Le invasioni barbariche in Italia - 17

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speravano di potere in ogni caso saccheggiare il paese, e portare
a casa la preda; ma dovettero ben presto avvedersi che l'Italia era
esausta, che si poteva finire di rovinarla, non però più sperare di
farvi ricca preda. Anzi era divenuto in essa assai difficile trovar da
vivere per un esercito che non avesse ricevuto aiuto di fuori.
Comunque sia di ciò, Narsete aveva ora contro di sè gli avanzi dei
Goti, i quali erano chiusi nelle città fortificate, e l'esercito
franco-alamanno, che non era piccolo, e se la fortuna lo secondava o
la guerra andava in lungo, poteva avere rinforzi da casa sua. Egli
lasciò quindi che si continuasse il blocco di Cuma, nella quale
Aligerno pareva deciso a fare ostinata resistenza, e col grosso de'
suoi si recò in Toscana, dove le città occupate dai Goti s'arresero
tutte facilmente, salvo Lucca che si difese con energia, sperando
soccorso dai Franco-Alamanni, i quali allora appunto s'avanzavano con
audacia. Infatti i Bizantini, che Narsete aveva mandati verso Parma,
per affrontarli o almeno arrestarli nel loro cammino, furono invece
battuti, e dovettero retrocedere verso Faenza, lasciando libera ai
Franchi la via di Toscana. Tutto questo portò, come era naturale, un
grande sgomento nel campo imperiale presso Lucca, temendosi di potere
essere contemporaneamente assaliti alle spalle e di fronte, per qualche
sortita fatta dalla città. Narsete però dette prova di tale e tanta
fermezza, che non solo rialzò l'animo de' suoi; ma indusse la città
ad arrendersi. Anche Aligerno, che si trovava sempre in Cuma, vedendo
che era inevitabile arrendersi o all'Impero o ai Franco-Alamanni, che
continuavano, come barbari che erano, a saccheggiare, a distruggere
tutto quello che incontravano, si decise d'andare in persona a Classe,
per presentarsi a Narsete, il quale s'era allora avanzato fino a
Ravenna. Colà non solamente il Goto si arrese; ma egli, fratello di
Teja, divenne fedele soldato dell'Impero, pel quale d'ora in poi si
battè valorosamente (553).
Restavano adesso da vincere solo i Franco-Alamanni, che continuavano
rapidamente il loro cammino verso il sud. Narsete riuscì a farne
battere due mila da poche centinaia de' suoi, che li assalirono presso
Ravenna. Si ritirò poi verso Roma, perchè quei nemici s'avanzavano
saccheggiando senza mostrare nessuna voglia di venire a battaglia.
Passato l'Appennino, essi si divisero in due schiere, una delle
quali comandata da Butelin, che gl'italiani chiamavano Buccellino, si
spinse per la Campania e la Lucania nei Bruzi; l'altra, comandata da
Leutari, s'avanzò per la Puglia e l'antica Calabria fino ad Otranto.
Ma i due fratelli ben presto non andarono più d'accordo. Buccellino
voleva continuare l'impresa; Leutari voleva invece ritirarsi verso
casa coi prigionieri e la preda già fatta. A Pesaro però questi venne
assalito dai Bizantini; perdette i prigionieri, che si dettero alla
fuga, e la preda che gli fu tolta. Arrivato nel Veneto, la peste
uccise con lui la più parte de' suoi. Non molto diversa fu la sorte
di Buccellino. Avanzandosi attraverso un paese già devastato, che
Narsete gli faceva trovar sempre più devastato, per privarlo d'ogni
vettovaglia, dovè cibare i suoi soldati di sola uva, il che produsse
una violenta diarrea, la quale costrinse anch'essi a retrocedere.
Arrivato con 30,000 uomini sul Volturno, e saputo che i Bizantini gli
venivano incontro con soli 18,000, si fortificò col fiume da un lato, i
carriaggi da un altro, pronto a resistere. Narsete a sua volta rinforzò
le ali del proprio esercito, con animo di cedere al centro, per
ricevere il nemico che s'avanzava in forma di cuneo, e così facilmente
circondarlo. La battaglia, in cui prese parte anche Aligerno, fu lunga
e sanguinosa. I Franco-Alamanni vennero totalmente distrutti, e il
loro capitano Buccellino fu ucciso (554). Scomparsa questa nuova e
sanguinosa meteora, Narsete potè ritirarsi colla preda a Roma. Non
rimaneva adesso che un sol luogo fortificato, a cinquanta miglia da
Napoli, detto Campsa da alcuni, Conza da altri. Ivi si trovavano 7000
Goti, che finalmente s'arresero anch'essi, salva la vita; e furono
mandati a Costantinopoli, dove assai probabilmente accettarono di
servire l'Impero.
Così ebbe fine la guerra greco-gota, durata venti anni, che ridusse
l'Italia all'estrema rovina. Il regno degli Ostrogoti, durato
sessantaquattro anni, fu distrutto per sempre, ed essi, come popolo,
scomparvero affatto al pari dei Vandali, quasi un esercito di ventura
che si fosse disciolto. Alcuni, come vedemmo, passate le Alpi, andarono
in Oriente; altri restarono in Italia, combattendo per proprio conto o
uniti ai Franchi. Certo è che nei quattordici anni, nei quali Narsete
continuò ancora a comandare in Italia, dovè sostenere cogli uni e cogli
altri parecchi scontri sanguinosi, dei quali pur troppo non abbiamo
nessuna notizia precisa. La distruzione dei due fratelli alamanni e
delle loro genti aveva naturalmente irritato molto i Franchi, i quali
occupavano sempre alcune terre dell'alta Italia; e questa irritazione
cresceva tanto più adesso che s'erano uniti a loro i Goti fuggiaschi,
pieni anch'essi d'ira e rancore, assetati di vendetta contro i
Bizantini. Nel 555 si trova infatti ricordato che i Franchi vinsero
un esercito romano, il quale potè poi pigliar la rivincita, cacciando
dall'Italia quei barbari (Muratori, _Annali_, VIII, 302). Paolo Diacono
accenna più tardi ad un altro combattimento, nel quale un generale
franco venne ucciso, ed un Conte goto fu preso e mandato prigioniero
a Costantinopoli. Altri fatti d'arme sono ricordati nel 563 e nel
565, sempre a vantaggio degl'Imperiali. In sostanza si può affermare
che, finita la guerra gotica, vi fu il pericolo, anzi addirittura il
principio di un'altra guerra per parte dei Franchi, la quale sarebbe
potuta divenire assai pericolosa, se essi non fossero stati appunto
allora, come del resto continuamente seguiva, travagliati dalle civili
discordie che per qualche tempo resero loro impossibile il passare
le Alpi in gran numero. E così vi furon solo grosse scaramucce con
quelli che già si trovavano nell'alta Italia, e che dovettero finire
coll'abbandonarla, tornandosene a casa.
Narsete allora, alla testa del suo esercito, assunse il governo di
tutta la Penisola col titolo di Maestro dei militi e di Patrizio.
Egli non ebbe mai (come per errore fu creduto da alcuni) il titolo
di Esarca, che in Italia apparisce ufficialmente solo più tardi. La
Prammatica Sanzione riconobbe il valore degli editti emanati dai primi
re goti fino a quelli di Totila e di Teja, che rimanevano esclusi,
perchè questi due sovrani erano tiranni e non re, non essendo mai stati
riconosciuti a Costantinopoli. E perciò vennero annullate tutte le
disposizioni prese da essi, quelle specialmente a vantaggio del popolo,
dei contadini, dei piccoli proprietari, che i Goti avevano cercato di
rendersi amici; e furono in loro vece messe in vigore le disposizioni
delle leggi romane, quasi sempre favorevoli ai latifondisti. La
Prammatica Sanzione inoltre manteneva, teoricamente almeno, il potere
militare separato affatto dal civile, pel quale restava in Italia
sempre un Prefetto del Pretorio. Ma Narsete era un generale, che
alla testa del suo esercito, aveva riconquistato l'Italia, e con esso
continuava a governarla, a difenderla. E però, non ostante ogni opposta
teoria, i due poteri rimasero di fatto concentrati in lui, che continuò
ad essere una specie di dittatore militare. Per la stessa ragione i
Duchi che, sotto la sua dipendenza, erano sparsi nelle province, ed i
Tribuni, che dipendevano dai Duchi, furono anch'essi ufficiali civili
e militari ad un tempo. Tutto ciò portava incertezza e disordine.
Sarebbe stato necessario riordinare il paese, dando forza alle
leggi, sollevandolo alquanto dalle crudeli calamità così lungamente
sopportate. Ed invece bisognava pensare a trovare in Italia danaro,
per mantenere un grosso esercito, ora che da Costantinopoli non c'era
da sperarne, perchè Giustiniano non ne aveva, e trovavasi sempre più
immerso nella teologia. Si continuò quindi a dissanguare le già esauste
popolazioni.
E ciò seguiva quando il malcontento era cresciuto anche a causa della
questione religiosa. Morto infatti papa Vigilio, tanto malmenato a
Costantinopoli, era stato eletto Pelagio, già da molto tempo favorito
dall'Imperatore. Egli tergiversò alquanto nella questione dei _Tre
Capitoli_, ma finì poi col condannarli, pur dichiarandosi ossequente
al Concilio di Calcedonia. Questa sua condotta provocò subito uno
scoppio di sdegno nei vescovi e prelati italiani, massime del nord,
alcuni dei quali lo accusarono perfino d'avere procurato la morte del
suo predecessore, per potergli succedere. L'irritazione arrivò al colmo
quando Narsete, pel quale, secondo il concetto orientale, la Chiesa
doveva essere sottoposta all'Impero, fece prendere alcuni vescovi
più riottosi, inviandoli a Costantinopoli, perchè colà venissero
puniti. Così il disordine civile ed il conflitto religioso aumentavano
la confusione. Tutte le opere pubbliche erano abbandonate; le mura
cittadine, le case, le chiese, gli acquedotti andavano in rovina:
alcune delle città, come ad esempio Milano, erano state nella guerra
addirittura distrutte. Il mantenimento delle strade era abbandonato;
i fiumi, lasciati senza argini, inondavano le campagne, ed aumentavano
la malaria. Finalmente scoppiò la peste, che ammazzava in tre giorni, e
desolò sopra tutto l'Italia superiore. Le campagne e le loro case, dice
Paolo Diacono, rimanevano deserte; gli armenti vagavano pei campi senza
pastore. Le messi abbandonate marcivano; le uve seccavano sui tralci
delle viti, già privi di foglie. Ai primi casi del morbo, le città
rimanevano spopolate per la fuga degli abitanti. I figli lasciavano
insepolti i cadaveri dei genitori, e questi, senza aver viscere di
pietà, abbandonavano i figli ammalati. Se qualcuno voleva seppellire
le vittime del morbo, era preso dal male, e restava egli insepolto. Non
era possibile numerare i morti, perchè gli occhi non bastavano a tanto:
_visum oculorum superabant cadavera mortuorum_ (II, 4).
Tale era lo stato delle cose in cui Giustiniano lasciava l'Impero. Non
tutti i guai da noi accennati si possono dire conseguenze dirette della
sua politica; ma conseguenze più o meno indirette ne erano certamente.
Egli era stato senza dubbio guidato da alcuni concetti i quali, se
non sempre pratici, erano sempre elevati, ed esercitarono una grande
azione nella storia del mondo. Ma se, come abbiam detto più volte,
maravigliosa fu davvero la sua abilità nella scelta delle persone,
per attuare questi concetti, la sua cattiva amministrazione, le spese
eccessive che faceva sempre, i larghi tributi che allora si solevan
dare ai barbari, quando non si poteva con essi adoperare il ferro, e
le continue guerre esaurirono sempre più le forze d'un Impero in cui
l'agricoltura era assai decaduta, e non fiorivano nè l'industria, nè
il commercio. Tutto ciò, unito alla corruzione della società imperiale
e della Corte, alla cui malefica azione Giustiniano non potè sempre
sfuggire, gli resero impossibile il fondar mai nulla di veramente
stabile.
In un Impero composto di tante parti e così diverse, circondato da
tanti nemici, senza la possibilità di un vero patriottismo nazionale,
e per la sua corruzione privo affatto di un'alta guida morale, v'era
sempre il pericolo che un qualche generale, potente e fortunato,
riuscisse ad insorgere, formando per suo proprio conto uno Stato
separato ed indipendente, che qualcuno dei grandi ufficiali della
Corte cospirasse a danno degli altri o dello stesso Imperatore, per
accrescere il proprio potere. Era quindi una continua lotta degli uni
contro gli altri, e se ne vedevano perciò sempre rapidamente salire
e rapidamente precipitare, come era seguito allo stesso Belisario,
nonostante la sua provata fedeltà, i continui e grandi servigi
resi all'Impero. E se a tutto ciò s'aggiunge che negli ultimi anni
Giustiniano, divenuto vecchio, trascurava assai il governo dell'Impero,
si capirà facilmente a che punto dovessero allora essere giunte le
pubbliche calamità. Tuttavia un grande risultato, se non duraturo,
temporaneo certamente, egli lo aveva ottenuto. I Persiani erano stati
respinti; i Vandali e gli Ostrogoti distrutti; la Romanità aveva
avuto una splendida vittoria sul Germanesimo; l'Africa, l'Italia erano
state riconquistate. Tutto ciò dimostrava chiaro che, nonostante ogni
contraria apparenza, v'era pur sempre nell'Impero una grande vitalità,
quella che riuscì infatti a farlo vivere per otto secoli ancora,
sebbene fosse continuamente circondato da sempre nuovi pericoli.
Prodigiosa veramente dovette essere quella civiltà greco-latina che
anche nella sua decadenza potè riunire, assimilare elementi così
diversi, ed in mezzo a tanto disordine veder sorgere un grandissimo
numero di accorti amministratori, di grandi e gloriosi generali, che
seppero con intelligenza e valore difenderlo.
Ma alla morte di Giustiniano si vide subito, che i pericoli da noi qui
sopra accennati dovevano crescere non poco. Da una parte minacciava
la Persia eterna nemica dell'Impero; da un'altra ripigliavano vigore
le popolazioni germaniche, specialmente pel rapido crescere della
potenza dei Franchi. Nello stesso tempo gli Slavi s'avanzavano in
gran numero verso l'Occidente, e così pure s'avanzavano dall'Asia
le popolazioni finniche, mongoliche, tartare, che dovevano portare
nel mondo un'altra grande rivoluzione. Sarebbe stato necessario che
a Giustiniano succedesse nell'Impero un uomo di uguale o maggiore
capacità; ma avvenne, come vedremo, precisamente il contrario. E
peggio di tutti si trovava l'Italia. Esausta, disfatta da una lunga
guerra, senza speranza di ricevere aiuto da nessuna parte; oppressa da
Narsete, che per mancanza di danari vedeva ogni giorno scemare i suoi
soldati, essa restava senza difesa efficace in un momento nel quale i
barbari ripigliavano forze, e minacciavano d'avanzarsi. La distruzione
del regno ostrogoto, il quale si era esteso anche al Norico ed alla
Pannonia, lasciava indifesa l'Italia appunto da quel lato di dove le
genti barbariche eran sempre passate, e ricominciarono ben presto a
passare.
E questo era il momento in cui a Giustiniano succedeva Giustino II,
figlio d'una sorella di lui, la quale era nipote di Teodorico. Il
nuovo Imperatore dichiarò subito di voler fare grandi economie, il che
voleva dire mutar sostanzialmente politica. Egli infatti rinunziò alle
grosse guerre, e sospese i sussidi fino allora pagati ai barbari, che
si scatenarono perciò nuovamente contro l'Impero, nel quale mancavano
ora i danari ed i soldati per difenderlo. Scontentissimo fra tutti
era Narsete, il quale si vedeva ridotto all'impotenza nel momento
in cui sarebbe stato necessario apparecchiarsi a difendere i confini
nuovamente minacciati; nè poteva sperar nulla in Italia. Infatti allora
appunto arrivava a Costantinopoli un'ambasceria di nobili romani,
venuti per dire all'Imperatore che non era più possibile sopportare
il dispotismo di Narsete, il quale aveva ridotto l'Italia a tale che
ogni altro governo era divenuto preferibile. Se non si trovava modo
di provveder subito, sarebbe stato agl'Italiani necessario gettarsi
in braccio ai barbari, che certo li avrebbero trattati meglio. Le
cose erano infatti giunte a tale estremità, che vedendo non esser
ormai possibile indurre a mutare strada un uomo assai vecchio, usato
a far sempre quel che voleva, si dovè finire col richiamarlo nel 567,
nominandogli un successore, che ebbe ordine di partir subito.
E qui ha origine una leggenda, che non è ricordata dagli scrittori
bizantini, ma si diffuse allora assai largamente in Italia, e fu
narrata anche da Paolo Diacono. Secondo questa leggenda Narsete
avrebbe ricusato d'obbedire, e l'imperatrice Sofia avrebbe allora
esclamato: — Saprò ben io rinchiudere il vecchio eunuco nel gineceo,
che è il suo vero posto, costringendolo a filar lana con le donne.
— Ed io, così avrebbe risposto Narsete, quando gli furon riferite le
ingiuriose parole, saprò filarle una tale matassa, che in tutta quanta
la sua vita ella non riuscirà mai a dipanarla. — Aggiungendo poi alle
parole i fatti, Narsete avrebbe, per vendetta, chiamato i Longobardi
in Italia, inviando, per meglio allettarli, ambasciatori, i quali
portaron loro le più belle frutta che il fertile paese produceva. I
Longobardi allora, accettando l'invito, si sarebbero mossi, passando
le Alpi nel 568. Narsete che, sempre più accecato dallo sdegno, s'era
ritirato a Napoli, s'avvide finalmente dell'errore commesso; e quando
papa Giovanni III, successo a Pelagio nel 561, lo scongiurò, perchè si
movesse a difendere il paese, andò subito a Roma; ma ivi fu sorpreso
dalla morte. Il carattere leggendario di questo racconto è troppo
evidente perchè vi sia bisogno di dimostrarlo. I Longobardi, come
noi abbiam visto più sopra, erano in buon numero già stati in Italia,
dove avevano combattuto sotto Narsete, e non avevano quindi bisogno,
per conoscerne la fertilità, che egli ne mandasse loro le frutta, le
quali poi, massime se spedite da Napoli, si può ben immaginare in quali
condizioni sarebbero arrivate. Le ragioni che mossero i Longobardi a
passare le Alpi furono ben altre che il dispetto capriccioso d'un uomo,
sebbene non sia da escludere affatto, che questo dispetto possa avere
contribuito ad agevolar loro la strada, lasciando andar tutto a rovina,
senza apparecchiar nessuna difesa.


LIBRO TERZO
I LONGOBARDI


CAPITOLO I
Guerra dei Longobardi contro i Gepidi — Loro venuta in Italia e
loro conquiste — Morte di Alboino — Elezione di Clefi e sua morte —
Interregno — Duchi — Divisione delle terre — Il Papa si rivolge la
prima volta per aiuto ai Franchi (580)

I Langobardi, poi Longobardi, così chiamati, secondo il loro storico
Paolo Diacono, dalle lunghe barbe che portavano, sono ricordati da
Velleio Patercolo, che li dice più feroci della germanica ferocia. Si
trovavano allora presso l'Elba. Più tardi ne parlò Tacito, lodandone
il coraggio. Essi sembrano aver preso parte a quel gran movimento di
barbari, che s'avanzarono verso il sud, e furono respinti da Marco
Aurelio nella guerra dei Marcomanni (178-79). Per tre secoli dipoi non
se ne sente più parlare; ma par certo che fossero tra coloro che fecero
parte del regno degli Unni a tempo di Attila, separandosene quando esso
si disciolse. È un fatto però che ben poco sappiamo di certo sulla loro
origine. Paolo Diacono ne parla a lungo, dandoci una serie di leggende,
dalle quali non si può cavare nulla di veramente storico. Secondo
lui i Longobardi sarebbero originari della Scandinavia. Di là, per la
ristrettezza del luogo, un terzo di essi si sarebbero mossi verso il
sud, sotto la guida di due fratelli, Ibor e Aione, della famiglia dei
Gungingi o Gugingi. Da Aione sarebbe nato Agelmondo, che fu il loro
primo re, cui ne successero altri sei della stessa famiglia, l'ultimo
dei quali fu Tato, che combattè e vinse gli Eruli, il che dovrebbe
essere avvenuto verso il 508. Seguirono a questi, altri due re, sotto
il secondo dei quali sarebbe divenuto onnipotente Audoino, quello
stesso che mandò aiuti a Narsete, quando questi venne la seconda volta
in Italia. Audoino fu il padre d'Alboino, col quale finalmente cessa la
leggenda e comincia veramente la storia.
I Longobardi erano allora penetrati nel Rugiland, al di là del Danubio;
al di qua, nella Pannonia, erano i Gepidi, per lungo tempo loro
acerrimi nemici. E quest'odio crebbe quando gli Eruli, vinti e disfatti
dai Longobardi, s'unirono ai Gepidi, i quali, vedendo così aumentate
le loro forze, profittarono della guerra che ferveva tra i Bizantini
e Totila, per occupare altre terre dell'Impero. Giustiniano allora,
secondo la politica tradizionale di Costantinopoli, incitò contro
di essi i Longobardi; e già nel 554 Alboino, ancora giovanissimo,
dimostrò il suo valore, combattendoli, ed uccidendo in singolar
tenzone Torismondo, il figlio del loro re Torisindo. Questi, secondo
un'altra leggenda, avrebbe cavallerescamente accolto a mensa Alboino,
per vestirlo poi delle armi dell'ucciso suo figlio. Ma vi mancò poco
che non si venisse alle mani. Il re dei Gepidi, pensando a Torismondo
ucciso da Alboino, sospirava malinconicamente; ed allora un altro de'
suoi figli, alludendo ad una specie di ghette o fasciature di tela, che
i Longobardi portavano alle gambe, avrebbe lor detto con disprezzo:
— Voi siete come cavalle balzane. — Al che gli sarebbe stato da un
Longobardo risposto: — Se vai al campo di Asfeld, capirai che calci
sanno tirar queste cavalle, vedendo colà le ossa di tuo fratello,
sparse al suolo come quelle d'un vile giumento. — E si sarebbero subito
sguainate le spade, se il Re non fosse personalmente intervenuto, in
nome delle sacre leggi della ospitalità, vestendo Alboino delle armi di
Torismondo. Comunque si pensi della leggenda, Alboino tornò trionfante
a casa, e verso il 565 successe al padre, come re dei Longobardi.
Egli era allora giovane, forte, audace, ambizioso, e sembrava godere
anche il favore dell'Impero. Se non che i Gepidi, valorosi al pari
dei Longobardi, erano in numero maggiore, ed una guerra di sterminio
pareva divenuta fra loro inevitabile, anche perchè non si poteva
dimenticare la morte di Torismondo. Fortunatamente pei Longobardi, era
sin dalla seconda metà del secolo quinto apparsa sul Caspio una gente
nuova, che portava il nome di Avari, ed era della stirpe medesima
degli Unni. Favoriti da Giustiniano, che voleva servirsene pe' suoi
fini, avanzatisi sotto un capo, che portava il titolo di Cagàno,
avevano formato un forte regno nel basso Danubio, dove ricevevano
un sussidio imperiale. Così Longobardi, Gepidi ed Avari si trovarono
ora a contatto in una regione che, desolata da continue guerre, non
potendo nutrirli, li teneva sempre irrequieti e pronti ad azzuffarsi
fra di loro. Fu questo il momento in cui Giustino, a un tratto,
negò sdegnosamente il sussidio agli Avari, dicendo che l'Impero non
doveva rendersi tributario dei barbari. Ed Alboino, profittando della
occasione, propose loro che s'unissero a lui per combattere i Gepidi.
Dopo averli disfatti, egli diceva, noi saremo più al largo in questo
paese desolato, e volendo, potremo più facilmente occupare altre terre
dell'Impero.
Bisogna credere che fin d'allora Alboino meditasse l'impresa d'Italia,
e volesse prima, vendicandosi dei Gepidi, assicurarsi le spalle,
altrimenti sarebbe difficile rendersi ragione dei patti che stipulò
allora cogli Avari. Ad essi infatti i Longobardi promettevano di
cedere metà delle spoglie che avrebbero fatte al nemico, un terzo
dei loro armenti, e le terre conquistate. Anzi, quando i Longobardi
fossero partiti, gli Avari avrebbero potuto occupare le terre da
essi abbandonate, e ritenerle, per restituirle solo nel caso che essi
fossero tornati ad occuparle. I Gepidi quindi si trovarono di fronte
a due nemici. Avrebbero, è vero, avuto ragione di fare assegnamento
sugli aiuti dell'Imperatore; ma questi, fedele sempre alla politica
orientale di far sì che i barbari si consumassero fra di loro, se ne
stette più che altro a guardare, lasciando credere che avrebbe coi suoi
tenuto a bada gli Avari. Allora i Gepidi si spinsero con grande impeto
contro i Longobardi, sperando di potere, dopo averli vinti, rivolgersi
contro gli Avari. Ma Alboino s'avanzò con impeto alla testa de' suoi,
li vinse, e colle proprie mani uccise Cunimondo loro re, tagliandogli
la testa, e facendo poi del teschio una tazza, per servirsene, secondo
l'uso barbarico, nei solenni banchetti. Questo atto crudele doveva
però, come vedremo, costargli assai caro. Ma per ora la sua vittoria fu
piena. Si parla di 40,000 morti fra i Gepidi, certo è che d'ora in poi
la storia non si occupa più di loro. Immensa fu la preda, grandissimo
il numero dei prigionieri, che o accettarono di combattere sotto le
bandiere del vincitore o ne furono schiavi. Fra questi prigionieri
v'era Rosmunda, la giovane figlia di Cunimondo, della quale Alboino
s'invaghì per modo che volle sposarla, non ostante la grande ripugnanza
che ella mostrava d'unirsi coll'uccisore del proprio padre. E sebbene
da poco fosse morta la sua prima moglie Clotsuinda, figlia di Clotario
re dei Franchi, le nuove nozze vennero celebrate senza indugio. Dopo di
ciò Alboino si volse all'impresa d'Italia.
A lui non poteva essere ignoto che questo paese era adesso senza
difesa. Parecchie città importanti avevano insufficientissime
guarnigioni, altre l'avevano a mala pena un po' più numerose; solamente
Pavia era in grado di fare lunga resistenza. Le popolazioni esauste e
scontente non avrebbero di certo fatto causa comune coi Bizantini, dei
quali anche il clero era scontentissimo. Gli ultimi avanzi dei Goti
disseminati per la Penisola, erano naturalmente per unirsi ai primi
barbari che avessero passato le Alpi. Narsete, privo del comando e già
richiamato, se ne stava ritirato a Napoli, lieto forse che con la sua
caduta tutto andasse a rovina. Il suo successore Longino, già arrivato,
ma con pochissime genti, si dovette chiudere in Ravenna. Le porte
d'Italia erano dunque aperte al nemico.
Il 2 di aprile 568 i Longobardi adunque lasciarono la Pannonia, e
per Enona (Leibach) e la valle della Sava passarono le Alpi Giulie,
avanzandosi nel Veneto. Menavano seco le donne, i vecchi, i bimbi e le
suppellettili sopra carri, nei quali passavano la notte. Da una pittura
alquanto posteriore, fatta per ordine della regina Teodolinda, essi
apparivano vestiti con larghi abiti di tela e di vario colore; avevano
i calzari aperti dinanzi e legati con lacci, i capelli tagliati fino
all'occipite, divisi sulla fronte, donde cadevano da ambo i lati. Con
i Longobardi si trovavano al solito mescolati Bavari, Bulgari, Gepidi,
Svevi, sopra tutto Sassoni, i quali ultimi si facevano ascendere al
numero di 20,000. Professavano quasi tutti l'Arianesimo, sebbene non
mancassero fra di loro anche i pagani; non erano però intolleranti in
fatto di religione. Molta incertezza regna sul loro numero, variando
gli scrittori da 20 a 120,000 armati. Certo non erano molti; ma se i
soli Sassoni arrivavano a 20,000, e poterono più tardi partire, senza
che perciò ne risentissero grave danno i Longobardi, che continuarono
le loro conquiste, sarebbe assurdo ridurre questi a soli 20,000. La più
comune opinione li fa variare da 60 a 70,000 uomini in arme; e non sono
molti di certo, se si pensa alle perdite che dovettero avere, ed alle
guarnigioni che era pur necessario lasciare nelle principali città da
essi occupate. È però da credere che molte di queste perdite potessero
facilmente essere risarcite venendosi ad aggregar loro gli avanzi dei
Goti, forse anche alcuni degli sbandati bizantini, fra i quali erano
non pochi barbari.
Nel maggio del 568, secondo i più, Alboino aveva già passato i confini
d'Italia, e subito costituiva a Cividale del Friuli un Ducato, alla
cui testa pose suo cugino Gisulfo con sufficiente numero d'armati.
In questo modo egli prendeva subito possesso in Italia d'un punto
strategico assai importante, che era come la porta di casa. Di là si
poteva infatti impedire che altri passasse il confine, e si poteva
anche, quando fosse stato necessario, ritirarsi liberamente. Ma tutto
invece andò pei Longobardi a seconda: i Franchi erano occupati nelle
discordie di casa loro; i Bizantini, per mancanza di uomini e di
danaro, non potevano muoversi; le città italiane l'una dopo l'altra
aprivano le porte al nemico. Il Patriarca d'Aquileia se ne andò subito
a Grado, dove pose la sua dimora; ma il vescovo di Treviso, sentendo
che Alboino era tollerante in religione, gli domandò che fossero
garantiti i beni della sua Chiesa, ed avendolo ottenuto, fece aprire
le porte della città. Dopo di che Vicenza e Verona fecero lo stesso.
Ma Padova, Monselice e Mantova, che erano fortificate, resistettero,
ed Alboino dovè quindi decidersi a svernare nel Veneto. Fortunatamente
per lui, dopo una stagione fredda e nevosa, vi fu un'abbondantissima
raccolta, colla quale si potè fornire di vettovaglie l'esercito. Ed
egli allora, lasciate da parte Padova e Monselice, prese Mantova,
dopo di che Brescia, Bergamo, Trento si arresero coi loro territori.
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