Le invasioni barbariche in Italia - 04

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come i Gepidi che abitavano la Dacia settentrionale. Si convertì
solo una gran parte dei Visigoti, che abitavano al sud-ovest, e si
trovavano perciò a contatto coi Romani. A questa divisione religiosa se
ne aggiungeva anche una politica. Gli Ostrogoti avevano in Ermanrico,
della nobile famiglia degli Amali, un vero e proprio re, che come
tale avrebbe dovuto governare su tutti. Ma da essi s'erano separati i
Visigoti, dividendosi anche fra di loro. Alcuni di essi, rimasti sempre
pagani, stavano sotto Atanarico, ed erano avversi a quelli divenuti
cristiani, che, comandati invece da Fridigerno, si tenevano in assai
più stretta relazione coi Romani. Atanarico e Fridigerno portavano il
titolo di Giudici, forse perchè erano stati in origine di quei capi
di _Pagi_, ai quali, come vedemmo, gli scrittori romani davano nome di
_Principes_ o _Magistratus_, e che amministravano anche la giustizia.
Siffatte divisioni davano ragione a sperare, che, da questo lato
almeno, l'Impero potesse lungamente ancora restare sicuro. E ciò tanto
più che, quando nel 365 Procopio e Valente combattevan fra di loro, ed
una parte dei Visigoti passò il Danubio, per aiutare Procopio, Valente
che trionfò del suo competitore, potè, dopo averli ripetutamente
combattuti (367-69), costringerli a concludere la pace ed a ritirarsi.
Ma avvenimenti improvvisi ed inaspettati, che nessuna mente umana
avrebbe potuto mai prevedere, mutarono affatto lo stato delle cose.


CAPITOLO IV
Gli Unni

Tutti i popoli, che abbiamo finora incontrati, Greci, Romani, Celti,
Germani, appartengono alla stessa famiglia ariana, che dall'Asia
sud-ovest, movendosi per direzioni diverse, venne in Europa. Ma ora
comparisce per la prima volta sulla scena un popolo affatto nuovo, che
faceva parte di un'altra grande famiglia, sostanzialmente diversa, cui
si dà il nome di turanica. Esso era destinato ad avere, per qualche
tempo, non piccola parte nei destini dell'Impero.
In quel vasto altipiano dell'Asia centrale, che si distende dall'est
all'ovest fino ai Monti Ural, e trovasi fra la catena altaica e quella
del Tauro, il quale manda le sue diramazioni verso il sud, abita
una vasta moltitudine di popoli diversissimi. Sono all'occidente
i Finno-Ugri, più all'oriente i Turchi, i Mongoli, i Mandsciù. Non
ostante le molte e grandi loro diversità, essi hanno pure costumi
e caratteri etnografici comuni. Anche le molte e molto varie lingue
che parlano, sono tutte monosillabiche ed agglutinate. Le condizioni
d'un clima assai freddo, con un suolo poco fertile, con fiumi che non
irrigano abbastanza da poter rendere la terra coltivabile coll'aratro,
non hanno mai lasciato uscir dalla vita nomade quelle popolazioni,
che dimorano perciò nelle tende, circondate da numerosi armenti di
cavalli, di vacche, e secondo i luoghi, d'altri animali. Si cibano
principalmente di carne e di latte, dal quale cavano un liquore, che è
loro ordinaria bevanda. Si vestono di pelli, vivono a cavallo, occupati
sempre, quando non sono in guerra, della caccia anche d'animali feroci,
come la tigre, l'orso, il cignale salvatico. Oltre la tenda, non
hanno case, nè villaggi o città. Sono poligami e non conoscono altra
forma sociale che la famiglia e la tribù. Ma queste tribù aderiscono
facilmente le une alle altre, e quando trovano un capo valoroso che
le comandi, s'uniscono qualche volta in moltitudini sterminate. Le
quali, per la consuetudine che hanno di vivere in continuo moto, sempre
in armi, possono, senza alcuna difficoltà, recarsi, colle tende, i
carri, le donne, i bimbi, da una regione ad un'altra. Più volte queste
popolazioni ebbero una gran parte nei destini del mondo. Di tanto
in tanto le vediamo precipitarsi come valanghe dal loro altipiano,
inondando, sconvolgendo tutto, formando dei grandi imperi, che sembrano
un momento impadronirsi del mondo, per poi scomparire a un tratto con
la stessa rapidità con cui si sono formati, per dar luogo più tardi,
con uguale procedimento, alla rapida formazione d'altri imperi, che
progrediscono e spariscono del pari. I Mongoli, sotto i successori di
Gengis Kahn, combattevano nello stesso tempo in Silesia e sotto il
muro della China. È sempre un governo militare affidato a numerosi
capi di eserciti, i quali governano con assoluto dominio, pagando
solo un tributo al loro capo supremo. Qualche cosa di simile si vide
anche negli Arabi, sebbene d'altra indole, d'altra razza, i quali si
distesero dall'Indostan al Marocco, alla Sicilia ed alla Spagna. È
una forma primitiva ed inorganica di Stato, la quale sembra potersi
distendere all'infinito, sino a che l'amalgama dei vincitori coi vinti
non ne comincia la decomposizione, che procede anch'essa rapidamente.
Queste popolazioni dell'Asia centrale o turaniche, non portano nel
mondo nuove idee, ma spesso diffondono quelle degli altri popoli
coi quali vengono a contatto. Esse sembrano dalla Provvidenza
mantenute nelle loro prime sedi, in uno stato di perenne giovanezza
e barbarie, per agitare e rinvigorire il mondo, ogni volta che
intorpidisce e decade. A questa vasta famiglia di popoli appartenevano
gli Unni, ritenuti antenati degli Avari e di quei Magiari che più
tardi occuparono l'Ungheria, dove sono anche oggi. Erano Finni,
che dimoravano nell'Ural. Nel quarto secolo, spinti forse da altre
popolazioni più orientali, si precipitarono a un tratto verso il sud,
con una furia indicibile, ispirando un terrore universale, producendo
un grande spostamento di popolazioni verso l'occidente. Nel 374
piombarono sugli Alani, nella Russia orientale, e dopo averli disfatti,
ne aggregarono una parte ai loro eserciti, che così ingrossarono,
spingendosi fino alla Palude Meotide o Mare di Azov, dove si fermarono
alquanto, prima d'avanzarsi verso i Goti. Il grande terrore che
ispirarono in tutti apparisce assai chiaro nelle descrizioni che ce ne
lasciarono i cronisti, nelle leggende che intorno ad essi si formarono.
Jordanes, il più antico storico dei Goti, che nella metà del sesto
secolo, compilò la sua storia su quella che fu scritta da Cassiodoro,
e che andò poi perduta, dice di questi Unni, nomadi, pagani e
poligami: «Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun
condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne,
dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe e il dorso dei
cavalli che cavalcano. Piccoli di statura, agili di membra e robusti,
sempre a cavallo; la loro faccia, più che a viso umano, somiglia ad
un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti, invece
di occhi. Hanno pochissima barba, perchè usano tagliar col ferro il
viso dei loro bimbi, acciò imparino prima a sopportar le ferite, che
a gustare il materno latte. Adorano per loro Dio una spada infissa nel
suolo, e sotto forme umane vivono come animali. Nacquero dal connubio
di spiriti maligni con streghe cacciate nelle foreste dai Goti, alla
cui rovina esse li generarono. Questi medesimi spiriti furon quelli che
insegnarono loro la via da tenere nell'andare all'assalto dei Goti. E
fu in questo modo. Andando alcuni Unni a caccia, s'imbatterono in una
cerva misteriosa, la quale, volgendosi nel suo cammino continuamente
indietro, pareva li invitasse a seguirla. Così fecero. E dopo che essa
ebbe, camminando, mostrato loro come e dove poteva facilmente passarsi
la Palude Meotide, scomparve a un tratto, segno manifesto che essa era
veramente uno degli spiriti maligni avversi ai Goti.»
Certo è che da un momento all'altro gli Unni si precipitarono contro
gli Ostrogoti, con impeto tale che il resistere divenne impossibile.
Il capo degli Ostrogoti, Ermanrico, si uccise colle proprie mani; i
suoi, dopo essere stati affatto sgominati, finirono coll'aggregarsi
all'esercito unno. E così continuarono per ottant'anni circa,
rinunziando alla loro nazionale indipendenza, ma restando uniti sotto
propri capi. In questo modo gli Unni, sempre più ingrossati, sempre
avanzando, arrivarono al fiume Dniester, al di là del quale erano i
Visigoti. Lo passarono improvvisamente di notte (376), assalendo i
Visigoti di Atanarico, ed incutendo loro tale spavento, che una parte
di essi si rifugiò nei Carpazi, un'altra andò nella Dacia occidentale,
dove erano i Visigoti di Fritigerno, ai quali si unirono, comunicando
loro il proprio spavento. E fu tale questo spavento che, sebbene
Fritigerno fosse assai valoroso e si trovasse, come affermano, alla
testa di 200,000 armati, non potè pensare ad altro che a mettersi
in salvo, insieme ai suoi, colla fuga. Fu uno spettacolo non mai più
visto. Un esercito numerosissimo, con le donne, i vecchi, i bimbi, le
loro suppellettili sui carri, sulle spalle; una moltitudine di gente,
che si fa ascendere ad un milione, correva al Danubio, per passarlo e
mettersi sotto la protezione dell'Impero. I soldati romani cercarono
dapprima impedire questa specie di inondazione umana. Alcuni infatti
vennero colle armi respinti nel fiume dove affogarono. Ma come si
poteva resistere ad un milione di persone d'ogni sesso ed età, che si
avanzavano tremando, e colle mani in alto imploravano pietà, accecati,
impazzati dalla paura, la quale comunicava ad essi un impeto più
irresistibile d'ogni coraggio? Fritigerno dichiarò, che essi erano
pronti a servire sotto le bandiere romane, accettando ogni condizione.
Ma chi gli poteva credere? Chi poteva prevedere che cosa sarebbe
seguito? E chi poteva resistere?
Imperatore d'Oriente era allora Valente, che da suo fratello
Valentiniano I era stato associato all'Impero, e dopo avere domata la
ribellione di Procopio, regnava sicuro. Di natura debole ed incerta,
non vedendo nessuna possibilità di fermare l'onda che s'avanzava,
s'illuse nella speranza che l'acquistare un esercito di 200,000 uomini
dovesse riuscire utile all'Impero. E concesse loro il passaggio. I
patti furono che dovessero cominciare col deporre le armi e consegnare
ostaggi. Ma quali patti si potevano in tanta confusione mantenere?
E come trovare a un tratto vettovaglie per un milione di persone
sopravvenute all'improvviso? Si principiò col numerarli e disarmarli.
Ma poi bisognò subito smettere. Alcuni già morivano estenuati dalla
fame, altri senza dare ascolto s'avanzavano chiedendo, implorando da
mangiare. Gli ufficiali romani, profittando di ciò, cominciarono a
vendere cibi d'ogni sorta, anche corrotti, ad altissimo prezzo. Ed
i Goti, che eran pronti a tutto, meno che a cedere le armi, davano
denaro, suppellettili, stoffe, per aver da mangiare. Si dice, che
alcuni, pur di non veder morire di fame le mogli e i figli, s'indussero
a venderli schiavi.
E così un milione di barbari, duecentomila dei quali in armi, si
trovavano dentro l'Impero. Non il valore, non la vittoria, ma la paura
e la fuga avevano loro aperto la via. Ma intanto erano entrati, ed
erano sofferenti, affamati, irritati per le violenze ed ingiustizie
patite. Fritigerno, uomo valoroso, cercò subito raccogliere ed ordinare
i soldati, ristabilire su di essi la disciplina, far rinascere la
coscienza del proprio valore, della propria forza. Nel che egli era
secondato dall'arrivo di sempre nuovi Visigoti ed Ostrogoti che,
passato il Danubio, venivano a raggiungerlo, e dalle simpatie mal
represse, che i barbari dell'esercito imperiale mostravano per lui ed
i suoi. Ben presto si trasferì con essi a Marcianopoli, capitale della
Mesia, a settanta miglia dal Danubio. Ivi i Goti si dimostrarono subito
uniti e pronti a procurarsi da vivere anche colla forza delle armi. E
si capì allora quali gravi conseguenze era per portare la decisione
presa da Valente di lasciarli venire. Ma come avrebbe egli potuto
impedire che un fiume così impetuoso, rotto l'argine, straripasse?
La diffidenza fu subito da una parte e dall'altra grandissima. Si
narra che, avendo il generale romano Lupicino invitato a banchetto
i capi dei Goti, essi vennero, pieni di sospetto, con una scorta
numerosa. E quando s'era ancora a banchetto, s'udirono grida di
Goti e Romani venuti fra di loro alle mani. Fritigerno, sguainata la
spada, uscì fuori, ponendosi senza indugio alla testa de' suoi. Ben
presto, a poche miglia dalla città, vi fu uno scontro (377), nel quale
Lupicino e gl'imperiali furono battuti. Quel giorno, scrive Jordanes,
pose fine alle calamità dei barbari ed alla sicurezza dei Romani.
Ed in parte era vero. La battaglia era stata per sè stessa di poco
momento, ma grandissime ne furono le conseguenze morali. Coloro che
erano entrati nell'Impero come fuggiaschi, implorando pietoso aiuto,
s'erano a un tratto mutati in numerosi e minacciosi aggressori, che
liberamente percorrevano la Tracia, saccheggiando. Tuttavia quando
essi circondarono Adrianopoli, vennero facilmente respinti, giacchè,
prima delle armi da fuoco, le mura delle città presentavano al nemico
ostacoli quasi sempre insuperabili. Ritiratisi nella Dobruscia, furono
dai Romani assaliti, con impeto degno degli antichi tempi, in un campo
trincerato dai carri e bagagli; ed ebbe luogo una seconda battaglia,
che essendo stata d'esito incerto, ne rese inevitabile una terza.
L'imperatore Valente, che in questo mezzo era a combattere i Persiani,
saputo della ribellione dei Goti, concluse in fretta la pace, per
venire con le sue genti ad affrontarli. Il 9 agosto 378, a dodici
miglia da Adrianopoli, ebbe luogo una grossa e decisiva battaglia,
nella quale il valore dei soldati romani dette splendida prova di sè;
ma vennero guidati con una così inesplicabile incapacità, che la loro
disfatta fu inevitabile. Dopo una lunga marcia, sotto il sole ardente
di agosto, si trovarono di fronte al nemico, in un luogo così stretto,
che non potevano muoversi nè fare libero uso delle proprie armi.
Quarantamila di essi incontrarono eroicamente la morte. Di Valente,
che era nella battaglia, non si seppe più nulla, e ne fu quindi
in diversi modi narrata la fine. La disfatta fu grande, ed alcuni
scrittori, esagerando non poco, la paragonarono a quella di Canne.
Certo è che quando i Goti si riprovarono ad attaccare Adrianopoli, dove
era il tesoro imperiale, vennero respinti con una energia che non si
aspettavano. E quando si ritirarono saccheggiando, dando poi l'assalto
alle mura di Costantinopoli, ebbero una lezione anche più severa.
La cavalleria saracena, assoldata dall'Impero, li inseguì, sui suoi
cavalli arabi, con una fulminea rapidità, e con un furore addirittura
selvaggio. Uno di essi fu visto correre nudo sul suo cavallo, inseguire
un Goto, raggiungerlo, sgozzarlo e beverne il sangue. Ciò mise un gran
terrore, perchè i barbari avevano trovato chi era più barbaro di loro.


CAPITOLO V
Teodosio

In Oriente adunque non v'era più un Imperatore, e l'esercito era
stato battuto. In Occidente, a Valentiniano I era successo il figlio
Graziano, il quale, per volere delle legioni, aveva dovuto assumere a
compagno il fratellastro Valentiniano II, di soli quattro anni, messo
perciò sotto la reggenza della madre Giustina, celebre per la sua
bellezza, superata da quella più celebre ancora della figlia Galla.
Graziano dette a Valentiniano, cioè alla madre che ne faceva le veci,
il governo dell'Italia e dell'Africa. Egli intanto teneva fronte
valorosamente, nella Gallia e nella Rezia, ai barbari che cercavano
avanzarsi da quel lato. Urgeva però pensare anche all'Oriente, dove
il pericolo era maggiore e più vicino. Consapevole della gravità d'un
tale stato di cose, e della generale ansietà in cui tutti perciò si
trovavano, egli prese una risoluzione assai fortunata. Elesse a suo
compagno per l'Oriente Teodosio, nato nella Spagna, la quale aveva
già dato grandi imperatori quali Adriano e Traiano. Teodosio era noto
pel suo valor militare, per la sua prudenza, e quindi la scelta venne
accolta con generale favore.
Senza perdere tempo, egli si recò a Tessalonica, punto strategico, dove
raccolse e riordinò l'esercito, cominciando a provarlo in una serie
di fortunate scaramucce, che ne rialzarono l'animo, deprimendo quello
dei Goti. E quando, per la morte del loro capo Fridigerno, questi
cominciarono a dividersi, egli ne seppe profittare, fomentando sempre
più la loro discordia, accogliendone parecchi sotto le sue bandiere,
mostrandosi loro favorevole per modo, che si fece la reputazione
d'amico dei Goti. E così potè nel 382 concludere una capitolazione,
con la quale venne ad essi concesso d'abitare stabilmente nella Tracia
come _foederati_. Quali fossero con precisione i patti, nei loro
più minuti particolari, noi non lo sappiamo. I Goti restavano come
amici nell'Impero, di cui riconoscevano l'autorità, obbligandosi a
difenderlo con le armi, ad ogni richiesta. Ebbero case da abitare,
terre da coltivare, e i soldati ricevevano anche paga in danaro o in
grano. Ma non facevano parte dell'esercito imperiale; restavano uniti
come un popolo a sè, sotto i loro propri capi. E qui era il pericolo.
Certamente se si pensa che Teodosio li aveva trovati nemici, armati,
minacciosi, che scorrevano e saccheggiavano liberamente il paese, senza
che fosse possibile ormai cacciare al di là del Danubio, e molto meno
distruggere un milione d'uomini, la capitolazione conclusa fu un savio
atto di governo. E tale venne generalmente tenuta. Ma intanto l'Impero
s'era messo la serpe nel seno. Questi barbari, che potevano da un
momento all'altro insorgere, erano il richiamo continuo di altri, i
quali passavano il Danubio alla spicciolata, o disertavano le bandiere
romane, o spezzavano le catene della schiavitù.
Tuttavia, finchè visse, mercè la sua prudenza e la sua fermezza,
Teodosio non ebbe dai Goti altre noie. E la fortuna lo secondava ogni
giorno più. Graziano sembrava divenuto adesso un altro uomo. Trascurava
il governo e dimostrava un eccessivo favore ai soldati barbarici, per
il che le legioni romane, ingelosite, lo deposero, gli dettero per
successore Massimo (383), e poi lo uccisero. Massimo ambiva di governar
tutto l'Occidente, e quindi, dopo i primi accordi, venne in dissenso
con Valentiniano II. Corse in Italia, obbligandolo a fuggirsene con la
madre e la sorella in Costantinopoli, dove chiesero aiuto a Teodosio.
E questi dapprima esitò, avendo già troppo da fare. Sentiva però i
vincoli di gratitudine verso la famiglia di Valentiniano II, e s'era
innamorato della sorella di Valentiniano II, che poi sposò, e che ora
insieme colla madre lo spingeva alla vendetta. Così fu che nel 388 lo
vediamo sulla Sava, alla testa d'un esercito, respingere Massimo, che
poi ad Aquileia fu disfatto ed ucciso.
Giustina allora potè tornare in Italia col figlio Valentiniano II,
che aveva ormai diciassette anni. Questi era intanto caduto sotto
l'assoluto dominio del generale franco Arbogaste, che, essendosi in
Aquileia condotto con gran valore, ed avendo colle proprie mani ucciso
il figlio di Massimo, pretendeva ora farla addirittura da padrone.
Tutto ciò lo fece venire in grande contrasto con Valentiniano, il quale
voleva ora mandarlo via. Ma l'insolenza del soldato franco crebbe a tal
segno, che l'Imperatore, perduta la pazienza, pose mano alla spada per
ucciderlo. Ne fu allora trattenuto dai suoi; ma poco dopo lo troviamo
morto (15 maggio 392). Chi disse che s'era ucciso, chi invece che era
stato ammazzato dai seguaci d'Arbogaste.
Questi era pagano, e fu il primo generale barbarico che osò farla
da Imperatore romano, non di nome, ma di fatto, esempio che vedremo
d'ora in poi molte volte imitato. Egli, come seguì poi sempre a
questi barbari, non osava salire sul trono, assumendo in proprio nome
l'Impero. Elesse invece il retore Eugenio, che doveva assumere la
porpora, ed essere suo docile strumento. Infatti, sebbene cristiano,
Eugenio, per secondare Arbogaste, si diede a favorire i Pagani, ancora
abbastanza numerosi in Roma. Così credeva di trovar seguito contro
Teodosio; ma invece gli accrebbe forza. Questi infatti veniva ora
spinto alla guerra non solo da ragioni politiche, ma anche dalla moglie
Galla, che voleva vendicar la morte del proprio fratello Valentiniano,
e dai vescovi, dal clero, dal popolo, che lo incitavano a difesa della
religione cristiana. Si decise quindi a prendere le armi. Se non che,
sapendo che il generale franco aveva grande valore e molta autorità sui
propri soldati, si apparecchiò per due anni interi all'impresa (393-4).
La quale fu ritardata anche dalla morte dell'imperatrice Galla (maggio
394), che gli lasciò una figlia, Galla Placidia, più bella della
bellissima madre, e destinata, in quel secolo corrotto, ad esercitare
un gran potere politico, in mezzo ad una serie di strane vicende.
Riavutosi appena dal suo dolore, Teodosio mosse finalmente alla testa
d'un poderoso esercito. Ne facevano parte, fra gli altri, ventimila
Goti federati, sotto il comando dei loro migliori generali, e con essi
era anche il giovane Alarico, destinato a maggiori imprese ed a grande
fama. Percorrendo la stessa via tenuta già per combattere Massimo,
presso il fiume Frigido, in un punto equidistante da Emona (Laybach) ed
Aquileia, Teodosio s'affrontò col nemico. La battaglia continuò per due
giorni con varia fortuna. Ma finalmente, favorito anche dall'impetuoso
vento Bora, che suole infierire colà, ed allora soffiava in viso al
nemico, il 6 settembre 394 Teodosio ottenne piena vittoria. Eugenio fu
preso dai soldati, che gli tagliarono la testa, ed Arbogaste, quando
ebbe perduto ogni speranza, si gettò da Romano sulla propria spada.
Questa vittoria di Teodosio ebbe una grande importanza storica. Per
essa l'Impero rimase politicamente riunito sotto di lui, che lo tenne
con mano assai ferma. Aveva nello stesso tempo distrutto gli ultimi
avanzi del partito pagano, e potè quindi ricostituire anche l'unità
religiosa col trionfo, in Oriente ed in Occidente, della dottrina di
Atanasio, alla quale, sin dal principio del suo regno, egli era restato
sempre fedele. Tutto questo determina il valore storico di Teodosio, ed
è ciò che gli fece giustamente avere il nome di Grande.
Per la sua ferma adesione alla dottrina ortodossa, egli riuscì a
stringere anche il connubio dell'Impero colla Chiesa più che non
avesse potuto fare lo stesso imperatore Costantino. E la Chiesa se ne
giovò grandemente, facendo rapidi progressi, come si vide nel gran
numero che ebbe allora d'uomini eminenti per carattere e dottrina,
quali S. Basilio, S. Gregorio Nazianzeno, S. Girolamo e S. Ambrogio,
il celebre vescovo di Milano. Questo fu anche il tempo in cui s'andò
formando la teologia latina, la quale si può veramente dire che sia
insieme religione, filosofia e disciplina ecclesiastica. Essa mira
sopra tutto a tener ferma l'unità della fede, l'autorità universale
e la forza politica della Chiesa. Un altro dei grandi personaggi di
questo tempo fu Damaso, il vescovo di Roma, che successe a Liberio
(366). Egli ascese sulla sedia episcopale, in mezzo ad un violento
tumulto; proclamò subito il principio che la Chiesa di Roma è superiore
alle altre, che gli ecclesiastici solo da ecclesiastici debbono essere
giudicati.
Ma per quanto il connubio della Chiesa e dell'Impero desse forza
all'una ed all'altro, v'erano in esso i germi di futuri conflitti,
come si vide fin dai tempi di Teodosio. Egli era molto amico del lusso
e delle spese, per tenere sempre più alto lo splendore e la dignità
del suo grado. Ma ciò portava aumento di tasse, il che fu causa di
replicati tumulti. In uno dei quali, seguito in Antiochia, le statue
dell'Imperatore furono rovesciate, il suo nome venne ingiuriato. Questa
volta egli finì coll'usare clemenza. Più tardi però, nel 390, un altro
assai più grave tumulto si ripetè a Tessalonica, e ne fu pretesto
l'imprigionamento d'un auriga del Circo. Un generale e parecchi
ufficiali vennero uccisi, i loro cadaveri furono ignominiosamente
trascinati per le vie. Teodosio, che era allora a Milano, rimase di
ciò tanto sdegnato, che ordinò una punizione esemplare, anzi feroce,
senza distinguere innocenti o colpevoli. Si parla di settemila uccisi,
che alcuni fanno ascendere fino a quindicimila: certo è che il sangue
corse a fiumi. E fu allora che il vescovo di Milano, S. Ambrogio, gli
scrisse una lettera che è pervenuta sino a noi (Ep. 51), nella quale,
condannando l'eccidio, lo invitava a penitenza, giacchè non avrebbe,
egli diceva, potuto far entrare nel tempio del Signore, per pigliar
parte alle sacre cerimonie, chi aveva ancora bagnate le mani del sangue
di tanti innocenti.
S. Ambrogio era certo uno dei caratteri più notevoli del secolo, uno
di coloro che dimostravan chiaro il rigoglio, la forza che andava
prendendo la Chiesa in Italia. Disceso da una delle più nobili famiglie
romane, tenne prima alti uffici politici, e fu poi nel 374 vescovo di
Milano, dove il popolo lo adorava. Nel 386 ebbe la fortuna e l'onore
di convertire S. Agostino alla religione cristiana. In lui la fermezza
della fede era uguale alla energia indomabile del carattere. Nel
385 non volle nella sua diocesi concedere alla imperatrice Giustina
neppure una sola chiesa pel culto ariano. Nè fu possibile rimuoverlo.
— L'Impero, egli disse allora, può disporre dei palazzi terreni, non
della casa del Signore, nella quale non comanda la forza. — Quando,
per minacciarlo, furono a lui mandati i soldati goti, egli li affrontò
dinanzi alla chiesa, domandando loro: se era per invadere la casa del
Signore, che avevano chiesto la protezione della Repubblica. E quando
l'Imperatore sparse il sangue degli eretici, seguaci di Priscilliano,
egli lo biasimò severamente. Nè meno severamente lo biasimò, quando
ordinava che fosse ricostruita una sinagoga bruciata dal popolo. —
Il vescovo, così gli scrisse allora, che avesse obbedito ad un tale
ordine, sarebbe stato un traditore del suo ufficio. Non si deve
ricostruire la casa in cui si rinnega il nostro Signore Gesù Cristo.
— E nella basilica, dinanzi all'Imperatore, ripetè le stesse cose,
aggiungendo che questi doveva lasciare libertà di parola al sacerdote,
cui non è lecito nascondere il proprio pensiero. In armonia con tale
suo procedere era la lettera cui accennammo, scritta quando avvennero
le stragi di Tessalonica.
Si aggiunge da alcuni scrittori che, quando Teodosio si provò ad
entrare nella basilica, S. Ambrogio lo fermò sulla soglia dicendogli: —
Se la tua mondana potenza ti acceca a questo segno, ricordati che anche
tu sei uomo, e devi perciò tornar nella polvere, rendere conto a Dio
del tuo operato. Le anime di coloro che hai uccisi sono sacre quanto la
tua. — Allora Teodosio avrebbe mandato a piegar l'animo indomito del
vescovo, il suo ministro Rufino, quello stesso che lo aveva incitato
alla strage di Tessalonica. E questi si provò dapprima colle lusinghe;
ma quando si vide sdegnosamente respinto, disse che l'Imperatore
sarebbe in ogni modo entrato. Allora S. Ambrogio rispose: — Dovrà
passare sul mio cadavere. — La leggenda ha voluto con tutti questi
minuti particolari colorire un fatto vero; ed essi servono mirabilmente
a ritrarre il carattere dell'uomo. Per entrare nel tempio Teodosio
dovette piegarsi dinanzi a S. Ambrogio, e far penitenza (25 dicembre
390), ripetendo il Salmo CIX. 25: «L'anima mia è attaccata alla
polvere; vivificami secondo la tua parola.» Nulla certo è più nobile
d'una condotta così ferma, così eroica. Essa è anche una prova visibile
della straordinaria potenza che aveva allora assunto la Chiesa, che
andava di fatto formando in Italia una generazione nuova di uomini,
ai quali spettava l'avvenire. Ma se tale era di fronte all'Impero
l'ardimento d'un vescovo di Milano, quale sarebbe mai stato quello del
Papa? A questa domanda risponde pur troppo tutta la storia del Medio
Evo.
E se i germi di futuri conflitti erano nascosti nel connubio, che
Teodosio aveva stretto fra l'Impero e la Chiesa, non minori pericoli
minacciavano nell'avvenire le condizioni politiche generali, come si
cominciò a vedere subito dopo la morte di lui, seguita nella sua età
di cinquanta anni, a Milano, il 17 gennaio 395, quattro mesi circa
dopo quella grande battaglia del Frigido, che sembrava aver dato
un assetto definitivo all'Impero. Certo Teodosio lo aveva trovato
diviso, disordinato, minacciato; e potè ricostituirlo, riunendolo
ed infondendogli nuova vita. Ma era pur troppo una ricostituzione
solamente temporanea. Sul Danubio, sul Reno, in Persia il pericolo
non era mai cessato, era anzi sempre cresciuto. I Goti si trovavano
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