Le invasioni barbariche in Italia - 07

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era il solo uomo degno di succedergli.
La forma leggendaria di questo racconto apparisce a prima vista, e
ricorda molte altre simili leggende. Infatti anche la invasione della
Gallia nel 406, sarebbe, secondo la leggenda, avvenuta per tradimento
di Stilicone, come più tardi la venuta dei Longobardi in Italia, per
vendetta di Narsete. È sempre lo stesso procedimento, che spiega i
fatti d'indole generale con cause esclusivamente personali, le quali
certo non mancano anch'esse nella storia, ma non sono le sole. Il vero
è che, secondo ogni probabilità, Ezio si trovava allora a combattere
per l'Impero nella Gallia, e se anche vi fu inganno o tradimento ordito
a Ravenna, non potè essere opera sua. Ma non c'è bisogno di ricorrere a
queste spiegazioni, quando la guerra scoppiata in Africa fra i generali
romani poteva per sè stessa essere un eccitamento bastevole pei Vandali
a venire nel paese, che era il granaio dell'Impero. E s'aggiungeva che
l'Africa, dove i Mori spesso si ribellavano, era allora fieramente
travagliata anche dalle sette eretiche dei Donatisti, che negavano
l'efficacia del battesimo dato da un sacerdote caduto in peccato, e
dei così detti _Circumcelliones_, specie di fanatici vagabondi, che
agitavano le moltitudini. Tutti costoro, perseguitati dagli editti di
Onorio contro gli eretici, e però avversissimi ai Cattolici, favorivano
naturalmente quelli che venivano a combatterli, come i Vandali che
erano ariani intolleranti. Così, senza escludere che in mezzo alle
passioni di queste lotte civili e religiose, essi fossero da qualche
parte incoraggiati o anche chiamati, si spiega assai naturalmente come
nel 429 passassero in Africa, mossi dal loro proprio interesse, ed
occupassero la Mauritania, avanzandosi verso l'Oriente.[18]
I Vandali avevano stretta parentela coi Goti, insieme coi quali s'erano
in origine trovati fra l'Elba e la Vistola. Di là, avanzando verso il
sud, presero parte alle guerre dei Marcomanni contro Marco Aurelio.
Dopo di che si mantennero lungamente tranquilli, in buone relazioni
coll'Impero, che a tempo di Costantino li accolse come federati nella
Pannonia, dove restarono circa settant'anni. Quando Stilicone, per
opporsi ad Alarico, chiamò in Italia le legioni che guardavano il
Reno, essi, come vedemmo, passarono il fiume insieme cogli Alani, cogli
Svevi, e nel 409 erano già nella Spagna. Più di una volta si trovarono
in lotta coi Goti, dai quali vennero battuti; ed ebbero perciò la
reputazione di poco valorosi, come avevano già quella d'avidi, infidi
e crudeli fra tutti i barbari. Erano più sobri nei costumi, ma anche
più ardenti nello zelo religioso, che li spingeva ad una intolleranza
insolita nei barbari e qualche volta addirittura feroce. Nel 427 li
troviamo riorganizzati sotto Genserico, che per la morte del fratello
era rimasto unico loro capo. Piccolo e zoppo, in conseguenza d'una
caduta da cavallo, di poche parole, ma di pronta risoluzione, era
audace e crudele. Ariano al pari di tutti i Vandali, lo dissero, non
si sa con qual fondamento, convertito a questa fede, rinnegando il
Cattolicismo, in cui sarebbe nato, e quindi, come suole in questi
casi, tanto più intollerante. Dopo avere sostenuto nel 428 un attacco
fortunato contro gli Svevi, lo troviamo l'anno seguente in Africa, dove
era andato colle donne, i vecchi e fanciulli: una vera invasione. Gli
uomini in armi non superavano i 50,000.
Questo non era di certo un numero tale da poter facilmente conquistare
il paese, se non fosse stato già indebolito dalle discordie, e se
non vi si fosse trovato un partito favorevole agl'invasori. Essi
s'avanzarono saccheggiando, distruggendo le chiese cattoliche,
uccidendo vescovi e preti, molti dei quali fecero schiavi. E poterono
procedere così rapidamente che nel 430 tre sole delle principali
città, Citra, Ippona e Cartagine, erano ancora in mano dei Romani.
Bonifazio s'era ormai svegliato dalla sua inerzia, e quando i Vandali
s'avanzarono, per mettere l'assedio ad Ippona, venne con essi a
battaglia; ma fu vinto, e dovè chiudersi nella città che venne
assediata. In essa trovavasi S. Agostino, il quale morì il 28 agosto
430, dopo tre mesi di quell'assedio, che ne durò poi altri undici.
Allora, essendo finalmente arrivati da Costantinopoli aiuti sotto il
comando del generale Aspar, i Vandali si allontanarono dalla città, e
Bonifazio, unitosi ai Bizantini, li assalì; ma venne di nuovo battuto
(431). Conseguenza di questa disfatta fu che l'Africa si trovò per
qualche tempo come abbandonata al nemico. Aspar tornò a Costantinopoli,
Bonifazio a Ravenna, dove Placidia, ricordando i servigi che questi
le aveva resi, quando essa era combattuta da Ezio, la cui presunzione
cresceva sempre, lo accolse con gran favore, facendo capire a tutti che
lo preferiva. Così l'odio fra i due generali si accese, e finalmente
vennero presso Rimini a battaglia. Secondo alcuni Bonifazio vinse,
ma ebbe una ferita mortale, di cui poco dopo morì. Secondo altri, la
vittoria invece fu di Ezio, il quale potè prendere i beni del rivale,
e sposarne la vedova, quando esso poco dopo morì di malattia aggravata
o cagionata dalla umiliazione patita. E da ciò sarebbe poi venuta
la leggenda del duello, e della raccomandazione fatta dal morente
Bonifazio alla moglie di sposare il rivale fortunato.
Lo stato delle cose a Ravenna non era di certo consolante. Placidia,
dopo la disfatta di Bonifazio in Africa, e dopo la morte di lui seguita
in Italia, trovavasi alla mercè di Ezio, il solo generale valoroso
che ella ora avesse. E questi, sempre ambizioso, diveniva ogni giorno
più imperioso. La Gallia e la Spagna erano corse dai barbari, che
d'ogni parte s'avanzavano; i Vandali correvano anch'essi liberamente
saccheggiando l'Africa. Questi erano però in così piccolo numero di
fronte alla vastità del paese occupato, da non sentirsi punto sicuri
di resistere vittoriosamente ad un esercito che venisse da Ravenna, e
che poteva essere rinforzato da nuove genti mandate da Costantinopoli.
E così da ambo i lati si trovarono disposti, pel momento almeno, alla
pace, che fu infatti conclusa il dì 11 febbraio 435 ad Ippona. Ai
Vandali venne concesso d'abitare il paese già conquistato, compresa
una parte della provincia di Cartagine; non la città stessa, nè il suo
territorio, che restavano ancora ai Romani, cui si doveva pagare un
tributo. Ma ben presto i patti furono violati, e nel 439 Genserico,
profittando della guerra che i Romani avevano nella Gallia, s'impadronì
di Cartagine. Essendo così in possesso dei migliori porti della costa,
cominciò le sue escursioni marittime nelle isole vicine, massime in
Sicilia, dove già sin dal 440 s'era avanzato saccheggiando. Intanto
crescevano per l'Impero i pericoli nella Gallia, dove sempre nuove
genti erano richieste; e si venne perciò nel 442 ad una seconda
pace, per la quale i Romani ritenevano la Mauritania e la Numidia
occidentale; ai Vandali restavano la Sicilia, la provincia di Cartagine
o Proconsolare, la Bizacena, la Numidia orientale. Allora cominciava
a governare in Ravenna Valentiniano III, che aveva ormai raggiunto la
maggiore età, e fin dal 437 aveva sposato Eudossia, figlia di Teodosio
II.
Con la pace del 442 ai Vandali non era stato solamente permesso
d'abitare il paese come federati; era stata invece fatta una
concessione incondizionata d'occuparlo, il che finora non s'era
consentito mai a nessuno dei barbari. Si ammetteva così un vero e
proprio smembramento dell'Impero; cominciava uno stato di cose affatto
nuovo. Bisogna però notare che, sebbene i Vandali fossero tenuti,
ed erano veramente fra i barbari più crudeli, la loro occupazione
riusciva, sopra tutto alle classi inferiori, assai meno gravosa che
non si è creduto. Essi si concentrarono principalmente nella provincia
di Cartagine, tenendosi uniti, ed impadronendosi delle terre, che
divisero fra di loro, possedendole senza pagar tasse. Nelle circostanti
province Genserico serbò per sè vasti possessi. Quelli che in tutto
ciò gravissimamente soffrirono furono i latifondisti, spogliati di ogni
avere, ridotti, quando non emigravano, alla condizione di ministeriali,
dipendenti, qualche volta anche di schiavi; costretti ad amministrare
o coltivare pei Vandali le terre che una volta avevano possedute, a
cedere perfino la loro proprietà mobile. E con essi venne oppresso
il clero, che era anch'esso latifondista, e che dai Vandali ariani
fu sempre crudelmente trattato. I coloni, i contadini, gli artigiani
delle città rimasero più o meno nelle condizioni di prima. E la stessa
oppressione dei grandi proprietari non fu generale, restringendosi
principalmente alla provincia di Cartagine. Il territorio occupato
era così vasto, che la parte maggiore sfuggiva di necessità non solo
alla oppressione, ma anche all'azione diretta del nuovo governo,
troppo rozzo e primitivo, in confronto del romano, per far sentire
al pari di questo il peso della sua fiscalità. Le altre province
furono come abbandonate a loro stesse, lasciandovi i Vandali l'antica
amministrazione romana, sottoponendole a gravi tasse, che tuttavia
non raggiunsero mai la regolarità persistente, continua, opprimente di
quelle riscosse dagli agenti imperiali. Qualche cosa di simile avvenne
anche nella Spagna e nella Gallia, dove si lasciarono sopravvivere
le assemblee provinciali dei notabili per gli affari amministrativi.
Colà i Visigoti ed i Burgundi pigliarono due terzi delle terre. Ma
anche questo peso, per quanto odioso, ricadeva principalmente sui
soli latifondisti. Nell'Africa, è vero, la oppressione esercitata dai
Vandali fu più grave assai; era, però limitata ad una parte sola del
territorio occupato. Grande fu nondimeno contro di essi l'odio degli
spossessati e di tutto il clero, il quale, dove non veniva espropriato,
era oppresso dalla intolleranza religiosa. E così si mantenne sempre
vivo un rancore universale, anche da parte di coloro che erano meno
oppressi, il che fu poi causa non ultima della rapida rovina dei
Vandali quando i Bizantini vennero in Africa. Ma che la oppressione
barbarica fosse davvero minore che non si crede, è confermato dal fatto
che Salviano, scrittore del quinto secolo, dopo aver detto «che tutto
nei barbari, persino il loro stesso odore, era odioso ai Romani,»
poteva aggiungere, «che assai spesso questi, specialmente i poveri,
preferivano la oppressione barbarica alla imperiale. Le assemblee dei
ricchi Romani, egli diceva, impongono le tasse, ma essi non le pagano,
le fanno pagare ai poveri. E quando per caso vengono scemate, il
sollievo non va a questi, ma ai ricchi. Così, se si tratta di pagare
tocca al popolo; se invece si tratta di scemare il peso delle tasse, si
opera allora come se le pagassero solamente i ricchi. I Franchi, gli
Unni, i Vandali ed i Goti non conoscono queste infamie.»[19] Bisogna
però aggiungere che tutto ciò non era effetto di virtù o sentimento
di giustizia; era invece conseguenza naturale d'un governo troppo
imperfetto e rozzo, per riuscire a stendere su tutto il paese occupato
una fitta rete amministrativa, cui nulla potesse sfuggire.
In questo mezzo Galla Placidia, che aveva quasi raggiunto i
sessant'anni, moriva (27 novembre 450). Essa non ebbe di certo nè
un grande ingegno nè un grande carattere; ma la sua accortezza e
fermezza, paragonate con la incapacità di suo figlio, parvero a
molti assai maggiori che non furono. Essa potè continuare a governare
per un quarto di secolo fin quasi alla sua morte; ed in un tempo di
aspre lotte religiose, essendosi appoggiata costantemente al clero
cattolico, questo assai naturalmente ne esaltò la memoria. Sostenuta,
come figlia di Teodosio, dal principio della ereditaria legittimità,
che le assicurava il favore di Costantinopoli; aiutata non poco dalla
sua straordinaria bellezza, che le dava un grande ascendente sugli
uomini, potè esercitare un'azione efficace e costante sulla politica
del suo tempo. Chi anche oggi visita Ravenna, città unica al mondo
pei monumenti del quinto secolo, che sola possiede in Italia, e vede
le molte chiese innalzate colà da Placidia, in una delle quali essa
ha la sua tomba accanto a quella d'Onorio suo fratello, di Costanzo
suo marito e del loro figlio Valentiniano; chi vede i molti monumenti,
gli splendidi mosaici, e ode le varie leggende che la ricordano, deve
riconoscere la grande azione esercitata da lei in Ravenna. Il suo
spirito sembra anche oggi presente fra quelle mura. Ma con tutto ciò,
in parte per le condizioni dei tempi, in parte per le qualità stesse
che ella ebbe, la politica che intorno a lei si fece fu una politica
d'intrighi e di gelosie. E non ostante qualche guerra condotta,
tanto nell'Africa quanto nella Gallia, con molto valore, ma con poca
fortuna, si finì col veder l'Impero andarsi sempre più decomponendo
e smembrando. Sotto di lei infatti le province cominciarono, l'una
dopo l'altra, a staccarsi dall'Italia, che rimase come isolata ed
abbandonata a se stessa. Morendo, Placidia lasciava l'Impero nelle mani
deboli ed incapaci del figlio Valentiniano III, in un momento che era
già grave, e stava per divenire gravissimo.


CAPITOLO IX
Attila e gli Unni — La battaglia di Châlons — Il generale Ezio — Papa
Leone I

Il problema che si presentava adesso nella storia di Europa, osserva
il Ranke, era questo: i popoli latini e germanici, variamente sparsi e
mescolati fra di loro, potevano amalgamarsi, fondersi insieme, dando
origine ad un popolo solo, ad una civiltà nuova? O pure uno di essi
doveva necessariamente sottomettere l'altro, levandogli del tutto la
propria fisonomia? Un grande ed inaspettato avvenimento contribuì non
poco ad avvicinarli di fronte ad un comune nemico.
Gli Unni, di stirpe, come vedemmo, affatto diversa dai popoli latini
e germanici, erano rimasti per mezzo secolo nell'antica Dacia, al di
là del Danubio. Fra di essi e l'Impero si trovavano le popolazioni
germaniche, che da loro erano state spinte verso l'occidente. Più tardi
Alarico era coi suoi Visigoti entrato per la Porta Salara; i Vandali,
gli Svevi, gli Alani avevano passato il Reno. Tuttavia le relazioni
degli Unni coll'Impero durarono lungamente abbastanza amichevoli,
avendogli essi più di una volta reso utili servigi, col mandare in
suo aiuto soldati, i quali combatterono accanto alle legioni. Questo
contribuì ad insegnar loro una parte della disciplina romana, al che
si aggiunse che, avendo Attila adoperato nell'amministrazione anche
qualche Greco e qualche Romano, potè renderla più ordinata. Certo è che
il suo regno s'era andato estendendo con una straordinaria rapidità,
aggregandosi nuovi popoli, i quali restavano sotto i propri capi, che
dipendevano da lui, divenendogli subito obbedienti e devoti. Un tale
processo d'ingrandimento pareva che si potesse continuare all'infinito
sino a che durava l'autorità del comandante supremo. E intanto,
secondo l'espressione del Thierry, la valle del Danubio somigliava ad
un immenso formicaio di popoli, rovesciato a un tratto. Essi facevano
da ogni lato, specialmente nell'Impero, escursioni minacciose, tanto
che Teodosio II ricorse all'uso, sempre frequente in Costantinopoli,
di pagare ad Attila un tributo, perchè insieme coi suoi restasse
tranquillo. Ma ciò dava invece pretesto a nuove minacce, perchè i
barbari solevano chieder sempre che il tributo venisse aumentato, e non
ottenendolo, tornavano ai saccheggi.
Nel 445 Attila, dopo la morte del fratello Bleda, che forse da lui
stesso era stato fatto uccidere, si trovò solo alla testa degli
Unni. Per le sue selvagge crudeltà, egli è nella storia conosciuto
col nome di _Flagellum Dei_. Basso di statura, di testa grossa, naso
schiacciato, occhi piccoli, aveva il colore olivastro dei Tartari,
agitava lo sguardo feroce a destra ed a sinistra: v'era nel suo
incesso qualche cosa che gli dava veramente l'aspetto d'un dominatore
di popoli. Non si può dire però che fosse un genio militare, perchè,
oltre alle sue molte scorrerie, saccheggi e stragi, una sola grande
battaglia esso dette, e la perdè. Non mancò a momenti d'una certa
generosità, e quasi grandezza d'animo, per quanto ciò era possibile
in un barbaro come lui. Ma pur singolare assai dovette essere la sua
potenza di comandare e di organizzare, essendo riuscito ad aumentare
di molto i popoli che lo seguivano, fra i quali erano Gepidi, Alani,
Ostrogoti, Svevi. E si formò così uno dei più vasti regni conosciuti
nella storia. Secondo gli scrittori contemporanei infatti, il dominio
di Attila s'estendeva dalla Scandinavia alla Persia, e minacciando
Persepoli, confinava da una parte colla China, da un'altra coll'Impero.
In sostanza però questa era più che altro una vasta agglomerazione di
popoli indipendenti, sotto di lui confederati, e che a lui obbedivano,
quando sapeva secondarli nelle loro voglie di guerra e di rapina, dalle
quali egli stesso cavava profitto. Il potere effettivo e diretto lo
esercitava nella Transilvania e nell'Ungheria. Dovendo però contentare
e tenere occupate tutte queste genti irrequiete e feroci, egli fu per
diciannove anni, dal 434 al 453, come una spada di Damocle sull'Impero
d'oriente e su quello d'occidente, i quali perciò si trovarono
finalmente uniti contro il comune nemico.
Ambasciatori andavano ed ambasciatori venivano da Costantinopoli e
da Ravenna alla Corte di Attila, e viceversa. Invano si cercava di
frenare le pretese sempre crescenti di quel barbaro, che si tirava
dietro così sterminata moltitudine di popoli. Sin dal 433 due oratori
erano stati mandati da Teodosio alla Corte degli Unni, sui quali
regnavano allora i due fratelli. Si presentarono ad Attila, che li
ricevette a cavallo, e neppur essi scesero di sella. Il resultato
dell'ambasceria fu, che bisognò rassegnarsi a raddoppiare il tributo,
che l'Impero d'oriente pagava. Ma non bastava; e non molto dopo Attila
richiedeva minacciosamente gli arredi sacri d'una città da lui presa,
sebbene fossero stati già impegnati per grossa somma di danaro. Il
più singolare pretesto di guerra fu però un altro. Onoria, sorella
di Valentiniano III, era stata nella sua età di sedici anni scoperta
in intrigo amoroso con un basso ufficiale della Corte di Ravenna, e
fu per punizione mandata dalla madre a Costantinopoli. Ivi il Palazzo
pareva divenuto un convento, e Teodosio II passava la vita raccogliendo
reliquie di santi, miniando manoscritti religiosi. Egli era sempre
dominato dalla sorella Pulcheria, che nel 421 gli aveva fatto sposare
Atenaide, figlia d'un filosofo greco, battezzata col nome di Eudocia.
Tutti della Corte passavano colà la vita in orazioni, salmi, visite
ai poveri, processioni; e però, quando Onoria vi giunse, si sentì
come chiusa in una carcere. Si narra che per disperazione ricorresse
allora allo strano partito di mandare il proprio anello ad Attila,
perchè venisse a liberarla, accogliendola fra le molte sue mogli.
Attila avrebbe dapprima fatto della singolare proposta il conto che si
meritava. Ma più tardi, quando voleva attaccar lite con l'Impero, se
ne valse di pretesto per chiedere non solo la mano d'Onoria, ma anche
l'eredità cui essa aveva, secondo lui, diritto. Nel 447 s'era avanzato
fin sotto le mura di Costantinopoli, obbligando colle minacce Teodosio
a triplicare il sussidio o tributo come lo chiamava. Ogni anno con
nuove ambascerie aggiungeva domande a domande, pretese a pretese.
Fra queste ambascerie, ve ne fu una notevole fra tutte, perchè ne
abbiamo assai minuta e autentica descrizione da chi ne fece parte. Nel
448 arrivarono a Costantinopoli Edecone, che alcuni credettero padre
di Odoacre, il primo re barbaro in Italia, ed Oreste, padre di quel
Romolo Augustolo, che fu l'ultimo degl'Imperatori d'occidente. Essi
fecero varie domande, fra cui la restituzione d'alcuni Unni fuggitivi.
E mentre che di ciò si trattava, un eunuco della Corte, promettendo
danaro a Vigila, che era l'interpetre di quegli ambasciatori, fece,
per mezzo suo, la proposta di far uccidere Attila. Edecone finse
d'accettarla con animo però di rivelar poi tutto al suo Signore.
E intanto, perchè meglio rimanesse nascosta la tenebrosa trama, si
faceva, insieme cogli ambasciatori d'Attila, partir Massimino ed il
retore Prisco, quello che ci descrisse il viaggio, lasciandoli ambedue
affatto ignari della tenebrosa trama ordita accanto a loro. E ciò
perchè, ingannati, potessero inconsapevolmente ingannar meglio Attila.
Menavano con loro diciassette fuggitivi Unni che dovevano restituire.
Con essi, con Edecone, Oreste e Vigila traversarono paesi disertati
dalle ripetute scorrerie degli Unni, trovando il suolo sparso di ossa
e di teschi umani, e città quasi distrutte, nelle quali erano rimasti
solo pochi vecchi e malati abbandonati. Passato il Danubio, arrivarono
alla tenda di Attila, che tornava allora da una razzìa. Questi accolse
i donativi; ma, sdegnato nel veder soli diciassette fuggitivi, rimandò
indietro l'interpetre a chiedere gli altri, e invitò i due inviati
di Costantinopoli a seguirlo più oltre nel paese, là dove era il suo
palazzo, e dove avrebbe dato loro risposta.
Così Massimino e Prisco s'avanzarono nell'Ungheria, traversando i fiumi
sopra alberi scavati o tavole connesse, e giunsero alla capitale unna.
Colà videro Attila che arrivava a cavallo, preceduto da fanciulle, le
quali cantavano canti nazionali; e passarono tutti sotto veli tenuti
distesi da altre giovanette. Il re si fermò a cavallo dinanzi alla
porta del suo primo ministro, la cui moglie uscì ad offrirgli cibo e
vino, mentre altri tenevano una tavola d'argento accanto a lui. Il
palazzo di Attila era come una grossa capanna costruita con tavole
di legno, non senza qualche eleganza. Intorno ad essa si vedevano
sparse le abitazioni delle sue varie mogli. Un solo edifizio di pietra
si trovava colà, ed era un bagno costruito da un Romano. Ma ciò che
v'ha di più notevole in questo singolarissimo viaggio, è il dialogo
di Prisco con un Greco, che era a servizio degli Unni, dei quali
aveva adottato il costume e gli abiti. — Qui, egli diceva, esaltando
i barbari, quando non c'è guerra, si gode una piena libertà. Ma voi
state male nella guerra e peggio nella pace. Chiamate gli stranieri
a difendere l'Impero, perchè i vostri tiranni non vi lasciano libero
neppure l'uso delle armi, e siete oppressi dal fisco, dalle spie, dalla
grande disuguaglianza: i ricchi sfuggono alle pene ed alle tasse, che
s'aggravano invece sul povero. Tutto dovete pagare, perfino chi difende
i vostri diritti. — Al che Prisco rispondeva: — Ciò dipende dalla
divisione del lavoro, e dal concedere a ciascuno la dovuta mercede.
Noi non possiamo, al pari di voi, ammazzare gli schiavi, ma cerchiamo
invece come padri correggerli. Le vostre pretese libertà si restringono
nel poter tutti andare alla guerra, senza disciplina. Abbiamo leggi
a difesa di ogni giusto diritto. È sacra per noi anche la volontà
dei morti, che possono per testamento lasciare a chi vogliono i loro
averi. — Ah! sì, esclamò piangendo il Greco, le leggi son buone, la
legislazione romana eccellente; ma chi le esegue, chi le rispetta? I
vostri governanti, non più degni dei loro antenati, spingono lo Stato
alla rovina. —
Dopo aver visto Attila rendere sommaria giustizia dinanzi al suo
palazzo, i due inviati s'incontrarono cogli ambasciatori d'Occidente,
dai quali sentiron dire che esso si teneva padrone del mondo, voleva
comandare a tutto l'Impero, e si reputava invincibile, credendo
possedere la spada di Marte. Un contadino l'aveva scoperta, confitta in
terra, fra l'erba, andando dietro le tracce di sangue d'una sua bestia,
che vi s'era ferito il piede nel camminare. Finalmente assisterono ad
un gran banchetto nella sala del palazzo reale. Attila sedeva sopra
una specie di canapè, dietro cui erano scalini, che conducevano ad
un letto nascosto da cortine. Accanto a lui sedeva silenzioso il suo
primogenito, alla loro destra ed alla sinistra erano il primo ministro
Onégesh, ed un nobile Unno. «Così neppur questi posti furon serbati a
noi», osservava Prisco. Di fronte erano i figli del re; intorno alla
sala, lungo le mura di legno, stavano i convitati, ai quali fu portato
in giro del vino, e poi servito il cibo su piccoli deschi, ciascuno per
tre o quattro persone: su di essi erano piatti d'argento e coppe d'oro.
Attila invece, con grande semplicità, mangiava solo carne su piatti di
legno, e di legno erano anche le coppe. Nè l'elsa della sua spada, che
dietro di lui pendeva, nè la briglia del suo cavallo, nè i fermagli
dei suoi stivali erano, secondo il costume barbarico, ornati di pietre
preziose. Verso sera si cantarono, fra un generale entusiasmo, canzoni
in lode delle imprese di lui. E poi vennero buffoni, fra cui un Moro,
nano e gobbo, coi piedi torti, che fece ridere tutti, meno Attila,
il quale ne pareva piuttosto disgustato. Sebbene egli si dimostrasse
assai irritato, per aver saputo della trama contro di lui ordita, pure
gli oratori, che sinceramente negarono tutto, dopo lunghe trattative,
obbligandosi a pagar nuove somme di danaro, par che riuscissero
finalmente a concludere un accordo temporaneo.
Nel 450 però lo stato delle cose mutò affatto. Teodosio moriva per una
caduta da cavallo, senza lasciar figli maschi. La moglie Eudossia era
da più tempo in esilio per accusa d'infedeltà. Successe la sorella di
lui Pulcheria con Marciano, soldato valoroso, avanzato in età, cui pel
bene dello Stato ella dette nome di marito, a condizione di non avere
nessun contatto con lui. Ed egli cominciò a governare, condannando
a morte l'eunuco Crisafio, che aveva ordito la trama segreta contro
la vita di Attila. Ciò fece credere che il nuovo Imperatore volesse
rendersi benevolo il re degli Unni. Ben tosto però si vide che egli
non era della tempra mite di Teodosio II, perchè quando Attila, con
le solite minacce, richiese il pagamento del tributo, rispose subito:
«Agli amici i doni, ai nemici il ferro.»[20] Così la guerra si poteva
ritenere ormai inevitabile.
Attila si trovava allora nell'auge della sua potenza, alla testa
d'un formidabile esercito, che alcuni fanno ascendere a 500, altri
a 700 mila uomini. Tutto era pronto per mettersi in moto; bisognava
solo decidere se attaccar l'Oriente o l'Occidente. Ad attaccar
l'Oriente, che era più vicino, sarebbe stato necessario traversare
un paese già più volte saccheggiato, per trovarsi poi sotto le mura
di Costantinopoli, posizione fortificata, che avrebbe presentato
una formidabile resistenza, specialmente ora che Marciano era deciso
a difendersi. Inoltre un esercito barbarico come quello di Attila,
composto di genti assai diverse, se non vinceva nel primo impeto,
facilmente poteva disciogliersi. Nell'Occidente invece, sebbene più
lontano, tutto pareva che promettesse una facile vittoria agli Unni.
L'unico generale che vi fosse, era Ezio, valoroso di certo, ma stato
sempre in buoni termini con Attila, e più volte da lui aiutato. La
Gallia era occupata quasi tutta da barbari fra loro in discordia.
Una parte dei Franchi già incitava gli Unni a passare il Reno. Il
forte regno dei Visigoti era alleato dei Vandali, che promettevano di
secondare l'impresa di Attila con uno sbarco nella Gallia meridionale.
Pretesti di guerra a lui non mancavano mai. Chiese allora appunto non
solo la mano d'Onoria, che gli aveva mandato il proprio anello, ma
anche la parte d'Impero che le sarebbe, secondo lui, spettata in dote.
E quando gli fu risposto, che essa era già moglie d'un altro, disse che
lo avevano fatto per non darla a lui, e ordinò ai suoi di avanzare.
Se non che, lo stato delle cose in Occidente era in realtà ben diverso
da quel che pareva, e che Attila credeva. Prima di tutto Teodorico
re dei Visigoti, uomo di molto valore, non che essere avverso ai
Romani, inclinava non poco ad essi. Egli, è ben vero, aveva data la
propria figlia in isposa al figlio di Genserico, e così s'era legato
con vincolo di sangue ai Vandali, nemici acerrimi del nome romano. Ma
Genserico, credendo o fingendo di credere, che la figlia di Teodorico
lo volesse avvelenare, l'aveva rimandata al padre, mutilata del naso e
delle orecchie. Così l'alleanza s'era mutata in nimicizia mortale, che
richiedeva una delle sanguinose vendette barbariche. Il generale Ezio
era stato amico degli Unni, ma si trovava in una posizione simile a
quella di Stilicone; anzi, se questi era stato un barbaro romanizzato,
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