Le invasioni barbariche in Italia - 08

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egli era invece un Romano lungamente vissuto coi barbari. Non si poteva
quindi supporre che, quando l'Impero si fosse trovato in guerra cogli
Unni, Ezio potesse esitare, e non sentire scorrere nelle sue vene il
sangue romano. Ma v'era di più. Gli Unni, essendo di sangue e di razza
diversa affatto da quella dei Germani non meno che dei Romani; essendo
nomadi, pagani e poligami, la loro vittoria sarebbe stata un trionfo
della barbarie orientale, delle popolazioni turaniche e tartare sulle
ariane. Sarebbe stato come se i Persiani avessero vinto a Salamina,
o i Turchi a Lepanto. La storia del mondo avrebbe potuto non poco
mutare il suo cammino. In ciò stava la grande importanza storica della
prossima lotta. Tutto dipendeva ora dal sapere se i Visigoti erano di
ciò consapevoli, e se nell'interesse comune di razza e di civiltà,
si sarebbero uniti ai Romani. Ezio, per mezzo del suo amico Avito,
cittadino autorevolissimo dell'Impero, seppe indurli a stringere
l'alleanza. Lo scontro decisivo s'avvicinava a gran passi.
Nel 451 Attila, passato il Reno, s'avanzava saccheggiando il paese,
trucidando gli abitanti, che sembravano incapaci di resistenza, salvo
in alcune poche città, nelle quali lo spirito religioso s'accendeva
contro la pagana barbarie. Dopo infatti che Metz e Rheims furono
desolate, santa Genoveffa riuscì ad animare la popolazione, assai
scarsa allora, di Parigi, che restò, come per miracolo, incolume.
Orléans, resa più tardi assai celebre dalla difesa di Giovanna d'Arco,
fece anche allora viva resistenza, per eccitamento del suo vescovo,
il quale, quando la vide d'ogni parte circondata, andò ad avvertire
Ezio, che non era possibile tener testa all'onda sterminata dei nemici
oltre il 24 giugno. E già la città era agli estremi, quando apparvero
gli eserciti riuniti di Teodorico e di Ezio, che obbligarono Attila
a retrocedere, per apparecchiarsi alla battaglia, la quale non molto
dopo ebbe luogo, fra Châlons sur Marne e Troyes. Anche questa seconda
città, che era aperta e poteva facilmente essere saccheggiata, fu salva
per opera del suo vescovo Lupo, il quale seppe in modo singolare, quasi
misterioso, imporre rispetto ad Attila.
Questi, secondo il suo costume, prima di cominciar la grande battaglia,
fece consultar le viscere degli animali, e la risposta degli auguri
fu, che gli Unni avrebbero perduto, ma che il generale nemico sarebbe
morto. Ciò lo impensierì non poco; pure i due eserciti s'attaccarono
finalmente (451). Gl'Imperiali si schierarono, ponendo al centro gli
Alani, di cui non parevan molto sicuri. A destra erano i Romani,
comandati da Ezio; a sinistra i Visigoti, comandati da Teodorico.
Invece Attila stette al centro coi suoi Unni; a destra e sinistra
pose i popoli a lui confederati: i Gepidi e gli Ostrogoti erano di
fronte ai Visigoti. Questa battaglia, notevolissima per la sua storica
importanza, fu anche una delle più terribili che si ricordi. _Bellum_,
dice Jordanes, _atrox, multiplex, immane, pertinax, cui simile nullum
narrat antiquitas._ Ed aggiunge che il sangue versato fu tale e tanto,
che mutò in grosso e rosso torrente un vicino ruscello, _liquore
concitatus insolito, torrens factus est cruoris augmento_: e in esso
dovevano dissetarsi i feriti! I Visigoti si batterono con molto valore,
ma Teodorico perde la vita sul campo. Attila fece coi suoi sforzi
sovrumani, e pareva un leone ferito. Ma ben presto cominciò a dubitare
del resultato finale, tanto che aveva fatto apparecchiare un monte
di selle, per farsi su di esse bruciar vivo, se la fortuna gli fosse
stata veramente avversa. Jordanes afferma che in quel giorno morirono
162,000 combattenti, senza tener conto di 15,000 caduti in uno scontro
precedente. Idazio fa arrivare i morti a 300,000. Ciò dimostra la parte
non piccola, che in tutte queste notizie ebbe la fantasia, allora e
per molto tempo di poi. Una leggenda posteriore illustrata dalla poesia
e dalla pittura, aggiunge che, nella notte seguita alla battaglia, si
videro in cielo le anime dei morti affrontarsi, e cominciar di nuovo
a combatter fieramente fra di loro. Certo è che, sebbene l'esito
della battaglia non fosse stato veramente decisivo, pure Attila si
ritirò. E così, essendo morto Teodorico, si potè affermare che la
profezia fatta dagli auguri si era avverata. Il merito principale del
felice resultato fu certo di Ezio, che, oltre all'essersi mostrato
soldato assai coraggioso e di gran valore strategico, era riuscito ad
assicurare all'Impero l'alleanza dei Visigoti. Ma pareva fatale che il
suo destino dovesse sempre somigliare a quello di Stilicone. Infatti,
non avendo egli inseguito Attila, subito si disse che tradiva, che
non voleva la totale distruzione dei nemico, per non lasciar divenire
ancora più potenti i Visigoti, i quali avevano, secondo lui, già
troppo contribuito alla vittoria. La verità è invece, che i Visigoti
proclamarono sul campo stesso di battaglia il successore di Teodorico
nella persona di Torismondo, che dovè subito ritirarsi nel suo regno,
per rafforzare la propria posizione già assai incerta e combattuta.
Così non era facile allora misurarsi nuovamente con Attila, il quale
dapprima, non vedendo che lo inseguivano, temette di qualche agguato;
ma poi, fattosi anime, ripassò il Reno, e si ritirò nella Pannonia, per
riordinare i suoi ed apparecchiarsi a nuove imprese.
Pareva che egli meditasse ora d'andare a Roma, giacchè s'avanzò subito
verso l'Italia, e nel 452 era già sotto le mura d'Aquileia, dove
trovò una così tenace resistenza, che stava per levare, scoraggiato,
l'assedio. Narra però la leggenda, che in quel momento appunto vide
alcune cicogne le quali, volando coi figli, abbandonavano la città; il
che gli fece capire che dentro le mura non c'era più cibo per nessuno.
Sospese quindi l'ordine di ritirata, e poco dopo la città si arrese
a lui, che la distrusse a segno tale da lasciarne appena le vestigia.
Altino, Concordia, Padova sopportarono la stessa sorte; altre terre si
salvarono dalla distruzione, aprendo le porte e sottomettendosi, senza
resistenza, al saccheggio.
Questi sono i fatti che fecero in Italia dare ad Attila il nome di
_Flagellum Dei_, e spinsero i profughi d'Aquileia e delle vicine
città a riparare nella laguna veneta, dove fu così fondata la città
di Venezia, unica al mondo per la sua storia, la sua posizione e
la sua incantevole bellezza. Molti fiumi, come l'Adige, la Brenta,
la Piave, il Tagliamento, il Po ed altri, a breve distanza, l'uno
dall'altro, sboccando nel mare Adriatico, e quasi tutti, eccettuato il
Po, scendendo rapidamente dai monti vicini, portano sassi che, secondo
la grossezza ed il peso, si arrestano più o meno lontano dalla riva.
Così si formarono prima la Laguna, e poi il Lido, che costituisce
dalla parte del mare come un forte antemurale, superato il quale, può
navigare nella Laguna solamente chi ne è assai pratico. Tutto questo
costituisce come una grande fortezza naturale, a sicura guardia delle
isole che vi sono sparse. Su di esse i profughi italiani, per salvarsi
dalle orde finniche degli Unni, fondarono la città che, come osserva
l'Hodgkin, doveva più tardi eroicamente difendere l'Europa contro i
Turchi.
Nulla pareva che potesse ora fermare l'avanzarsi di Attila verso
Roma. Se non che il suo numeroso esercito, che tutto distruggeva,
facendo intorno a sè il deserto, cominciava a soffrire la fame, e ad
essere decimato dalle malattie. Ezio, è vero, non s'era anche mosso,
di che molti lo accusavano; poteva però da un momento all'altro
apparire. L'imperatore Marciano non solo prometteva di mandare aiuti da
Costantinopoli, ma pareva accennare a volere esso stesso direttamente
attaccare le terre degli Unni. Tutto ciò poneva naturalmente non poca
incertezza nell'animo di Attila. Pagano, barbaro e feroce, egli era
anche superstizioso. Il nome stesso dell'Impero metteva a lui, come
a molti dei barbari, una specie di spaventoso terrore, e la fine di
Alarico gli era sempre presente. La religione cristiana, a cui egli
non credeva, ma che pure, pel numero grande de' suoi credenti e per
la sua propria natura, esercitava su tutti una straordinaria azione,
anche a lui ispirava un'istintiva, misteriosa, irresistibile reverenza.
A coloro che in nome di essa autorevolmente gli parlavano, pareva che
non sapesse più che cosa rispondere: restava confuso. E fu quando era
in queste disposizioni d'animo, che gli venne annunziata una solenne
ambasceria, arrivata da Roma, e della quale facevano parte l'ex-console
Avieno, l'ex-prefetto Trigezio. La guidava lo stesso capo venerabile
della cristiana religione, il successore di Pietro, il rappresentante
di Dio sulla terra, Leone I, il vescovo di Roma, l'uomo forse più
grande in quel secolo.
Nato da genitori romani, egli univa al suo spirito altamente cristiano
l'antico spirito di Roma. Da questa unione nasceva e si determinava in
lui per la prima volta chiaramente il concetto della chiesa universale
cristiana, quale possiamo leggerlo anche oggi formulato ne' suoi
discorsi. «S. Pietro e S. Paolo sono, egli diceva, i Romolo e Remo
della nuova Roma, tanto superiore all'antica, quanto la verità è
superiore all'errore. Se Roma antica fu alla testa del mondo pagano, S.
Pietro, il principe degli apostoli, venne ad insegnar nella nuova Roma,
perchè da essa si diffonda sulla terra la luce del Cristianesimo.»
Questo concetto ricorre continuamente nei suoi discorsi semplici,
chiari, precisi, pieni di senno pratico. Essi non hanno nulla della
passionata sottigliezza teologica dei Greci, anzi non si occupano
di teologia. Parlano assai poco dei santi e della Vergine, molto
invece di Gesù Cristo; raccomandano la carità, condannano l'usura. E
quando le questioni teologiche si presentavano inevitabili, egli non
disputava, ma, con uno sguardo sempre sicuro, vedeva quale, fra le
opposte dottrine, era destinata a trionfare nell'interesse della fede
e della Chiesa, e la proclamava senza esitare. Non fu solo una grande
intelligenza, ma sopra tutto un grande carattere. Mirabile è l'energia,
la fermezza incrollabile di volontà, con la quale, in mezzo alla
tumultuosa, disordinata agitazione di quel secolo, sostenne l'unità e
l'autorità della Chiesa di Roma, fondata da S. Pietro, che solo ebbe da
Dio la facoltà di legare e di sciogliere, e solo poteva trasmetterla
ai suoi successori. Intorno ad essa vuole raccogliere tutto il mondo
cristiano. «L'autorità regia e la ecclesiastica debbono, egli diceva,
procedere d'accordo. La prima è data all'Impero per reggere i popoli
e difendere la Chiesa, alla quale è affidato il governo delle anime.
Esulta, o Roma, festeggia i natali di S. Pietro e S. Paolo, pei quali
da maestra d'errore sei fatta discepola di verità, e messa alla testa
del mondo, per tenere con l'opera della religione più alta ancora la
tua dignità.» E questi pensieri non solo riempiono i suoi discorsi,
i suoi scritti, ma animarono tutta quanta la sua vita, formarono,
costituirono il suo carattere; lo misero al di sopra di tutti i
suoi contemporanei. Leone I lavorò continuamente per sottomettere
all'autorità del Papa, come capo della Chiesa romana i vescovi non
solo dell'Occidente, ma quelli anche della Chiesa d'Oriente. È ben
vero che, fin da quando il Concilio di Sardica (344) sottopose alla
decisione di Roma la questione sorta in Oriente per la deposizione di
Atanasio, i Papi cercaron sempre di fondare su questo caso speciale un
diritto generale a favore dell'autorità superiore della Chiesa romana.
Ma Leone I dedicò la vita intera a far riconoscere, a porre in atto
questo principio, ed in parte vi riuscì, avendo investito in nome di
S. Pietro un vescovo della Macedonia; il che voleva dire estendere la
sua autorità ecclesiastica in tutta la Prefettura dell'Illirico, anche
in quella parte di essa che apparteneva all'Oriente. Così apparecchiò
l'avvenire, entrando per la via che doveva essere costantemente
percorsa dai suoi successori, fino al raggiungimento dello scopo
prefisso, di fare cioè di Roma la capitale della Chiesa universale.
Ed è singolare davvero l'osservare come tutta la storia posteriore
del Papato si trovi già quasi in germe nella mente superiore e nella
volontà incrollabile di questo grande vescovo, e che da esso si vada
lentamente svolgendo attraverso i secoli.
Era questi appunto l'uomo, il quale, animato da quella fede inconcussa
che nulla teme, si presentò ad Attila, alla testa dell'ambasceria
venuta da Roma, come il vero rappresentante della Città eterna, la
personificazione vivente della Chiesa universale, e della sola vera
religione, con la ferma persuasione che tutti ad essa, volenti o
nolenti, dovevano obbedire. L'incontro ebbe luogo nella state del 452,
presso Peschiera. Nessuno sa che cosa il Papa veramente dicesse ad
Attila. Certo è che, dopo il colloquio, con generale maraviglia, questi
si ritirò. Qual parte abbiano avuto a promuovere una tale risoluzione
le parole e l'autorità del Papa, quale invece v'abbiano avuto lo stato
generale delle cose, e le condizioni difficili in cui l'esercito unno
si trovava allora, non è possibile dirlo.
La leggenda s'impadronì del fatto, dando tutto il merito a Leone I.
Alludendo a lui ed al vescovo Lupo, che gl'impedì di saccheggiare
Troyes, Attila avrebbe detto: Io so vincere gli uomini; ma un leone
ed un lupo hanno saputo conquistare il conquistatore. Un'altra di
queste leggende fu resa immortale dal pennello di Raffaello, il quale
ci rappresentò nelle sale vaticane Attila spaventato al vedere dietro
del Papa, che tranquillamente s'avanza a cavallo e gli fa segno
di retrocedere, S. Pietro e S. Paolo librati in aria, colle spade
sguainate e fiammeggianti. Ma quello che rese ancora più singolare,
circondandola di maggiore mistero, la ritirata di Attila, fu il fatto
che, avendo poco dopo sposato una nuova moglie, finito appena il lauto
banchetto nuziale, venne soffocato da una emorragia. Quella stessa
notte l'imperatore Marciano disse d'aver visto in sogno l'arco di
Attila spezzato. Gli Unni deposero nelle pianure d'Ungheria, sotto una
tenda, il corpo del loro eroe, tagliandosi il viso col ferro, perchè
vi scorresse sangue invece di lacrime. E intorno alla tenda correva
rapidissima una squadra di cavalieri, cantando canzoni nazionali,
le quali celebravano le doti dell'estinto, e deploravano che fosse
morto, non per mano nemica, non in mezzo ai pericoli di guerra, ma fra
i piaceri e la gioia; e quindi non v'era contro chi vendicarlo.[21]
Per gl'Italiani Attila restò sempre il _Flagellum Dei_, e tale ce
lo rappresentano le loro leggende. Quelle degli Ungheresi, degli
Scandinavi e anche dei Teutonici ne esaltano invece le gesta. Dopo
la improvvisa sua morte, il vastissimo regno si decompose e scomparve
colla stessa rapidità con cui s'era formato.
Se l'ambasceria di papa Leone è il primo fatto che ci renda visibile
la enorme potenza morale che andava assumendo il Papato, la battaglia
contro gli Unni, che fu chiamata di Châlons, quantunque avvenuta
assai lungi da questa città, fu a giusta ragione considerata come
l'ultimo fatto eroico dell'Impero di Roma. La vittoria essendo stata
attribuita al generale Ezio, questi fu tenuto come il salvatore
dell'Impero, sebbene non si fosse poi fatto vivo quando gli Unni
s'avanzarono in Italia. Certo esso era un gran capitano, di valore
strategico singolare, di straordinaria forza muscolare: era perciò
instancabile nel lavoro, che pareva gli aumentasse energia, come si
legge nel suo panegirico. Ma la grande fortuna che ebbe e gli eminenti
servigi che rese all'Impero, ne aumentarono l'ambizione a segno tale,
che voleva farla addirittura da padrone, e si rese quindi sempre più
insopportabile a Valentiniano III, il quale era senza figli maschi, e
gli aveva promesso in isposa la propria figlia. Ma ora che non aveva
più la paura degli Unni, divenuto orgoglioso e intollerante, mandava in
lungo l'adempimento della fatta promessa, per la quale Ezio insisteva
con tale alterigia, che l'Imperatore meditò di liberarsene, come
Onorio s'era liberato di Stilicone. Verso la fine del 454 lo invitò
al suo palazzo in Roma, e quando egli tornò ad insistere sul promesso
matrimonio, Valentiniano gli saltò addosso ferendolo colle proprie
mani, ed aiutato subito da sicari ivi apprestati, lo finirono. Procopio
racconta che, avendo l'Imperatore chiesto ad un Romano, se credeva che
avesse fatto bene o male a disfarsi di Ezio, gli fu risposto: — Se bene
o male non saprei; certo è però che con la sinistra voi avete tagliato
la vostra destra. — E così fu veramente.
L'anno seguente Valentiniano venne ucciso nel Campo Marzio, mentre
guardava i giuochi atletici, da due soldati, i quali vollero vendicare
il loro generale, ed uccisero poi anche l'eunuco Eraclio, che aveva
ordito il tradimento, facendo la parte stessa di Olimpio contro
Stilicone. Con Valentiniano si estinse affatto la dinastia di Teodosio,
la quale aveva governato settantaquattro anni in Oriente (379-453),
e sessantuno in Occidente (394-455). Cominciava così per l'Impero
un'epoca nuova, la quale si può dir veramente il principio della fine.
Già la rapida decomposizione cui esso andava incontro appariva sempre
più chiara nello straordinario potere politico, che erano andate
assumendo le donne da un lato, i generali dall'altro. Dopo la morte
d'Arcadio aveva di fatto governato Pulcheria, la quale ridusse la Corte
ad un convento, e prese poi a compagno Marciano, che era un capitano
valoroso. In Occidente aveva lungamente governato Placidia, e sotto di
lei erano divenuti potentissimi Bonifazio ed Ezio, il quale ultimo,
rimasto solo, divenne onnipotente fino a che non fu levato di mezzo
a tradimento. Colla estinzione della casa di Teodosio quei generali
simili a capitani di ventura divennero sempre più frequenti nell'Impero
d'occidente, e ne affrettarono la precipitosa rovina. Intanto ora la
sede di esso era vacante, ed i Vandali s'avanzavano minacciosi, facendo
escursioni continue nella Sicilia, nella Corsica, nella Calabria e più
oltre ancora, senza che qualcuno fosse in grado di opporvisi.


CAPITOLO X
Massimo Imperatore — I Vandali saccheggiano Roma — Ricimero, Oreste ed
Augustolo

Nel marzo 455 venne eletto imperatore Petronio Massimo, senatore
romano, che era già stato Console e Prefetto: un uomo di circa
sessant'anni, ritenuto avverso alla dinastia di Teodosio, e però a
molti assai poco gradito. Questo malumore venne aggravato dal fatto che
egli accolse subito fra i suoi protetti i due uccisori di Valentiniano,
il che fece nascere il sospetto che avesse tenuto mano all'assassinio,
di cui ora profittava. S'aggiunse che volle per forza sposare la
giovane Eudossia, la quale aveva soli trentaquattro anni; era figlia
di Teodosio II, vedova di Valentiniano III, ed avversissima ad unirsi
con un vecchio, creduto assassino del proprio marito. Tutto ciò fece
al solito nascere la leggenda che, per vendetta, ella avesse invitato
a venire in Italia i Vandali, i quali allora presero e saccheggiarono
Roma. Ma questa notizia, che è data da Procopio, è ignota affatto ai
contemporanei, o è ricordata da qualcuno di essi con un semplice _si
dice_. Il tempo che sarebbe corso fra la chiamata e la venuta dei
Vandali è troppo breve, per potere dar fede alla leggenda. Il dubbio
è poi confermato anche dal fatto, che Eudossia non fu risparmiata,
ma venne menata in Africa, prigioniera colle due sue figlie. In ogni
modo neppure qui v'è bisogno di artificiose spiegazioni, giacchè
l'invito d'avanzarsi veniva ai Vandali, che già più volte avevano fatto
scorrerie sulle coste dell'Italia meridionale, dallo stato d'anarchia
in cui si trovava adesso Roma, priva d'ogni mezzo di difesa, incapace
affatto di qualunque resistenza. I Vandali, uniti ai Mori d'Africa,
coi quali avevano ingrossato il loro esercito, erano divenuti una
specie di pirati, che mettevano terrore nel Mediterraneo; e le loro
selvagge crudeltà venivano esagerate dalla leggenda. Si raccontava,
fra le altre cose, che quando non potevano subito prendere una città,
facevano strage nel contado, accumulando i cadaveri sotto le mura di
essa, perchè vi scoppiasse la peste, che obbligava poi la popolazione
ad arrendersi; come se in questo caso non sarebbero stati essi i
primi a soffrirne. Certo è che distruggevano le chiese, trucidavano o
pigliavano prigionieri i prelati, i vescovi: spesso anche li menavano
schiavi. La parola _vandalismo_ è perciò rimasta nel linguaggio comune.
Per tutte queste ragioni, quando si seppe che i Vandali erano alle
bocche del Tevere, vi fu a Roma come un timor panico, non avendo
l'imperatore Massimo provveduto a nulla addirittura per la difesa
delle mura. Egli non seppe far altro che dichiarare di lasciar libero
chiunque volesse abbandonare la Città, apparecchiandosi egli stesso
alla fuga. Ma di fronte a questa condotta vigliacca lo sdegno del
popolo romano fu così grande, che ne scoppiò un tumulto violentissimo.
L'Imperatore venne ucciso, ed il suo cadavere, fatto a brani, con
grida feroci d'imprecazione fu portato in giro per le vie, e poi
gettato nel Tevere. Intanto la Città restava senza Imperatore, senza
governo e senza difesa, contro un barbaro nemico, che rapidamente
s'avanzava. Il disordine e l'anarchia furono al colmo. V'erano amici
della dinastia teodosiana, che maledicevano l'elezione di Massimo;
pagani, che si rivolgevano agli antichi Dei; cattolici, che di ciò
restavano inorriditi, e prevedevano la vicina vendetta di Dio; barbari
soldati in armi, i quali, essendo ariani, invece d'apparecchiarsi alla
difesa, stavano a guardare che cosa stessero per fare i Vandali, ariani
anch'essi.
In mezzo a questo spaventoso disordine, una sola voce si alzò ferma,
dignitosa, sublime, e fu anche questa volta quella di Leone I. In uno
de' suoi più celebri discorsi, fatto nel giorno di S. Pietro e S.
Paolo, egli esclamava: «Umilia il dirlo, ma non si può tacere, che
si ricorre adesso più ai demoni ed agl'idoli, che agli Apostoli, e
più attenzione si presta ai nuovi spettacoli che ai beati martiri.
Ma chi difende, chi salva questa Città, i giuochi del circo o la
fede nei Santi? Tornate al Signore, intendendo le cose mirabili che
Esso ha operato per noi, riconoscendo la nostra libertà non già,
secondo l'opinione degli empi, dalla influenza degli astri, ma dalla
misericordia dell'onnipotente Iddio, che s'è degnato di mitigare
il cuore dei furenti barbari.» Questo discorso, che secondo alcuni
(Papencordt) si riferisce appunto alla venuta dei Vandali, e secondo
altri (Baronio e Milman) alla invasione degli Unni, ci descrive in
ogni modo qual'era in Roma, nella metà del secolo quinto, lo stato
degli animi, e quale la condotta del Papa. Anche questa volta Leone
I fu il solo che osò uscire dalla Città per affrontare i barbari; ma
con Genserico non potè ottenere lo stesso resultato che aveva avuto
con Attila. I Vandali, insieme coi Mori anche più selvaggi, erano già
vicini alla Città eterna, assetati di preda e di sangue. Fu tuttavia
promesso che le chiese cristiane non sarebbero state bruciate, che
sarebbe stata risparmiata la vita di coloro che non avessero fatto
resistenza.
Pochi giorni dopo la morte di Massimo, i Vandali entrarono in Roma
(giugno 455), aiutati, a quanto pare, dal tradimento d'un barbaro
ariano, che avrebbe insegnato loro la via più facile. Per quattordici
giorni la Città andò a sacco; e tutto ciò che avevano di prezioso
il palazzo imperiale e i tempii pagani fu messo sulle navi e portato
via: oro, argento, pietre preziose, un gran numero di statue greche
e romane. Lo stesso si fece nella Campania. Furono imbarcati anche i
sacri e venerati arredi, che dal tempio di Gerusalemme erano stati
portati in trionfo a Roma, e che si vedono ancora oggi scolpiti
sull'Arco di Tito. Sebbene questo fatto sia stato messo in dubbio, esso
trova conferma nel racconto di Procopio, il quale narrò più tardi, che
Belisario li tolse in Africa ai Vandali, e li portò a Costantinopoli.
Certamente si può credere che la rovina generale di Roma per opera dei
Vandali, quale alcuni la descrivono, sia esagerata, come è provato
dal fatto che, dopo la loro partenza, la Città si trovava tuttavia
piena di chiese e di monumenti splendidi. Ma è certo pure, che dai
tempi di Brenno in poi, essa non aveva sopportato mai uguale sventura
e vergogna. Insieme colle statue, coi metalli e colle pietre preziose,
i Vandali portaron via moltissimi prigionieri, la più parte dei quali
ridussero in ischiavitù. E fra questi prigionieri v'erano, oltre un
gran numero di religiosi, anche l'ex-imperatrice Eudossia con le due
figlie Eudocia e Placidia. La prima di esse venne poi da Genserico
data in isposa al suo figlio Unnerico, che così mescolava il sangue
vandalico con l'imperiale; la seconda invece fu con la madre tenuta
sette anni in onorevole prigionia, per essere finalmente rimandate
entrambe in Costantinopoli all'imperatore Leone, che da lungo tempo le
richiedeva. Tutti gli altri prigionieri vennero divisi come schiavi
fra i barbari conquistatori, separati i genitori dai figli, i mariti
dalle mogli. Grandi furono le loro sofferenze, alleviate solo dalla
carità veramente eroica del vescovo Deogratias in Cartagine. Egli
trasformò le chiese in ospedali per i prigionieri ammalati; vendette
gli arredi sacri d'oro o argento, i vasi preziosi, per comprare e
liberare gli schiavi, riunire i figli ai genitori, i mariti alle mogli.
La sua chiesa divenne l'infermeria generale, nella quale egli, vecchio
com'era, assisteva giorno e notte i malati, fino a che ne morì di
fatica e di stento. I suoi fedeli lo seppellirono allora devotamente
in luogo segreto, per metterlo al sicuro dalle violenze ingiuriose dei
barbari. E così, in mezzo alla spaventosa rovina del mondo romano, solo
i rappresentanti della religione e della Chiesa sapevano dar prova
di umana dignità e di eroica grandezza. Certo è che col sacco dato
dai Vandali, l'antica Roma è caduta, la nuova già comincia a sorgere,
facendo prova d'una grandezza diversa, ma non meno ammirabile. La
gloria del Campidoglio più non esiste, comincia quella del Vaticano.
Lo sgomento in cui rimase l'Italia, dopo la partenza dei Vandali, fu
tale, che per alcuni mesi essa non pensò punto ad eleggersi un nuovo
Imperatore. Se ne occupò invece il re dei Visigoti, Teodorico II, il
quale, secondato dall'aristocrazia gallo-romana, radunata in Arles,
e dall'esercito romano, fece eleggere Avito, che nel luglio del 455
assunse la porpora. Questi era un nobile dell'Auvergne, valoroso
soldato di Ezio, che per mezzo suo era riuscito a concludere l'alleanza
dei Visigoti coi Romani contro Attila. Ma la sua elezione, come quella
che rappresentava la prevalenza della provincia e dei barbari, piacque
poco a Roma ed al Senato, sebbene venisse approvata a Costantinopoli.
Il pericolo maggiore per tutto l'Occidente, veniva adesso dai Vandali;
e perciò contro di essi Avito mandò il valoroso generale Ricimero,
figlio di padre svevo e di madre gota, il quale era loro acerrimo
nemico, e si mosse subito a combatterli. Nel 456 ottenne contro di essi
una clamorosa vittoria, secondo alcuni nelle acque della Sardegna,
secondo altri, della Corsica; ma in verità par che si combattesse
presso l'una e presso l'altra isola. Questa vittoria fece di Ricimero
un uomo più potente dello stesso Imperatore.
Egli si trovò a un tratto nella condizione medesima di Stilicone e di
Ezio. Se non che, fatto accorto dalla esperienza del passato, pensò
di non lasciarsi, come era seguito ad essi, disfare dagl'imperatori;
ma invece disfarsi egli di loro appena che li vedeva divenire a lui
pericolosi. E così, l'un dopo l'altro, ne mandò via dal mondo quattro,
sostituendoli con sue creature, alle quali serbava sempre la stessa
sorte. E fu questo il processo della finale distruzione dell'Impero
d'Occidente, che, per mezzo appunto di Ricimero, passò definitivamente
in mano dei barbari. Ciò avvenne non solo perchè un generale barbarico
come lui faceva e disfaceva a sua posta gl'imperatori, ma ancora
perchè, lasciando egli correre più mesi tra la morte dell'uno e
l'elezione dell'altro, l'Occidente restava qualche tempo senza un
proprio sovrano. E questi lunghi interregni finirono col persuadere,
che si poteva facilmente fare a meno di un Imperatore, sostituendovi un
barbaro, ciò che avvenne poi con Odoacre, che assunse il potere in suo
proprio nome.
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