Le invasioni barbariche in Italia - 02

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la conseguenza fu una tremenda insurrezione capitanata da Arminio, che
distrusse un esercito di tre legioni. Il console Varo ed i principali
suoi ufficiali, per non sopravvivere al disastro e al disonore, si
dettero la morte (9 d. C.). Arminio era stato educato nell'esercito
romano; insieme col fratello aveva in esso valorosamente combattuto, ed
era stato colmato di onori. Ad un tratto, tornato fra i suoi, messosi
alla testa della insurrezione, aveva tratto in agguato gli antichi
commilitoni, dei quali si fingeva sempre amico, e si era scagliato
contro di essi con un impeto addirittura feroce. I prigionieri romani
furono mutilati, impiccati, trucidati. A molti furono cavati gli occhi,
fu strappata la lingua, insultandoli con ogni specie d'ingiurie più
sanguinose. Venne perfino disseppellito il cadavere del Console, per
poterlo insultare. Anche Marbodio, capo dei Marcomanni e nemico di
Arminio, che aveva cercato di fondare un regno a similitudine delle
istituzioni dei Romani, dai quali era stato educato, e dei quali
si dichiarava fido alleato, venuta l'ora del pericolo, si manifestò
nemico aperto. Da tutto ciò appariva evidente, che nelle popolazioni
germaniche v'era un odio istintivo, inestinguibile contro i Romani; che
nè i benefizi, nè la educazione o la disciplina militare potevano in
modo alcuno estinguere. Germanico fu mandato a vendicare la disfatta di
Varo, ma le vittorie del valoroso capitano furono pagate ad assai caro
prezzo. Nel clima, nei boschi, nelle paludi, più di tutto nell'odio
persistente delle popolazioni, trovò ostacoli sempre maggiori. Una
formidabile tempesta, distrusse una parte non piccola dell'esercito,
che si ritirava dalla parte del mare.
Negli ultimi anni della sua vita, Augusto si era persuaso che
l'Impero doveva fermarsi al Reno ed al Danubio, senza pensare a nuove
conquiste, e lo raccomandò nel suo testamento. Lungo i due fiumi
venne infatti costruita una linea di fortificazioni, e l'Impero si
attenne generalmente al savio programma. Solo Traiano, lasciatosi
vincere dall'ambizione della gloria, passò il Danubio, avanzandosi
vittoriosamente. E se più tardi, rinsavito anch'esso, tornò indietro,
la Dacia, al di là del fiume, restò sempre provincia romana, il che fu
un grave errore, come poi si vide. Infatti la difesa del Danubio, che
facilmente si poteva fortificare, venne trascurata, perchè esso non
segnava più i confini dell'Impero, che s'erano portati innanzi fino
alla Dacia orientale, dove non era ugualmente agevole fortificarli.
Tuttavia, per circa duecentocinquant'anni dopo la disfatta di Varo, gli
assalti dei barbari vennero sempre vittoriosamente respinti. Questa
difesa anzi fu la costante occupazione dell'Impero, e quasi la sua
principale ragione di essere.
Ma chi erano, che cosa volevano questi barbari, che assalivano con
tanta persistenza? Vissuti una volta, come è generalmente ammesso,
nell'Asia, insieme con coloro che più tardi furono i Greci ed i Romani,
avevano con essi fatto parte di quella che venne dai moderni chiamata
la famiglia ariana. Dopo un periodo di vita in comune, si divisero,
partendo per direzioni diverse. Il clima più mite, il suolo più
fertile, la posizione geografica più fortunata, la vicinanza dei Fenici
e degli Egiziani, fecero fare un rapido progresso a quelli tra di essi
che andarono nella Grecia e nell'Italia. Lo stesso non poteva seguire
in Germania, dove invece, per le avverse condizioni del suolo e del
clima, per il nessun contatto con popoli civili, s'andò formando, in
un periodo di molti secoli, una società affatto diversa, che ai Romani
poteva apparire di selvaggi. Non erano però selvaggi, ma barbari, e per
poco che fossero mutate le condizioni in cui si trovavano, potevano, al
contatto colla civiltà, come poi avvenne, progredire rapidamente.
Giulio Cesare è il primo che ci dia su di essi qualche notizia precisa.
Li trovò, esso dice, in uno stato seminomade, con un'agricoltura
affatto primitiva. Vivevano della caccia, della pesca, sopra tutto
del prodotto degli armenti, loro cura principale. Il latte, la carne,
il formaggio erano il loro cibo consueto. Adoravano il sole, la luna,
il fuoco, le forze della natura, tutto ciò che vedevano, e da cui
ricevevano benefizio. Pieni di grossolane superstizioni, di costumi
crudeli, non avevano ancora un ordine sacerdotale. Ma il fatto che
sopra tutti richiamò la sua attenzione, si fu il vedere che queste
popolazioni, in continuo moto, non conoscevano la proprietà privata
della terra, la quale era invece posseduta collettivamente dai
villaggi, anzi dalle parentele, _Cognationes_ come esso le chiamava,
_Sippen_ come le dicono i Tedeschi. Appena si fermavano, i Magistrati
o sia i loro capi, dividevano fra di esse il terreno occupato. E dopo
un anno, le costringevano ad andare altrove, dividendo di nuovo, nello
stesso modo, il terreno. Le case erano specie di capanne da potersi
facilmente decomporre e trasportare, come proprietà mobile, sui carri,
colle masserizie, coi vecchi ed i fanciulli. Era un genere di vita che
educava mirabilmente alle armi. La caccia, le razzìe, le guerre coi
vicini, per acquistar nuove terre, erano la loro occupazione continua,
il bisogno costante d'una gente, la quale con la sua rozza agricoltura
esauriva subito il terreno che aveva occupato. Cesare restò assai
maravigliato in presenza d'un genere di vita tanto diverso da quello
dei Romani, e ne chiese spiegazione agli stessi barbari. Gli risposero,
che vivevano a quel modo, perchè una troppo assidua cura dei campi
non li dissuefacesse dalla guerra, ed una costruzione più accurata e
solida delle case, non li rendesse inabili a sopportare il freddo ed il
caldo. Ed ancora perchè la disuguaglianza delle fortune e l'avidità del
possedere non arricchisse i potenti, spogliando i deboli; si evitasse
quella cupidigia da cui hanno origine le fazioni e le guerre civili; si
mantenesse con la equità soddisfatta la plebe, che vedeva i suoi campi
uguali a quelli dei più potenti.[3] È difficile credere che questo
fosse proprio il linguaggio dei barbari. Ma è di certo il concetto che
più o meno sorgeva allora in tutti, paragonando la società romana alla
barbarica.
Ed è il concetto che domina anche più esplicitamente nella _Germania_
di Tacito, la fonte principale che abbiamo, per conoscere un po' più
da vicino quelle popolazioni. Le notizie che ci dà Cesare sono poche e
frammentarie, ma chiare e precise, suggerite dalla sua osservazione,
dalla sua esperienza personale. Tacito invece ci dà addirittura un
breve trattato sul paese. Non sappiamo con certezza se egli lo avesse
davvero visitato. In ogni modo ne vide, se mai, una piccola parte,
e le notizie che ci dà sono il più delle volte di seconda mano,
cavate da Cesare, che egli chiama _summus auctor_, e da altri, che
erano stati oltre Reno. A ciò si aggiunge, che il suo scritto ha uno
scopo, anzi una tendenza politica e morale visibilissima. Egli s'era
persuaso (simile in ciò agli scrittori del secolo XVIII) che i popoli
primitivi, più vicini allo stato di natura, sono perciò, come erano
stati gli antichi Romani, più puri, più onesti e valorosi di quelli
che una civiltà raffinata ed artificiale ha corrotti, come era seguito
ai Romani del suo tempo. Ispirato da un ardente patriottismo, con un
sentimento quasi profetico della rovina che minacciava l'Impero, voleva
scongiurarla col ricondurre i suoi connazionali all'antica virtù. E
quindi descriveva con entusiasmo, esaltava, idealizzava la vita, i
costumi dei barbari. Egli è certo un grande storico e pensatore; ma,
a differenza di Cesare, sempre chiaro, sobrio e preciso, è anche un
manierista, il cui stile vigoroso, ma spesso anche oscuro, si presta a
molte e diverse interpetrazioni. Ciò ha dato luogo a dispute infinite,
massime quando egli non va pienamente d'accordo con Cesare, il che
gli succede spesso. Ma siffatte divergenze hanno un'assai facile
spiegazione. Tacito scriveva un secolo e mezzo dopo di Cesare, ed a suo
tempo la Germania s'era non poco mutata. Il lungo contatto avuto dai
barbari coi Romani, l'avere in questo mezzo trovato chiuso il passaggio
del Reno e del Danubio, quando forse altre popolazioni li sospingevano
dall'oriente, tutto questo cominciò a rendere impossibile quella vita
seminomade dei tempi di Cesare, e li costrinse a prendere sulla terra
occupata una dimora, in parte almeno, più stabile.
Comunque sia di ciò, Tacito descrive anch'esso gli abitanti della
Germania in uno stato di barbarie, ignari delle lettere dell'alfabeto,
con scarsa conoscenza dei metalli, tanto che ne facevano poco uso
anche nelle armi; con nessuna conoscenza della moneta, della quale
solamente coloro che erano ai confini avevano appreso l'uso dai Romani.
Occupati anch'essi, come i loro antenati, principalmente nella caccia
e nella guerra, lasciavano per quanto potevano la cura della casa e la
cultura dei campi alle donne ed ai vecchi. Si cibavano tuttavia, più
che altro, del prodotto dei loro armenti. Conoscevano il frumento e ne
cavavano una bevanda, che usavano invece del vino. Temperati in tutto,
meno che nel bere e nel giuoco, non vestivano più di sole pelli, ma
usavano mantelli di lana. Le loro antiche divinità avevano cominciato
ad assumere una forma personale, e Tacito cerca assomigliarle alle
romane. Il _Tius_ (_Dyaus_ vedico), Dio supremo del cielo luminoso,
divenuto, pel carattere bellicoso del popolo, anche Dio della guerra,
è da lui confuso con Marte, e messo perciò in secondo luogo; in primo
egli pone invece _Wuotan_ (l'Odino dell'_Edda_), il Dio dell'aria e
delle tempeste, che chiama Mercurio. _Donar_,[4] figlio di _Wuotan_,
Dio dei fulmini e dei tuoni, dotato di forza prodigiosa, è confuso
ora con Ercole, ora con Giove. Queste e le altre poche divinità hanno
passioni umane, lottano fra di loro, si mescolano alle querele degli
uomini. Ad esse s'aggiungeva una quantità di demoni, che popolavano
l'aria, la terra, l'acqua, i boschi, i monti. Un ordine sacerdotale,
che Cesare non aveva trovato, si era adesso già formato. Per placare
le loro divinità, i barbari usavano anche sacrifizi umani. E quindi
non si può credere a ciò che Tacito dice poco dopo, che cioè essi non
costruivano tempii ai loro Dei, quasi per non profanarli con un culto
materiale, adorandoli invece, come in ispirito, nei boschi, quali
esseri invisibili e presenti.[5]
Questi barbari, come già accennammo, avevano ora preso dimora alquanto
più stabile sulle terre che occupavano. Ma non conoscevano ancora
le città, che ad essi sembravano prigioni, nelle quali «anche i più
feroci animali si sarebbero infiacchiti.»[6] Le case non erano più
mobili capanne di solo legno; ma l'uso del cemento e dei mattoni
era sempre ignoto. Poste, come anche oggi vediamo nei villaggi della
Svizzera, del Tirolo, della Germania, le une separate dalle altre,
eran circondate da piccoli orti, che insieme con esse appartenevano
alla famiglia che vi abitava.[7] E qui si può notare un primo passo
verso la proprietà privata, immobiliare. La terra rimaneva però
sempre proprietà collettiva del villaggio divenuto più stabile. Non
si mutava luogo ogni anno, ma solo quando la necessità di emigrare lo
imponeva, sia che fosse del tutto esaurita la fertilità dei campi, e
che perciò non bastassero più alla popolazione, sia che le conseguenze
di qualche guerra sfortunata costringessero a cercare altra sede. Ma
dentro il territorio occupato dal villaggio, o come alcuni dicono la
Marca, la mutazione era continua. In che modo poi la terra occupata
venisse divisa, e la cultura si avvicendasse, e le famiglie mutassero
il terreno che coltivavano, Tacito lo accenna in un luogo, che è dei
più oscuri, interpetrato perciò in non meno di sei modi diversi. E la
confusione delle molteplici interpetrazioni fu non poco aumentata dal
volere in esso cercare, non solamente ciò che lo scrittore aveva voluto
dire, ma quello anche di cui non aveva parlato, e che forse ignorava.
Dopo aver detto, che i barbari non conoscevano l'usura, la quale tante
rovine aveva portato nella società romana, Tacito continua: «le terre
sono occupate da tutti, secondo il numero dei coltivatori, fra i quali
vengono divise; e questa divisione è resa più agevole dalla vastità
del terreno che occupano. D'anno in anno si mutano i campi messi a
cultura, e sempre ne avanza una parte (quella probabilmente abbandonata
al pascolo). Non rimangono confinati in breve spazio, non si adoperano
a mantenere la fertilità della terra. Si contentano del solo frumento,
senza coltivare pometi, prati artificiali o giardini.»[8] Il villaggio
aveva dunque perduto l'antica mobilità dei tempi di Cesare; ma
dentro di esso la mutazione era continua, nessuno restando più di
un anno a coltivare lo stesso campo. La parte via via lasciata a
pascolo, rimaneva sempre d'uso comune, perchè la proprietà della
terra continuava ad essere collettiva. Altri particolari Tacito non
ci dà, ed è superfluo cercarli. Dello stato di cose da lui descritto
noi possiamo però farci un'idea più chiara, se gettiamo uno sguardo
al modo in cui si trovava costituita la Marca[9] germanica assai più
tardi, nel Medio Evo. Era questo uno stato di cose certamente diverso
da quello dei tempi di Tacito, ma che pur s'andò da esso, per processo
naturale, lentamente svolgendo, e che ne serbava perciò alcune tracce
visibili. Una parte del terreno era occupata da case sparse per la
campagna, cogli orti come li descrive Tacito. Un'altra era lasciata a
pascolo comune. Una terza finalmente veniva posta a cultura con regole
assai minute e determinate, che non sarebbero state possibili ai tempi
di cui noi ci occupiamo. Questa parte era divisa fra i vari capi di
famiglia, i quali dovevano coltivare il loro campo in maniera, che ogni
anno un terzo di esso riposasse, ed ogni triennio tutte le tre parti
avessero avuto il loro periodo di riposo. Sebbene questi campi fossero,
coll'andar del tempo, per un periodo sempre più lungo, assegnati ai
capi delle famiglie, pure la parte da ciascuno di essi lasciata a
pascolo, tornava ad essere d'uso comune, il che ricordava l'origine
antica, ancora non scomparsa del tutto, di proprietà collettiva. Come
si vede, un tale stato di cose, pur non essendo quello descritto da
Tacito, derivava da esso e giova a farcelo meglio comprendere.
Questi barbari, che non conoscevano le città, molto meno conoscevano
lo Stato. Cesare e Tacito li trovarono divisi in molti popoli diversi,
ciascuno dei quali ordinato, suddiviso in quelli che, con nomi latini,
essi chiamarono _Vicus_, _Pagus_ e _Civitas_. Il _Vicus_ o villaggio
era l'associazione più elementare, ancora poco determinata, costituita
dai vincoli di sangue, che formavano le parentele (_Cognationes,
Sippen, Sippenschaften_), con le quali spesso si confondevano
addirittura. La riunione di alcuni _Vici_ formava il _Pagus_, in
tedesco _Gau_, una specie di Cantone svizzero, che era il nucleo più
forte, quasi l'unità organica di questa società. L'unione di più _Pagi_
costituiva la _Civitas_, il popolo, la schiatta, come dicono alcuni, la
maggiore unità sociale barbarica, che a tempo di Cesare apparisce assai
più debole che a tempo di Tacito.
Questa società barbarica era in tutto militarmente costituita, tanto
che _populus_ ed _exercitus_, uomo libero ed uomo in armi, erano una
sola e medesima cosa. Si direbbe che fin d'allora vi si ritrovasse
il primo germe di ciò che, dopo secoli, doveva essere il servizio
militare obbligatorio, e l'ordinamento distrettuale dell'esercito
germanico. L'esercito era allora formato, secondo un sistema decimale,
per centurie, che si raccoglievano e costituivano nei _Pagi_, con
uomini venuti dai villaggi, fra loro imparentati, e comandati dai
capi dei villaggi stessi o delle parentele, giacchè anche qui, come
sempre, predominavano i legami di sangue. Tutto questo fece sì che
alcuni scrittori moderni dettero al _Pagus_ o _Gau_ il nome di Centena,
_Hundertschaft_. Se non che, il _Gau_ era d'assai varia estensione,
qualche volta grosso quasi come una _Civitas_, ed allora naturalmente
le centurie si costituivano nei centri minori, e si era quindi
indotti ad attribuire piuttosto ai villaggi il nome di Centene, ed a
confonderle con essi. Da ciò altre dispute infinite. Ma l'ordinamento
civile ed il militare, per quanto sieno in stretta relazione fra di
loro, non potevano essere allora, come non furono mai, una sola e
medesima cosa. E però, quando anche venisse dimostrato con assoluta
certezza, che la centuria si formava solo nel _Vicus_ o solo nel
_Pagus_, non ne seguirebbe perciò che centuria e _vicus_ o _pagus_
potessero confondersi fra di loro. Oltre di che bisogna pur notare
che, per quanto simili fossero allora i molti popoli germanici, ed
i caratteri generali del loro ordinamento civile e militare, v'era
sempre nei particolari una grande varietà da luogo a luogo, da popolo
a popolo. Solamente una esatta conoscenza, che pur troppo non abbiamo,
e forse non avremo mai, di questi particolari, potrebbe darci modo di
definire e determinare con precisione i caratteri generali d'uno stato
di cose tanto diverso dal nostro, e che dovrà quindi, in alcune parti
almeno, rimaner sempre per noi incerto ed oscuro.
Nel villaggio comandavano i _Majores natu_, i capi cioè delle famiglie
o delle parentele, che nelle cose di più grave importanza consultavano
il popolo, di cui in guerra assumevano il comando. Alla testa del _Gau_
si trovavano uno o più _Principes_, ai quali gli scrittori romani
dettero nome anche di _Magistratus_, e qualche volta di _Reges_.
Erano eletti fra le principali famiglie dei villaggi, essendovi fra
i Germani anche una nobiltà ed una schiavitù. La prima era composta
delle famiglie più antiche, che avevano formato il nucleo primitivo
del villaggio, attirando a sè le altre, o di quelle che più si erano
distinte nelle armi. La schiavitù par che fosse abbastanza mite;
lo schiavo riceveva dal suo padrone un campo da coltivare, pagando
un canone in derrate o animali. Questi _Principes_ erano circondati
dai capi dei villaggi, che formavano intorno ad essi una specie di
Consiglio ristretto, che decideva le cose di minore importanza. Per le
faccende più gravi, sopra tutto se si trattava di deliberare la guerra,
si consultava sempre il popolo. Le sue adunanze erano ordinarie, in
alcune determinate stagioni dell'anno, e straordinarie. In tempo
di pace i _Principes_ amministravano la giustizia nel _Gau_ e nel
villaggio;[10] in guerra comandavano l'esercito. Ai tempi di Cesare
par che avessero anche un carattere religioso, scomparso in quelli di
Tacito, essendosi allora formato già un ordine sacerdotale, che prima
non c'era.
La _Civitas_, come dicemmo, sembra essere stata in origine assai
debolmente costituita. Cesare infatti affermava di non avere in
essa trovato, in tempo di pace, nessun comune magistrato (_in pace
nullus est communis magistratus_).[11] E l'assemblea della _Civitas_
(_Consilium Civitatis_), che in Tacito ha una così grande importanza,
è di rado menzionata da lui, tanto da far dubitare che fosse allora
veramente un organo vitale di quella società. Il _Gau_ o _Pagus_
aveva perciò ai tempi di Cesare maggiore indipendenza; faceva razzìe
per proprio conto, senza troppo occuparsi di quel che voleva o non
voleva la sua _Civitas_, da cui qualche volta si staccava addirittura,
per andare a far parte di un'altra. Alla testa di essa erano i
_Principes_, che formavano una specie di Senato, il quale deliberava
sugli affari minori, ed apparecchiava le deliberazioni più gravi da
sottomettere all'assemblea popolare, che approvava col percuotere
le armi, disapprovava con grida di fremito. Quest'assemblea aveva
le sue ordinarie adunanze in tempo di luna nuova o di luna piena, e
le straordinarie, in tempi indeterminati, secondo l'occorrenza.[12]
In essa venivano eletti i _Principes_, e possiam credere che ciò si
facesse confermando coloro che erano stati prima proposti dai _Pagi_.
Nella stessa assemblea venivano concesse le armi a quelli che avevano
raggiunta l'età legale, il che, secondo la espressione di Tacito, era
il primo onore, la toga virile, con la quale venivano ammessi a far
parte della Repubblica.[13]
Il governo della _Civitas_ sembra davvero essere stato generalmente
ordinato a repubblica, sebbene spesso apparisca un capo con la forma
monarchica, massime quando uno dei _Gau_ riusciva a prevalere sugli
altri. Quello però che sopra tutto contribuiva a dar forte unità alla
_Civitas_, e stringeva intorno ad essa anche _Pagi_ di altri popoli
o addirittura altre _Civitates_, formando così una confederazione,
che pigliava nome dalla principale di esse, era la guerra. Questa
richiedeva naturalmente un capo militare, un _Dux_, quali furono
Ariovisto ed Arminio, una specie di dittatore, con assoluto potere,
il quale, fatta la pace, rimaneva spesso al suo posto, divenendo
allora un vero e proprio re, come di tanto in tanto ne troviamo, e più
specialmente nella Germania orientale. Il duce veniva naturalmente
eletto per le sue qualità militari; i principi invece per la
nobiltà delle loro famiglie: _Reges ex nobilitate, duces ex virtute
sumunt_.[14]
Un'altra istituzione assai diffusa in questa società barbarica era
il così detto _Comitatus_ (_Gefolgschaft_), che circondava così il
_Princeps_ come il _Dux_. Lo formavano i giovani più nobili ed animosi,
che si stringevano, quasi specie di paladini, intorno ad uno dei loro
capi, di cui divenivano indivisibili compagni d'arme. E come era per
essi un disonore il sopravvivere nella pugna al proprio capo, così era
per questo un disonore il lasciarsi da essi vincere in valore.[15]
Se ora, gettando uno sguardo generale su quanto abbiam detto,
paragoniamo la società romana alla barbarica, il contrasto apparirà
assai evidente. La prima era formata da una popolazione urbana,
divisa in un gran numero di città collegate da strade, con campagne
deserte, coltivate da schiavi o coloni. La seconda era invece una
società rurale, sparsa pei campi che liberamente coltivava. E sebbene
anche in essa vi fossero nobili e schiavi, v'era tuttavia un'assai
maggiore uguaglianza. La differenza delle fortune si limitava più
specialmente al numero degli armenti. La proprietà collettiva della
terra contribuiva non poco a riunire gl'interessi di tutti, che colle
armi difendevano il territorio comune, e nelle popolari assemblee
deliberavano insieme. Quasi nulla era l'azione dello Stato, che in
realtà non esisteva, e tutto aveva un carattere personale. La pena
era una vendetta affidata all'offeso ed ai suoi parenti, e si poteva
comporre dando soddisfazione ad essi, non alla comunanza. I legami
di sangue costituivano la base stessa della società, ed in parte
anche dell'esercito, ordinato in gruppi di parentele. A Roma invece
predominava su tutti lo Stato, e la società era fondata interamente
sulle relazioni giuridiche. I Romani erano stati inoltre i primi a
creare la proprietà privata, liberandola dalla forma arcaica, dando
così uno slancio febbrile all'attività individuale, al progresso
sociale. Ma nella lotta per l'esistenza i più forti e più fortunati
spogliarono i più deboli, e distruggendo la piccola proprietà, crearono
i latifondi. Si ebbero da una parte fortune enormi; dall'altra una
moltitudine tumultuosa di nullatenenti affamati, cui s'aggiungeva un
esercito che aggravava ognuno di tasse.
Se ora per un momento, colla nostra immaginazione, ci provassimo a
fondere insieme queste due società, noi vedremmo da un lato sorgere
maggiore ordine e disciplina, con l'idea dello Stato, della legge,
del diritto impersonale; dall'altro vedremmo rinascere la piccola
proprietà, ripopolarsi le campagne di liberi agricoltori. Ma queste
chimiche combinazioni nella storia si fanno solo con la violenza,
con la guerra; e però nell'urto sanguinoso delle due società, una,
pur modificando sè stessa, doveva vincere ed abbattere l'altra.
Chi doveva vincere? La società romana era una vasta, maravigliosa
organizzazione, con una grande forza espansiva ed assimilatrice. Se
non fosse stata minacciata da interna decomposizione, avrebbe di certo
potuto continuare a sottomettere, a riunire ed assimilare nuove genti,
respingendo qualunque assalto. È quello che aveva fatto per più secoli.
Se non che, colle vittorie crescevano gli elementi di decomposizione
all'interno, di debolezza all'estero. E intanto le popolazioni
germaniche tornavano continuamente all'assalto, spinte dal bisogno
irresistibile di nuove terre da coltivare, bisogno che tutte spingeva
verso l'occidente. Si avanzavano tumultuose, in numero sempre maggiore,
sempre crescente, come le onde di un mare in tempesta.
Fortunatamente per l'Impero, questo mare germanico, diviso in una
moltitudine di popoli diversi, di continuo in guerra fra di loro, non
aveva unità nazionale, come era provato dal fatto, che nel chieder
nuove terre essi si offerivano spontanei a servire sotto le bandiere
dell'Impero, e combattevano con valore contro i propri connazionali.
Molte infatti delle battaglie romane contro i barbari furon vinte con
soldati germanici. Questo poteva far nascere l'illusione, che fosse
possibile, per mezzo della disciplina, impadronirsi d'una gran parte
di loro, ed assimilarli, per sottomettere, con essi, stabilmente
gli altri. Ma l'esempio di Arminio dimostrava la vanità d'una tale
illusione. I barbari educati sotto le bandiere romane, divenivano
soldati e capitani eccellenti; ma non perdevano mai il loro carattere
germanico, fieramente avverso al nome romano ed all'Impero, che pur
tanto ammiravano. Anche quando non bastava a tenerli uniti la comune
origine, li univa il comune odio. Nè questo, per benefizi ricevuti, si
estingueva mai. I più grandi nemici di Roma, quelli che distrussero
l'Impero, Alarico, Odoacre, Teodorico, erano stati educati nelle
legioni romane. Il sentimento della comune origine, se nei tempi
ordinari di calma s'infiacchiva, di fronte ad un pericolo comune, sopra
tutto quando trovavano un capo valoroso che li guidasse, si ridestava
potentemente, e riusciva ad unirli con una fulminea rapidità, in
vastissime confederazioni, animate da uno stesso furore. Si avanzavano
allora come un sol uomo, con un impeto irresistibile. Ciò s'era visto
fin dal tempo dei Cimbri, di Ariovisto, di Arminio, e continuò a
ripetersi continuamente. Questa unione, è ben vero, non durava a lungo.
Dopo il pericolo imminente si scioglieva; ma finchè durava, poteva da
un momento all'altro riuscire fatale all'Impero, massime se si pensa
al numero stragrande di genti che la Germania poteva mettere in armi,
ed al numero già grandissimo di barbari che erano nell'esercito e fra
gli schiavi romani. Se non che, una volta aperta la breccia sul Reno o
sul Danubio, ed inondato l'Occidente, ai barbari sarebbe stato assai
difficile, anzi impossibile, organizzare qualche cosa di stabile.
Questo, essi, lo sentivano, ed era un'altra causa di debolezza, perchè
scemava non poco la loro fiducia in se stessi, di fronte all'Impero,
che vedevano sempre fortemente costituito, civilmente non meno che
militarmente; e però lo ammiravano come qualche cosa di sacro ed
eterno, nel momento stesso che lo aggredivano con tanto furore.
Ma i guai, come abbiamo già visto, erano dall'altro lato anche
maggiori. Per poco che quella mirabile unità, che riannodava e
stringeva tutte le forze molteplici dell'Impero, dinanzi all'impetuoso
urto barbarico, si fosse anche per un momento solo spezzata, avesse in
qualche punto ricevuto un forte strappo, tutto sembrava a un tratto
minacciare rovina, appunto perchè tutto era collegato, e da questo
collegamento riceveva la forza e la vita. L'individuo, educato a
vivere per lo Stato e sotto la sua protezione, non capiva come senza
di esso si potesse esistere. Quando appena si sentiva abbandonato a se
stesso, era come un atomo perduto nel caos; non immaginava neppure che
fosse possibile resistere a quella società germanica, di cui ognuno
s'avanzava con una sete feroce di sangue. Era un sentimento simile a
quello di chi veda improvvisamente, per tremuoto, crollare le case,
e senta il terreno mancargli sotto i piedi, o si trovi chiuso in un
teatro minacciato d'incendio. Questo sentimento invece era affatto
ignoto ai barbari, i quali facevano parte d'una società divisa e
suddivisa non solo in popoli, ma in gruppi o cantoni diversi, che
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