Le invasioni barbariche in Italia - 12

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naturale, aumentava grandemente ora che si poteva esser sicuri del
favore del Papa e dell'Imperatore. Così la società e la cultura romana
guadagnavano rapidamente terreno, e i fautori di esse cominciavano
a intendersela direttamente coll'Imperatore. Tutto questo finì
coll'irritare assai Teodorico, il quale vedeva a un tratto minacciato
di rovina l'edifizio con sì gran cura innalzato. L'alleanza, la fusione
dei Goti e dei Romani da lui tanto vagheggiate, apparivano ora come
un sogno che s'andava a un tratto dileguando. Fu allora che egli emanò
contro i Romani l'ordine ricordato dall'Anonimo Valesiano, _ut nullus
eorum arma usque ad cultellum uteretur_. Ed a poco a poco parve che in
lui andasse scomparendo ogni traccia di romanità; tornò ad essere il
feroce barbaro d'una volta, quello stesso che colle proprie mani aveva,
nel banchetto di Ravenna, assassinato Odoacre.
Non tutti i Romani erano però concordi, essendovi fra loro, anche negli
ordini superiori della società, di quelli che restavano ciecamente
attaccati ai Goti, e che, come tutti i rinnegati, erano intolleranti
e vendicativi. Alla loro testa si trovava il referendario Cipriano,
che fu poi Conte delle sacre largizioni, Maestro degli uffici, e che
non solamente aveva egli stesso preso servizio nell'esercito dei Goti,
ma da essi aveva fatto educare nella loro lingua e nelle armi i suoi
propri figli. Costui ad un tratto accusò il patrizio Albino d'avere
scritto all'Imperatore lettere segrete, per cospirare contro Teodorico.
Albino negò recisamente ogni tentativo di congiura; e la cosa non
avrebbe avuto le grandi proporzioni che prese, se all'agitazione che
già s'era manifestata nei Romani, ai sospetti già fieramente accesi
nell'animo di Teodorico, non si fosse aggiunto l'intervento inaspettato
e spontaneo d'un personaggio di grande reputazione ed autorità.
Il senatore Boezio della illustre famiglia Anicia era stato amico
di Teodorico, e ne aveva fatto l'elogio in Senato; nel 510 era
stato Console, dignità che nell'anno 522 venne contemporaneamente
conferita ai suoi due figli, fatto eccezionale davvero. Egli era
studiosissimo dell'antica filosofia, sopra tutto di Aristotele, di
cui aveva commentato la Logica; di Platone e dei Neoplatonici. Aveva
tradotto dal greco opere di matematica e di magia; aveva scritto opere
filosofiche, ed anche teologiche: Cassiodoro ce lo descrive come un
uomo enciclopedico. «A lui si ricorse, egli dice, quando si voleva
costruire un orologio ad acqua, ed uno a sole pel re dei Burgundi;
quando si cercava un buon citaredo per mandarlo al re Clodoveo, e così
pure quando si volle scientificamente esaminare se era stata alterata
la moneta con cui venivano pagati i soldati.» Egli era un cristiano,
ammiratore dello spirito dell'antica Roma, animato fino all'entusiasmo
da un sentimento stoico e neoplatonico. Una prova di questo suo
esaltamento si vide nel modo con cui si gettò nella pericolosa disputa,
a proposito di Albino. Ne difese a viso aperto l'innocenza, sostenendo
esser falsa l'accusa fattagli da Cipriano, aggiungendo che i sentimenti
d'Albino erano quelli di tutto il Senato; che congiura non v'era stata,
e se vi fosse stata, nessuno dei Senatori l'avrebbe rivelata. Cipriano
allora portò falsi testimoni, che riconfermarono l'accusa mossa contro
Albino, estendendola anche a Boezio. E così furono ambedue chiusi in
carcere.
Non sappiamo qual fosse il destino finale di Albino, ma Boezio venne
processato e condannato dal Senato. La forma del processo ci è però
ignota: non si può dire con certezza se la condanna fu pronunziata da
una commissione o da tutto il Senato. Ma quest'ultimo caso non par
probabile, se si pensa ai sospetti che Teodorico continuò sempre ad
avere contro i Senatori. Non si sa neppure qual fosse veramente la
sentenza pronunziata contro Boezio, che se aveva con troppa audacia
sparlato del Re, aveva però a viso aperto difeso il Senato. Assai
probabilmente venne da una commissione condannato al carcere, pena che
più tardi Teodorico, accecato dall'ira, mutò di suo arbitrio in una
morte crudele, anzi barbara addirittura.
Nella lunga prigionia Boezio scrisse la sua _Consolatio Philosophiae_,
che è la propria confessione ed apologia, il libro che rese immortale
il suo nome. «Di che cosa sono io accusato?, egli diceva. Di avere
amato la libertà di Roma, difeso la dignità del Senato.» Chiamava
corrotti i suoi accusatori, e si doleva di essere stato condannato,
senza venir prima interrogato, da quel Senato stesso di cui aveva
assunto le difese. La ragione dell'accusa, egli proseguiva, «furono
gli odii contro di me suscitati nell'adempimento del mio ufficio,
opponendomi io alle ingiustizie di cui erano vittime i provinciali
romani. L'avidità dei barbari, sempre impunita, diveniva ogni
giorno maggiore verso le terre dei provinciali, dei quali assai
spesso volevano la testa, per aver poi gli averi. Quante volte non
difesi e protessi i miseri contro le infinite calunnie dei barbari,
che volevano divorarli!» Questo libro dettato nel carcere, senza
l'ampollosa retorica di Cassiodoro, in buona e corretta prosa latina,
di tanto in tanto interrotta da versi, è un vero inno alla virtù. E
fu scritto colla certezza della morte vicina, perchè la irritazione
di Teodorico, già arrivata al colmo, divenne, come era naturale, per
questo audace linguaggio, addirittura furibonda. Boezio si dichiarava
apertamente difensore della giustizia e degli oppressi, pei quali non
aveva mai ricusato nessun sacrifizio. «Gloria, potenza, ricchezza,
egli continuava, sono vanità. Solo la virtù ha valore, essa sola rende
l'uomo veramente libero. Iddio che è il sommo bene, cui l'universo
intero aspira, deve essere anche la mira costante del filosofo.»
Fra i caratteri più singolari del libro, che ebbe una prodigiosa
popolarità in tutto il Medio Evo, e fu tradotto in ogni lingua, v'è
ancora questo, che, leggendolo senza conoscerne l'autore, sarebbe
difficile dire se esso è l'opera d'un pagano o d'un cristiano. È di
certo la manifestazione d'un eroismo, che potrebbe credersi pagano
e cristiano ad un tempo. Non si può affermare che vi sia nulla di
sostanzialmente contrario al Cristianesimo, ma è strano davvero che
un cristiano, il quale s'apparecchia alla morte, non accenni una sola
volta nè al Paradiso, nè all'Inferno, nè a Cristo, e neppure alla
speranza d'una vita futura. Pare il linguaggio d'uno stoico, tanto che
per qualche tempo si giunse a dubitare se Boezio fosse stato davvero
cristiano e autore delle opere religiose a lui attribuite. Ma la grande
popolarità che nel Medio Evo godette il suo libro fra i Cristiani,
rendeva assai difficile ammettere il dubbio, ed oggi la critica storica
lo ha interamente eliminato. C'è in lui qualche cosa che ricorda i
Neoplatonici italiani del secolo XV, come Marsilio Ficino e Pico della
Mirandola, nei quali Paganesimo e Cristianesimo sembravano fondersi
e confondersi in una dottrina sola. I cospiratori allora affilavano
i pugnali contro i tiranni, invocando Bruto, e nello stesso tempo si
raccomandavano alla Madonna, perchè guidasse il loro braccio, e non
facesse fallire il colpo omicida.
Teodorico si decise finalmente a far morire il prigioniero. Una fune
venne legata intorno al capo di Boezio così strettamente, che gli
occhi quasi ne schizzarono fuori, ed allora con un colpo di mazza
sulla testa lo finirono (524). Nè contento di ciò, Teodorico, che aveva
ormai perduto il dominio di sè, temendo che Simmaco, capo del Senato,
anch'esso della famiglia Anicia, e che aveva dato sua figlia in moglie
a Boezio, potesse voler vendicare il parente suppliziato, fece prendere
e porre a morte anche lui, senza neppur fargli processo. Ciò dimostra
che Albino e Boezio non erano soli ad avere sentimenti romani nel
Senato, e fa quindi sempre più credere che questo non sarebbe stato
allora concorde a pronunziare, per ragioni politiche, la sentenza di
morte contro uno dei suoi membri.
A papa Ormisda era successo Giovanni I (523-6), che si mostrò lieto
anch'esso che l'Imperatore perseguitasse gli Ariani, ciò che spinse
il furore di Teodorico fino al parossismo. Egli, nonostante la
viva resistenza, costrinse il Papa a partire per Costantinopoli,
pretendendo che andasse colà a difendere la causa degli Ariani, a
chiedere la restituzione delle loro chiese; altrimenti minacciava
severe rappresaglie. Il Papa assai di mala voglia partì per l'Oriente,
e fu accolto con grande entusiasmo. Ottenne tutto quello che domandò
nell'interesse del Cattolicismo; nulla però, com'era naturale,
ottenne, nè gl'importava ottenere, a favore degli Ariani. Lo sdegno
di Teodorico fu tale allora che, quando Giovanni tornò, lo chiuse in
carcere, dove il 25 maggio 526 morì. Ed ora il Re volle, per propria
sicurezza, ingerirsi nella elezione del nuovo Papa, indicando colui
che fu poi eletto col nome di Felice III. Tutto questo destò d'ogni
parte uno straordinario ed universale malcontento contro di lui.
Pareva che l'Impero ed i Vandali, profittando della occasione, fossero
per mettersi d'accordo, e muovergli guerra da un momento all'altro.
Ma quando egli con febbrile attività raccoglieva navi ed armati per
difendersi, fu improvvisamente sorpreso dalla morte.
In questa morte, avvenuta solo novantasette giorni dopo quella di
papa Giovanni, molti videro la mano di Dio, e più d'una leggenda
s'andò formando intorno ad essa. Procopio racconta che, trovandosi
Teodorico ad un banchetto, gli fu portato un grosso pesce, il quale,
digrignando i denti e rivolgendo minacciosamente gli occhi, pareva che
assumesse le sembianze di Simmaco. Spaventato di ciò, il Re si sentì
preso da brividi che lo costrinsero a mettersi in letto, dove non vi
furono panni che bastassero a riscaldarlo, ed il 30 agosto 526, in
età di settantadue anni, fu da una forte dissenteria condotto a morte.
Un'altra leggenda, narrata assai più tardi nei _Dialoghi_ di Gregorio
Magno, racconta che un collettore di tasse, passando per l'isola di
Lipari, vi trovò un eremita che subito esclamò: — È morto Teodorico! —
Come mai, rispose l'altro, se non è molto che io lo lasciai in buona
salute? — Eppure, soggiunse l'eremita, io l'ho visto or ora passare
colle mani legate, fra papa Giovanni I e Simmaco, ed essere gettato
nel cratere del Vulcano di Lipari. — Questa leggenda si connette assai
probabilmente al fatto, che qualche tempo dopo la morte, il corpo del
Re non fu più trovato nel suo mausoleo, e se ne perdè ogni traccia.
Nel 1854 si credette che alcuni muratori, i quali scavavano la terra
non molto lungi dal mausoleo, avessero trovato colà sepolto il suo
cadavere. Ma anche allora, per colpa di quegli operai mal fidi, tutto
scomparve insieme colla corazza d'oro, che era stata del pari trovata,
e di cui solamente alcuni brani si salvarono.
Teodorico, morendo, lasciava la figlia Amalasunta, vedova per la
morte già avvenuta del marito Eutarico, da cui aveva avuto un bimbo,
Atalarico, che era allora di dieci anni circa. E però, quando Teodorico
si sentì vicino a morte, chiamati intorno a sè i capi dei Goti,
presentò loro il nipote, raccomandando, come dice Jordanes, «che lo
rispettassero quale loro re, amassero il Senato ed il popolo romano,
tenessero soddisfatto e propizio l'Imperatore: _Principemque orientale
placatum, semperque propitium haberent post Deum_.» Necessariamente
il governo venne di fatto nelle mani della madre Amalasunta, la quale
aveva avuto un'educazione romana; parlava il goto, il greco ed il
latino. Ella ci è descritta come bella e d'animo virile; ma in realtà
non riuscì pari alle molte e gravi difficoltà in mezzo alle quali
si trovò. A tempo di lei non solo l'Impero d'Occidente si decompose
affatto, ma s'avviò a rovina anche il regno ostrogoto.
E prima di tutto, la sua successione al governo, non approvata
dall'Imperatore, non era, neppure secondo le consuetudini gote, legale.
Si cercò di rimediarvi, facendo prestare giuramento dal popolo goto
e romano ad Atalarico, che a sua volta dovè giurare ad essi ed al
Senato. _Jurat per quem juratis_, scriveva Cassiodoro (VIII, 3), il
quale divenne ora nella Corte più potente che mai; fu Maestro degli
uffici, Questore, e più tardi Prefetto del Pretorio, tanto che diceva
di sè stesso: _Erat solus ad universa sufficiens_ (IX, 25). Amalasunta
sembrava che volesse seguire una politica mite e conciliatrice, senza
troppo allontanarsi dalla via seguita da suo padre nei primi anni del
regno. Restituì ai figli di Boezio e di Simmaco i beni loro confiscati;
e nello stesso tempo, con singolare contradizione, favorì ancora il
partito avverso. Infatti Cipriano, l'accusatore, il calunniatore di
Albino e di Boezio, ritenne i suoi alti uffici. Sotto di lei vi furono
Romani che ebbero nell'esercito gradi elevati, e Goti che entrarono nel
Senato.[31] La forza delle cose la costringeva a tenere una via diversa
da quella seguìta da Teodorico; e ciò nella politica estera più ancora
che nella interna.
Il concetto d'una grande confederazione barbarica, sotto la presidenza
del re ostrogoto, andò in fumo. L'Italia si trovò isolata, ed a
Costantinopoli s'aveva ora assai buon gioco, e si cercò presto di
trarne profitto. Intanto Amalasunta faceva scrivere da Cassiodoro, in
nome di Atalarico, una lettera che diceva all'Imperatore: «Mio avo
fu innalzato da Onorio alla dignità di Console, mio padre fu da voi
adottato _per arma filius_; questo è un titolo, che a me adolescente
s'addice anche meglio» (VIII, 1). Ma nulla s'ottenne da Giustino, chè
anzi l'Italia meridionale si trovò da lui minacciata di guerra, tanto
che fu allora appunto che Cassiodoro dovè accorrere per assumerne coi
suoi la difesa. A settentrione minacciavano i Gepidi; all'interno v'era
un grandissimo scontento fra i Goti, i quali si dolevano aspramente,
che il giovane Atalarico venisse educato alla romana piuttosto che
alla gota, alle lettere piuttosto che alle armi. Nel 527 Giustino
associava all'Impero suo nipote Giustiniano, il quale dopo quattro
mesi (1º agosto 527), per la morte dello zio, divenne Imperatore. Egli
era un uomo assai più accorto, che ad una grande ambizione univa un
altissimo ingegno. Riconobbe subito la successione di Atalarico e la
reggenza di Amalasunta, non per affetto che portasse loro; ma perchè
voleva assicurarsene il favore, meditando adesso di muover guerra ai
Vandali. Finita questa, avrebbe poi pensato ad attaccare l'Italia.
Intanto era lieto che il malumore dei Goti crescesse, perchè così si
spianava a lui la via per mescolarsi nelle loro faccende, e trovar
futuri pretesti di guerra. Già i loro capi protestavano ogni giorno
più vivamente contro Amalasunta, per la educazione che dava al figlio.
Teodorico, essi andavano ripetendo, aveva giustamente affermato, che
non avrebbe saputo mai affrontare le spade nemiche colui che temeva
la sferza del pedagogo. Ed un giorno che il fanciullo piangeva per una
guanciata ricevuta, chi dice dal maestro, chi dalla madre, le sdegnose
proteste arrivarono a tale, che essa dovette cedere, affidandolo a
capi militari, i quali lo educarono fra le armi, le donne, il vino,
i cavalli. Ed egli allora, per questo subito mutamento, datosi alla
dissolutezza, cominciò a deperir tanto nella salute, che si previde
subito non poter vivere a lungo.
In Italia si trovava un altro nipote di Teodorico per nome Teodato;
questi era figlio d'Amalafrida e di un Goto, morto il quale, ella aveva
in seconde nozze sposato Trasamondo re dei Vandali, l'uno e l'altro
già morti adesso. Da lei Teodato aveva ricevuto un'educazione romana,
ed era divenuto appassionato cultore della letteratura latina e della
filosofia di Platone, il che lo rendeva poco accetto ai Goti. Pure,
secondo le loro consuetudini, la successione sarebbe toccata a lui,
come figlio d'una sorella di Teodorico, in caso che Atalarico fosse
morto prima, cosa che pareva assai probabile. Ambizioso ed avido,
egli s'era reso poco accetto anche ai Romani, per le sue prepotenze.
Teodorico gli aveva concesso vaste terre in Toscana, ed egli le aveva,
a forza di astuzie e di prepotenze, aumentate in modo da rendersi
padrone di quasi tutta quella regione. Amalasunta dovette quindi porre
un freno a queste ingiustificate spoliazioni, e ciò le rese Teodato
avverso per modo che cominciò a tramare contro di lei a Costantinopoli.
L'avversione dei Goti per Amalasunta era intanto giunta a tale, che
ella dovette mandarne ai confini tre dei più potenti e riottosi.
Tuttavia si sentiva sempre così poco sicura, che si rivolse anch'essa
a Giustiniano, al quale aveva, come vedremo, reso già assai utili
servigi nella guerra contro i Vandali (533). Voleva rifugiarsi presso
di lui, ed a sua dipendenza governare poi l'Italia. Giustiniano, come
è naturale, accolse la proposta; e già le aveva apparecchiato splendido
alloggio a Durazzo (_Dyrrachium_), dove essa spedì sopra navi i tesori
dello Stato, 40,000 aurei. Ma Amalasunta, che era donna assai mutabile,
essendo in questo mezzo riuscita a disfarsi dei tre Goti che aveva
confinati, richiamò le navi e depose a un tratto ogni pensiero di
lasciare l'Italia.
Giustiniano allora, non sapendo qual fosse veramente l'animo di lei,
mandò tre ambasciatori per indagarlo (534). Egli adesso aveva vinto i
Vandali, e s'apparecchiava a fare l'impresa d'Italia. Aveva in passato
chiesto ad Amalasunta la fortezza di Lilibeo (Marsala) in Sicilia, e la
chiedeva ora nuovamente. Questa fortezza era stata concessa in dote ad
Amalafrida; e i Goti ritenevano che, per la morte di lei, tornasse di
diritto a loro. Giustiniano invece riteneva che, avendo egli sottomesso
i Vandali, la fortezza spettasse a lui, e la chiedeva con insistenza
anche perchè gli poteva giovare non poco nel cominciare l'impresa
d'Italia. Amalasunta l'avrebbe facilmente ceduta; ma temeva lo sdegno
del suo popolo, e però esitava.
Il 2 ottobre 534 moriva Atalarico, ed Amalasunta si trovò in una
nuova, difficilissima condizione. Non poteva essere regina, perchè
le leggi dei Goti non lo consentivano; non poteva essere reggente,
perchè il figlio era morto; non poteva quindi neppur trattare in
proprio nome con Giustiniano. Capì allora che bisognava rivolgersi a
Teodato, e gli propose d'associarsi a lei nel governo dell'Italia.
Sperava di contentarlo coll'apparenza del potere, che egli invece
intendeva assumere ben presto nelle sole sue mani. Ma intanto le
lettere sempre ampollose e retoriche, scritte da Cassiodoro in loro
nome, annunziavano all'Imperatore la nuova unione: «Come il corpo
umano ha due orecchie, due occhi, due mani, così il regno goto ha
ora due sovrani.» E con altre lettere, scritte sempre da Cassiodoro,
essi facevano vicendevolmente le proprie lodi presso l'Imperatore, e
dinanzi al Senato. Pare che Giustiniano, persuaso che non vi fosse da
temer grande resistenza da parte di due sovrani deboli e discordi, si
dimostrasse pronto a riconoscerli senza difficoltà. Ma intanto Teodato,
già stanco d'avere il secondo posto, riuscì a confinare Amalasunta
nel lago di Bolsena, dove fu ben presto strangolata nel bagno (535)
dai parenti di quei Goti, che essa aveva fatti uccidere. Procopio,
nei suoi _Anecdota_, pretende che istigatrice di questo assassinio
fosse stata l'imperatrice Teodora, la quale temeva che Amalasunta,
venendo a Costantinopoli, avesse colla sua bellezza potuto esercitare
troppo grande predominio sull'animo dell'Imperatore. Teodato da parte
sua si dichiarò affatto innocente, ma nessuno gli credette, massime
quando si vide che gli uccisori furono da lui premiati. Chi intanto da
tutto questo potè veramente cavar vantaggio fu Giustiniano. Appena che
Amalasunta era stata messa in prigione, egli aveva protestato, dicendo
che l'assumeva sotto la sua protezione. E quando la seppe uccisa, egli,
sotto l'apparenza di vendicare la giustizia offesa, si credette in
pieno diritto di muover contro Teodato e gli Ostrogoti quella guerra,
che già da lungo tempo meditava.


CAPITOLO V
Giustiniano e Belisario — La guerra vandalica — Il principio della
guerra gotica

Ci è forza ora tornare un passo indietro, per parlare di Giustiniano,
che così gran parte ebbe nelle cose d'Italia.
Egli nacque nella Dardania l'anno 482 o 83; ebbe a Costantinopoli una
educazione ed istruzione greco-romana. Nel 521 fu da suo zio Giustino
nominato Console. Ed in questa occasione vi furono feste straordinarie
davvero, nelle quali si spesero 280,000 aurei, e furono adoperati
venti leoni, trenta pantere ed altri animali feroci. Questo fu il primo
segno di quel sontuoso lusso, di cui Giustiniano fu sempre assai vago,
in parte per sua propria indole, in parte perchè lo credeva utile a
crescergli autorità presso le moltitudini. Nel 527 venne associato
all'Impero da suo zio, cui poco dopo successe. Egli era certamente
un uomo di grande ingegno, ed aveva un alto concetto dell'Impero,
che voleva restaurare in Occidente. Mirabile fu in lui l'attitudine a
scegliere le persone adatte all'attuazione de' suoi disegni. Questo si
vide nella scelta che fece prima di Belisario, poi di Narsete, il quale
a sessant'anni venne per la prima volta messo alla testa d'un esercito,
e riuscì ottimo generale. La stessa felice attitudine dimostrò nella
elezione di Triboniano e degli altri che chiamò a compilare il _Corpus
Juris_, non che degli architetti che costruirono il meraviglioso tempio
di Santa Sofia. Non aveva però capacità amministrativa; profondeva
danari nelle opere pubbliche, nelle molte fortezze che costruì, nelle
continue guerre. Tutto questo lo portò ad aggravar di tasse il popolo,
provocando un gran malcontento, che, aggiunto alla continua mancanza di
danaro, più d'una volta mandò a monte i disegni meglio concepiti. Oltre
di ciò s'innamorò d'una bella e trista donna, che fu addirittura una
specie di Lady Hamilton, dissoluta, crudele e di un orgoglio smisurato.
Figlia d'un guardiano delle bestie del circo, morto il padre, essa si
sarebbe, secondo la pubblica fama, prostituita a tutti, mostrandosi
anche nuda nel teatro; e finalmente, tornata dopo molte peregrinazioni
a Costantinopoli, sposò Giustiniano, che, salito sul trono, la volle
partecipe al governo. Certo è però che d'allora in poi ella seppe
frenarsi, menando vita decorosa, e si dimostrò donna di molto ingegno,
di grandissimo coraggio.
La fonte principale e più autorevole di tutto questo tempo è Procopio,
che accompagnò Belisario nelle sue guerre, delle quali ci lasciò un
diario fedele e prezioso. Più tardi egli scrisse una seconda opera,
conosciuta col titolo di _Storia arcana_ o anche _Anecdota_, nella
quale dimostrò contro Giustiniano e Teodora un'avversione di cui
non v'è traccia nella prima storia. Pare che, dopo la loro morte, si
sentisse più libero nello scrivere, e che ciò lo inducesse a parlare
assai più chiaro, qualche volta anche ad eccedere ne' suoi giudizi.
Quello che più di ogni cosa tramandò ai posteri il nome di Giustiniano
fu la sua opera legislativa. Varie commissioni da lui nominate,
sotto la presidenza di Triboniano, riunirono in diverse raccolte
tutte le fonti del diritto romano, aggiungendovi anche un Manuale
(_Institutiones_) pei principianti, e formando così quel _Corpus
Juris_, che è la gloria principale di Giustiniano. Una di queste
raccolte è il _Codice_ (_Codex constitutionum_), collezione in
dodici libri degli Editti imperiali; la più importante è però quella
conosciuta col nome di _Digesto_ o _Pandette_. In essa la Commissione
riassunse tutti gli scritti classici dei giureconsulti, scritti che
contenevano i loro pareri sulle _Leges_ e sui _Senatus-consulta_,
di cui qualche volta riproducevano preziosi frammenti. Fu un'opera
veramente immane, divisa in cinquanta libri, nei quali erano
compendiati duemila volumi. E venne condotta a termine nel breve
spazio degli anni 530-33. Ciò che domina in tutto quanto il _Corpus
Juris_ è il concetto dell'assoluta autorità imperiale, uno spirito
coordinatore ed accentratore, che era il carattere di quel tempo, privo
d'ogni produttiva originalità intellettuale, come si vide anche nella
filosofia e nella teologia. Gran torto fece a Giustiniano l'avere per
eccessivo zelo religioso, soppresso la scuola di filosofia greca in
Atene, che sebbene fosse già decaduta, aveva pur sempre un nome antico
e gloriose tradizioni.
Nonostante le grandi qualità e le grandi opere di Giustiniano, la
sua cattiva amministrazione, le continue spese, le tasse oppressive
produssero ben presto uno straordinario malcontento. Si aggiungeva
ancora un profondo dissenso religioso fra i Monofisiti, che erano
protetti dalla Imperatrice, e gli Ortodossi, che erano sostenuti
dall'Imperatore. E tutto ciò condusse ben presto ad una violenta
rivoluzione, la quale scoppiò nell'Ippodromo, dove la moltitudine era
già divisa negli Azzurri, che inclinavano ai Monofisiti, e nei Verdi,
che inclinavano agli Ortodossi. Una tale divisione turbava allora ed
agitava tutte le principali città dell'Impero; ma a Costantinopoli
essa aveva preso proporzioni addirittura spaventose. L'Imperatore
fu nell'Ippodromo insultato con una indegna violenza di linguaggio,
specialmente da parte degli Azzurri, che, accusandolo di favorire
i Verdi, gli davano di ladro, di traditore, di asino. Per mostrarsi
imparziale, egli fece uccidere alcuni malfattori dell'uno e dell'altro
partito, ma ciò invece li unì tutti contro di lui. La rivoluzione che
ne seguì ebbe il nome di _Nika_ (Vittoria), dal motto d'ordine, che
avevano assunto i due partiti temporaneamente riuniti. In conseguenza
di essa, scoppiò un incendio, che durò cinque giorni, accumulando
grandi rovine; e venne proclamato perfino un nuovo Imperatore,
tanto che Giustiniano, persuaso di non poter più resistere, voleva
abbandonare Costantinopoli e l'Impero. Teodora diè prova allora del
suo virile coraggio. — Morire bisogna pure una volta, ella esclamò
al marito, ma condurre l'esistenza da principe fuggiasco non è vita.
Fuggi, se tu vuoi, io non voglio vivere senza la porpora. — E allora
venne chiamato il giovane Belisario, il quale condusse la repressione
con tale energia, che si parlò di 35,000 morti. Ipazio, che era
il nuovo imperatore proclamato dai ribelli, fu anch'egli ucciso, e
Giustiniano restò finalmente sicuro sul trono (532), che dovette a
Teodora ed a Belisario.
L'Impero di Costantinopoli era una singolare mescolanza, non solo
di Greci e di Romani, ma di popoli diversissimi: Slavi, Bulgari,
Turchi, Finni, Armeni, Persiani, Egiziani, anche Mori. E tutte
queste genti di razze, di costumi, di religioni, di lingue diverse,
che non potevano essere unite da spirito nazionale, erano unite
dalla legge e dalla disciplina romana. È questo un fatto veramente
straordinario, reso ancora più notevole dalla lunga durata che, in
mezzo a tante rovine, ebbe l'Impero d'Oriente, fino cioè alla metà
del secolo XV. l'Imperatore, che si trovava alla testa dello Stato
e della Chiesa, aveva ai suoi ordini una burocrazia accentrata e
potente, una diplomazia accortissima, un esercito valoroso, che ai
tempi di Giustiniano si faceva ascendere a circa 150,000 uomini.
Composto principalmente dalle popolazioni montanare della Tracia, del
Tauro, della Valachìa, non fu in tutti i tempi uguale a sè stesso;
ma più volte dette splendide prove del suo valore, ed ebbe una serie
di generali di merito veramente eccezionale. Questi solevano come
Belisario, che fu certo dei più illustri, avere anche una propria
guardia d'alcune migliaia di soldati scelti, da essi dipendenti e da
essi pagati. La flotta, che era composta di gente venuta dall'Asia
Minore, dalla Tracia, dalla Grecia, mantenne del pari lungamente
onorato il suo nome.
Giustiniano acquistò una grande importanza storica pel fermo proposito
che ebbe di restaurare l'antica unità, l'antico splendore dell'Impero,
iniziando una grande reazione del Romanesimo contro il Germanesimo:
reazione che per qualche tempo fu davvero trionfante, sino a che la
mancanza d'industria e di commercio, lo scontento prodotto dalle tasse
eccessive e dalle angherie del fisco, la corruzione e le gelosie della
Corte, che alimentavano sempre la discordia dei generali, non mandarono
a rovina un'opera gloriosamente iniziata, e favorita anche dalla
fortuna. Lo strumento principale di questa impresa fu Belisario. Nato
(505) nella Dardania, come Giustino e Giustiniano, egli entrò assai
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