistenza che per molti secoli potè fare contro
innumerevoli nemici, mentre che Roma veniva invece di continuo presa e
saccheggiata.
Le conseguenze di tutto ciò furono molteplici. Roma e l'Italia si
sentirono come abbandonate, lasciate fuori della vita politica.
L'unione del Cristianesimo coll'Impero, ambedue di carattere
universale, faceva naturalmente sorgere il concetto d'una Chiesa
universale, la quale infatti s'andò subito formando e modellando
sulle istituzioni stesse dell'Impero. Ricordando il suo passato, ora
che cessava d'essere la capitale politica, Roma si sentiva spinta a
divenire la capitale religiosa del mondo. Il suo vescovo volle essere
non solo il successore di S. Pietro; ma anche di Romolo e di Remo, di
Cesare e di Augusto, formando un impero religioso non meno vasto, non
meno potente e più solido di quello politico, che ormai minacciava
rovina. Ed in ciò era mirabilmente secondato dalle popolazioni
italiane, nelle quali la vita religiosa cominciò a manifestare
un'attività, che fra poco doveva divenire così febbrile, così generale
da confondersi con la vita stessa di tutta la nazione. Se non che
l'imperatore Costantino, che era alla testa dell'Impero, cominciato
con lui a divenir cristiano, voleva porsi anche alla testa della
Chiesa. Convocava e presiedeva i Concili, prendeva parte alle dispute
teologiche, faceva pesare la sua autorità nel deciderle, e proclamava
le decisioni prese. Eran tutte cose che il vescovo di Roma non poteva
tollerare a lungo, spesso anzi già combatteva. Così si ponevano fin
d'ora i primi germi di quelle lotte che riempirono poi tutto il Medio
Evo. Lo Stato venne ben presto a conflitto con la Chiesa; lo spirito
religioso dell'Oriente, l'Imperatore ed il patriarca di Costantinopoli
con lo spirito religioso dell'Occidente e col vescovo di Roma,
contribuendovi non poco l'indole intellettuale e morale, affatto
diversa, delle due popolazioni.
Una prova di ciò si ebbe ben presto nella disputa teologica sorta fra
Ariani ed Atanasiani, che si diffuse come un rapido incendio da un
capo all'altro dell'Impero. A noi può sembrare oggi assai strano che
una sottile controversia sulla Trinità potesse allora tanto agitare
gli animi. Si trattava però non solamente d'un domma fondamentale nel
Cristianesimo, ma del concetto stesso di Dio e delle sue relazioni
con l'uomo. Iddio si presenta alla nostra ragione come causa prima, al
nostro sentimento come provvidenza benefica, il che lo avvicina a noi,
facendogli assumere forma quasi personale ed umana. Il Cristianesimo
soddisfece a questo doppio bisogno del nostro animo, riconoscendo in
Dio Padre il creatore del mondo, in Gesù Cristo, suo figlio, lo stesso
Dio, che assume forma umana, e subisce la morte per redimerci dal
peccato e salvarci. Lo spirito greco, che in sostanza è il creatore
della teologia cristiana, cominciò ben presto a sottilizzare, ed Ario
sostenne che il Figlio, essendo stato creato dal Padre, non poteva
essere identico a lui, non poteva essere _ab aeterno_, doveva avere un
principio, sia pure quanto si voglia remoto.
Contro questo concetto insorse Atanasio, che in Alessandria era stato
educato alla filosofia di Platone, che aveva considerato Iddio sotto
il triplice aspetto di causa prima, di _logos_ o ragione, di spirito
animatore dell'universo. Sostenne perciò risolutamente il concetto
del Dio trino ed uno, già penetrato nel Vangelo di S. Giovanni, e
disse ad Ario: — Colla vostra dottrina voi negate la divinità di Gesù
Cristo. Il Figlio è della stessa sostanza (_homoousios_) del Padre. —
E voi, gli rispondeva Ario, ammettete non più un Dio solo, ma due. —
Sinodi e Concili si successero allora rapidamente gli uni agli altri.
Vescovi e prelati erano di continuo in moto, a segno tale da far dire
perfino che si disorganizzavano le poste dell'Impero. Per le vie, per
le piazze, nelle chiese, nelle case non si parlava che del Padre e
del Figlio, della loro sostanza identica o no. Il Concilio di Nicea
(325), radunato da Costantino, proclamò la dottrina di Atanasio;
ma l'Oriente inclinava decisamente a quella di Ario. I suoi seguaci
cercarono dei mezzi termini, secondati in ciò da Costantino, il quale,
anche per ragioni politiche, si sforzava di mantenere l'unità religiosa
dell'Impero. Alcuni, che presero nome di semiariani, dissero che il
Figlio era non di sostanza identica (_homoousios_), ma pur simile
(_homoiousios_) a quella del Padre. Tutta la differenza, osserva qui il
Gibbon, si riduceva ad un dittongo, ad una sola lettera dell'alfabeto.
Ma ciò non poteva bastare a far cessare l'ardore della controversia.
Altri, adottando la formola detta di Sirmio, dal luogo dove fu
concordata, cercavano evitare la disputa, sfuggendola con parole vaghe.
Atanasio però non ammetteva transazioni di sorta, e respingeva ogni
accomodamento. Accusato, calunniato dagli avversari, perseguitato
dall'imperatore Costanzo, figlio di Costantino, deposto da patriarca
d'Alessandria, cacciato in esilio, continuò la sua propaganda. Rimesso
nella sua sede, ripigliò con più audacia che mai l'opera propria. E
quando, nella notte del 9 febbraio 356, la chiesa in cui ufficiava
fu circondata dalle milizie imperiali, egli, fermo sulla sua sedia,
continuò la lettura dei Salmi, nonostante le insistenze de' suoi
fedeli, che lo scongiuravano di porsi in salvo; ed ordinava invece che
si mettessero essi al sicuro. In fine, quando i soldati s'avanzavano
minacciosi contro di lui, ed egli era restato con pochi dei suoi,
scomparve improvvisamente con essi, come per miracolo, e si ritirò
nella Tebaide, donde continuò la sua propaganda.
Che un uomo solo, di carattere energico, eroico, mostrasse tanta
fermezza nella propria fede, non era allora un fatto nè isolato nè
strano. Ma ciò che dava alla battaglia da Atanasio così valorosamente
sostenuta, un grande valore storico, era il fatto che dietro a lui
stava tutto l'Occidente, con alla testa il vescovo di Roma, Liberio.
Questi apertamente lo sosteneva, negando all'Imperatore il diritto
di deporlo, parlando come se già la Chiesa di Roma fosse superiore a
quella di Costantinopoli, e indipendente affatto dall'Impero. Quando
si cercò di vincerlo con le lusinghe, inviandogli ricchi donativi, li
fece deporre sulla soglia di S. Pietro, perchè non profanassero il
tempio del Signore. Quando si volle ricorrere alla forza, ne nacque
un così violento tumulto, che solo di notte e di nascosto si potè
portar via il Papa a Milano. Ivi, per indurlo a sconfessare Atanasio,
gli venne offerta grossa somma di denaro. Ma la respinse indignato,
dicendo: «Serbasse l'Imperatore il denaro per pagare i suoi soldati.»
Ed all'eunuco che insisteva, aggiunse: «Un ladro tuo pari osa farmi
limosina come ad un colpevole? Comincia col farti buon cristiano prima
che tu osi rivolgermi la parola.» E piuttosto che cedere, accettò
l'esilio.
L'Imperatore gli fece succedere a Roma il vescovo Felice. Ma il popolo
disertò le chiese, nè mai lo riconobbe. Quando Liberio, oppresso
dagli anni e dai malanni, si lasciò indurre ad accettare la formola
incerta di Sirmio, l'Imperatore lo fece tornare a Roma, avendo la
strana illusione, che potesse ivi risiedere insieme con l'antipapa
Felice. Ma il popolo insorse furibondo, uomini e donne, giovani e
vecchi, gridando unanimi: Un Dio, un Cristo, un Vescovo solo! (357).
Essendosi Felice provato a resistere, si pose mano alle armi, e così
fu messo in fuga. Liberio entrò invece trionfante. Non si tenne però
conto alcuno dell'avere esso accettato la formola di Sirmio. Pei Romani
l'accettazione fu come non avvenuta.
Questa lotta così vivace poneva in evidenza più cose. E prima di tutto
si cominciava a veder chiaro, che lo spirito sempre pratico della
Chiesa di Roma era deliberato a mantener salda l'unità della fede,
senza venire a transazioni di sorta, senza spaventarsi di nulla,
evitando le troppo sottili distinzioni teologiche, alle quali la
stessa lingua latina ripugnava, mentre la greca invece mirabilmente
vi si prestava. Essa restò inesorabilmente ferma al concetto del Dio
trino ed uno della dottrina atanasiana, destinata a trionfare. Si vide
oltre di ciò, che il vescovo di Roma assumeva di fronte all'Imperatore
una posizione indipendente di capo della Chiesa universale. In
Italia, sopra tutto a Roma, s'era nelle catacombe andata formando una
generazione nuova, che lo sosteneva, piena di audacia e di avvenire,
senza paura nè dell'Imperatore, nè del suo esercito.
Non v'ha dubbio però che la disputa fra Ariani ed Atanasiani aveva
diviso i Cristiani. E questo dovette agevolare la via ad un tentativo
singolare davvero, ma non senza importanza storica, il quale ebbe luogo
appunto allora, e mirava niente meno che a far risorgere il Paganesimo.
S'era già visto a un tratto, con inaspettata rapidità, diffondersi
in Roma, fra le classi più colte, una nuova dottrina filosofica col
nome di Neoplatonismo, venuta d'Alessandria, per opera sopra tutto di
Plotino (205-270) e del suo discepolo Porfirio. Con un misticismo e
simbolismo orientale, svolgendo la filosofia di Platone, essa esaltava
il concetto del divino nel mondo e nell'anima umana, la cui suprema
felicità faceva consistere nella contemplazione di Dio, col quale
essa cercava confondersi. Questa dottrina, che da una parte mirava
alla risurrezione e riabilitazione del culto delle divinità pagane, da
un altro risentiva visibilmente l'azione del Cristianesimo che essa,
per mezzo del simbolismo, presumeva di porre in armonia con quelle.
Era un fenomeno singolare, il quale sembra ricordare ciò che avvenne
nel secolo XV, quando Gemisto Plotone voleva anch'esso, per mezzo del
Neoplatonismo, rimettere fra noi in onore le antiche divinità greche.
Se non che i tempi erano molto diversi. Nel quarto secolo era assai
maggiore la forza del Paganesimo, e più viva assai nelle moltitudini la
fede cristiana.
Certo è che Plotino predicava con grande esaltamento la sua dottrina,
e trovò in Roma ardenti seguaci. Egli aveva un supremo disprezzo pei
beni di questo mondo, e si doleva perfino d'avere un corpo, perchè
lo credeva di ostacolo alla divina contemplazione, la quale tuttavia,
secondo il suo discepolo Porfirio, gli fu più volte concessa. L'oracolo
aveva proclamato, che il genio che l'accompagnava era esso stesso
divino. E morendo, le sue ultime parole furono: «Io faccio un ultimo
sforzo per condurre ciò che v'ha di divino in me, a ciò che v'ha di
divino nell'universo.» A Roma venne nella sua età di quaranta anni,
ed acquistò subito una incontestata autorità. A lui ricorrevano tutti
come ad arbitro, ed i morenti gli affidarono più volte la cura dei
propri beni e delle loro famiglie. L'imperatore Gordiano fu tra i suoi
seguaci, e fra di essi si trovavano anche parecchi senatori, uno dei
quali, Rogaziano, s'era così esaltato nella nuova dottrina, che per
essa abbandonò la cura dei propri beni, liberò i suoi schiavi, ricusò i
più alti uffici. Tutto ciò è un'altra prova di quella vitalità morale,
che continuava ancora nella società pagana della decadenza, sebbene
da molti sia negata. Se non che il Neoplatonismo, più ancora dello
Stoicismo, era una dottrina filosofica, capace di esaltare solo alcuni
pochi spiriti eletti, troppo pieni delle idee del mondo pagano, per
potere accettare senz'altro la dottrina del Vangelo.
Uno di questi spiriti fu Giuliano, detto l'Apostata, perchè abbandonò
il Cristianesimo, nel quale era stato educato. Della famiglia di
Costantino, ed uomo d'alto ingegno, venne più tardi iniziato al
Neoplatonismo, all'ammirazione della poesia e mitologia greca, al
segreto dei misteri eleusini, cominciando esso stesso colle proprie
mani a sacrificare in segreto vittime a Venere ed Apollo. Nel primo
periodo della sua vita pubblica (355-61), si trovava, col titolo di
Cesare, alla testa delle legioni di Gallia, dove acquistò gran nome,
combattendo i Franchi e gli Alamanni, che furono cacciati al di là del
Reno. Le legioni lo proclamarono Augusto, e dopo la morte di Costanzo
(5 ottobre 361), entrò con esse l'undici decembre in Costantinopoli,
cercando subito di rimettervi in onore il Paganesimo. E siccome egli
era anche un filosofo, e proclamò generale tolleranza, così ebbe il
favore di tutti coloro che erano stati o temevano di dover essere
perseguitati. Fra questi furono gli Atanasiani in Oriente, e gli
Ariani in Occidente, i quali, felici d'essere per ora lasciati in pace,
capivano che il trionfo del Paganesimo non poteva ormai essere altro
che un fenomeno effimero e passeggiero.
Il sogno di Giuliano era non solo religioso, ma anche politico. Voleva
come _Pontifex Maximus_, per mezzo del Neoplatonismo, far risorgere le
antiche divinità; e voleva, qual nuovo Alessandro Magno, marciare alla
conquista dell'Oriente. Nel 363, in fatti, alla testa d'un formidabile
esercito, s'avanzò contro la Persia, sempre nemica dell'Impero, ed ora
in guerra con esso. Passò l'Eufrate, e respingendo il nemico, procedè
fra mille difficoltà, attraversando una regione piena di canali, ed
inondata. Sempre combattendo, sempre vittorioso, traversò il Tigri,
e per togliere ai suoi ogni pensiero di ritirata, fece bruciare le
navi, con cui aveva passato i fiumi; s'avanzò nell'interno del paese,
che trovò abbandonato e deserto, bruciati i raccolti e le città.
Il ritirarsi era divenuto impossibile, e Giuliano combatteva ancora
vittoriosamente, quando il 26 giugno 363 venne mortalmente ferito. Nè
in quell'ultima ora smentì se stesso, rallegrandosi cogli amici che
l'animo suo, liberato dal corpo, s'andava a ricongiungere con Dio.
Ed augurò che l'Impero venisse nelle mani d'un uomo giusto. Con lui
spariva il suo sogno, e gli succedeva Gioviano, incapacissimo, che
per la fretta di ritirarsi a Costantinopoli, cedette al nemico che
non era certo vittorioso, varie provincie; ed abbandonò la protezione
dell'Armenia, stata sempre fedele all'Impero, disposta anche ora, pur
di non essere separata da esso, a difendersi da sè. Così lasciava la
porta aperta al nemico, senza nulla aver guadagnato a suo vantaggio
personale, giacchè moriva prima di entrare in Costantinopoli nel
febbraio del 364.
Un altro fatto, per le sue conseguenze di assai grande importanza,
seguì pure durante la controversia tra Ariani ed Atanasiani, e fu la
conversione d'una parte dei Goti al Cristianesimo. E ad essa tenne
poi dietro a poco a poco, la conversione di tutti i barbari. Era
quasi un secolo che i Goti dimoravano nella Dacia, dove cominciarono
subito a sentire l'azione della civiltà romana, che in quella regione
doveva essere già profondamente penetrata. Ciò vien provato dal fatto,
che nonostante la lunga dimora colà delle popolazioni germaniche,
nonostante la invasione e la dura oppressione seguita più tardi per
opera dei Turchi, e l'essere ancora oggi quella regione circondata da
Magiari e da Slavi, serba pur sempre visibilissimo e tenacissimo il
carattere romano, come provano il nome di Romania che porta, la lingua
che parla, la sua storia e la sua letteratura. Dimorando nella Dacia,
i Goti si trovavano inoltre in continuo contatto con l'Impero. E così
cominciarono lentamente ad incivilirsi, fino a che sorse fra di essi
un uomo veramente grande, il vescovo Ulfila (311-381), che fu il vero
iniziatore della loro conversione e della loro cultura.
Egli passò la sua giovinezza a Costantinopoli, dove apprese il greco,
il latino, e fu iniziato al Cristianesimo. Dedicò poi la sua vita
intera a tradurre la Bibbia, ed a convertire i suoi connazionali, ai
quali insegnò anche l'alfabeto gotico, cominciando così a dirozzarli.
La sua traduzione, di cui alcune parti son pervenute sino a noi, è il
più prezioso ed antico monumento della lingua e letteratura germanica.
Si è molto discusso, per sapere quale potè esser la ragione per la
quale Ulfila preferì l'Arianesimo alla dottrina atanasiana, tanto più
che sino a che non si convertirono al Cattolicismo i Franchi, tutti
gli altri barbari divennero ariani. Ulfila però era stato convertito
a Costantinopoli, quando vi prevaleva l'Arianesimo, nel quale fu
perciò educato. E si può anche ritenere, che alla mente rozza de' suoi
connazionali, e in genere dei barbari, che uscivano da un paganesimo
grossolano, dovesse essere più agevole ammettere una differenza tra
Padre e Figlio, che arrivare, per mezzo della filosofia neoplatonica,
al concetto della identica sostanza del Dio trino ed uno.
La conversione dei Goti però, se da una parte ne promosse
l'incivilimento, da un'altra li divise più che non erano, indebolendoli
di fronte ai Romani. Infatti gli Ostrogoti, che abitavano la Dacia
orientale, distendendosi dentro la Russia meridionale, rimasero pagani,
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