Le invasioni barbariche in Italia - 19

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e schiavi i proprietari, le cui terre erano state divise, si avrebbero
i nulla-tenenti in una condizione superiore a quella dei latifondisti,
nobili e Senatori. Le contradizioni sarebbero insomma tali e tante, che
bisogna pur finire col riconoscere, come nonostante la grande dottrina
adoperata a sostenerla, la teoria della servitù degl'Italiani sotto i
Longobardi in nessun modo si regge in piedi.

NOTA
Non sarà forse inutile accennare qui in nota qualcuna delle molte
dispute che, interpetrando in diversi modi le parole di Paolo
Diacono, si sono fatte sulla condizione degl'Italiani sotto i
Longobardi.
I brani discussi, come è ben noto, sono due. Il primo dice: _His
diebus multi nobilium Romanorum ob cupiditatem interfecti sunt.
Reliqui vero per hospites divisi, ut terciam partem suarum frugum
Langobardis persolverent, tributarii efficiuntur_ (II, 32). I
Longobardi, si è interpetrato, uccisero molti dei nobili Romani,
gli altri (_reliqui_), cioè tutto il resto della popolazione,
furono divisi tra gli ospiti longobardi, con l'obbligo di pagare
ad essi il terzo delle loro entrate (_tertiam partem suarum
frugum_), e divennero perciò tributari. Ma, lasciando da parte
che il _reliqui_ troppo evidentemente si riferisce a _nobiles_,
come sarebbe stato mai possibile render tributari tutti i Romani,
obbligando a pagare il terzo delle loro entrate anche coloro
che nulla possedevano? Il farli poi schiavi, come qualcuno ha
supposto, è cosa che Paolo Diacono non accenna in nessun modo, e
sarebbe anzi, come notammo, in contradizione con quello che dice
poco dopo. Osserva poi il Sybel (p. 429), a questo proposito,
che non si può interpetrare quel passo, supponendo che anche
i nulla-tenenti venissero divisi _per longobardos hospites_,
perchè la _hospitalitas_ era una relazione che passava fra il
_proprietario_ romano ed il longobardo, il quale dei coloni e dei
coltivatori della terra era _patronus_, non _hospes_.
L'altro brano che ha dato alimento alla discussione, si riferisce
a ciò che avvenne nella restaurazione del regno, quando fu
eletto Autari. Dopo avere affermato che i Duchi dettero al
Re, per suo uso personale, e per pagare i suoi ufficiali o
aderenti, metà dei loro averi, _omnem substantiarum suarum
medietatem_, Paolo Diacono aggiunge: _Populi tamen adgravati
per langobardos hospites partiuntur_ (III, 16). Le parole
_populi adgravati_ fecero supporre che le popolazioni fossero
state, dopo la elezione del Re, più duramente aggravate,
perchè i Duchi si vollero su di esse rifare di quello che
avevano dovuto dare al Re. Ma ciò non si trova punto nelle
parole, e non era nel pensiero di Paolo Diacono, il quale dice
invece che le popolazioni stavano assai meglio sotto i Re. Nel
regno longobardo, secondo lui, _nulla erat violentia, nullae
struebantur insidiae; nemo aliquem iniuste angariabat, nemo
spoliabat; non erant furta, non latrocinia; unusquisque quo
libebat securus sine timore pergebat_ (_Ibidem_). I popoli
aggravati adunque non sono altro che quelli stessi che già prima
erano stati fatti tributari, e che perciò erano stati e rimasero
divisi fra i proprietari longobardi, i quali avevano cedute al
Re metà delle terre che erano di loro libera e piena proprietà,
quelle cioè che avevano confiscate ai nobili romani uccisi.
Si può anche supporre, come dicemmo, che, essendosi il regno
ingrandito, avesse avuto luogo allora una nuova divisione di
terre, e quindi una nuova distribuzione di vinti tributari fra i
vincitori. Ma è solo una induzione, perchè Paolo Diacono non lo
dice.
Siccome poi, in questo secondo brano, egli non parla più di
rendite (_frugum_), così si è, non senza qualche ragione, da
alcuni supposto, che a tempo di Autari non si facesse più una
divisione delle rendite, ma delle terre stesse, di cui un terzo
sarebbe divenuto proprietà dei Longobardi, e due terzi sarebbero
restati libera proprietà dei Romani, con vantaggio evidente degli
uni e degli altri. Questa interpetrazione troverebbe sostegno
nella variante (che si legge però in un solo codice, e non dei
più autorevoli), la quale, invece di _per hospites partiuntur_,
dice, _hospitia partiuntur_: non sarebbero cioè stati divisi i
_populi_ nè le rendite, ma le terre stesse, _hospitia_. Più di
questo non si può dire; ed è vana fatica sforzarsi, per trovare
in Paolo Diacono quello che egli non dice, e che forse non
sapeva, essendo vissuto tanto più tardi. Questo anzi può spiegare
l'incertezza del suo linguaggio, della quale non bisogna però
abusare, per fargli dire quello che a noi piace.


CAPITOLO III
Ordinamento del regno longobardo e del governo bizantino

Importa ora formarsi un'idea chiara, almeno sommariamente, della
forma di governo, che ebbero fra di noi i Longobardi, perchè se mai
una volta, come alcuni pretesero, il filo della tradizione romana si
spezzò del tutto in Italia, se ogni traccia di leggi e d'istituzioni
romane sparì affatto, questo non potrebbe essere avvenuto che sotto il
loro dominio. Non solamente esso durò su di noi più a lungo di ogni
altro dominio barbarico; ma è certo che gli Ostrogoti lasciarono in
vigore le leggi e le istituzioni romane, i Bizantini non ne avevano
altre essi stessi, e i Franchi quando vennero più tardi erano già
in parte romanizzati. I Longobardi, come vedemmo, avevano invece
avuto assai minore contatto coll'Impero, col quale s'erano messi in
aperta guerra, per cacciarlo addirittura dall'Italia. Avendo però
da lungo tempo abbandonate le loro antiche sedi, vagando sotto forma
più o meno d'una compagnia di ventura, non potevano neppur essi aver
serbate intatte le primitive istituzioni germaniche. E quelle che ora
avevano, non potevano dirsi naturalmente, esclusivamente svolte dalle
antiche, che di necessità erano state profondamente alterate dalle
nuove condizioni in cui s'erano trovati, dal contatto che avevano avuto
con altri popoli. Rimase tuttavia costante in essi la loro tendenza
disgregatrice, la incapacità di costituirsi in una forte unità. Questo
fu causa del disordine continuo in cui vissero; rese loro impossibile
arrivar mai alla conquista di tutta Italia, e portò finalmente la
totale rovina del regno.
Alla loro testa era un Re non del tutto ereditario, nè del tutto
elettivo. Il popolo lo eleggeva o ne sanzionava la elezione fatta dai
suoi capi, la quale soleva essere circoscritta nella cerchia d'una
stessa famiglia o parentela. Qualche volta il popolo trasmetteva ad
altri la facoltà di fare l'elezione. Così dopo la morte d'Autari,
si dette facoltà alla sua vedova Teodolinda d'eleggersi un marito,
che sarebbe stato, come poi fu, il nuovo Re dei Longobardi. Questi
era il capo civile e militare della nazione; comandava l'esercito,
amministrava la giustizia in compagnia di assessori, che di volta in
volta sceglieva. Le leggi proclamate in suo nome erano le consuetudini
stesse formatesi nel popolo, le quali egli, d'accordo coi grandi,
formulava e sottoponeva poi all'approvazione dell'assemblea popolare,
perchè decidesse se riproducevano esattamente le consuetudini. Il
Re poteva anche di sua autorità emanare ordini o decreti, i quali,
coll'andare del tempo e sotto l'azione persistente del diritto romano,
andarono crescendo di numero e d'importanza. Quello che soprattutto
determinò il carattere di questa monarchia, fu la sua divisione in
Ducati, i cui Duchi, nominati dal Re a vita, erano specie di Vicerè
indipendenti, piuttosto che veri e propri ufficiali regi. Essi
tendevano a rendersi non solo sempre più indipendenti, ma anche
ereditari; e qualche volta vi riuscirono, come fecero quelli del
Friuli, di Spoleto e di Benevento. Il duca di Spoleto assunse il titolo
di _Dux gentis Langobardorum_, quello di Benevento divenne addirittura
un vero e proprio sovrano autonomo ed ereditario. Tutto questo non
poterono tuttavia riuscire a fare gli altri Duchi meno lontani, perchè
il Re, come era naturale, vi si opponeva, per tenerli sottomessi alla
propria autorità. Di qui un conflitto permanente, che fu causa di
rivoluzioni continue, della morte violenta di molti Re, e produsse la
debolezza continua del regno, che non si riuscì mai ad organizzare
fortemente. Ed in più di due secoli di dominio, di violenze e di
prepotenze i Longobardi, invece di germanizzare gl'Italiani, finirono
coll'essere essi romanizzati, formando coi vinti un popolo solo.
Nel regno longobardo v'erano alcuni veri e propri ufficiali regi,
chiamati Gastaldi, e nominati dal Re, che poteva revocarli. Essi
amministravano la _Curtis Regia_, cioè i beni della corona nei Ducati,
nei quali erano mandati. Sorvegliavano i Duchi, e là dove esercitavano
il proprio ufficio, facevano anche da giudici e capi militari.
Aumentare il numero di questi Gastaldi fu il pensiero costante dei Re,
perchè era il solo mezzo di accrescere l'autorità propria, di dare una
qualche organica unità al regno. E però, coll'andare del tempo, nelle
terre nuovamente conquistate, cercaron sempre di porre Gastaldi invece
di Duchi. Intorno al Re erano anche i Gasindi, specie di familiari o
cortigiani, il cui potere andò col tempo anch'esso aumentando. Ma quel
che è più, v'era un Consiglio di Duchi, del quale naturalmente non
facevano di regola parte i Romani; v'entravano però i Vescovi, i quali,
massime in principio, erano sempre romani.
Tutto ciò, come è evidente, non bastava a formare un regno saldamente
costituito. I Duchi cercavano continuamente ed in ogni cosa d'imitare
il Re. Giudicavano nel proprio Ducato, ne comandavano l'esercito,
facevano anche spedizioni militari per loro conto; qualche volta, per
ordine del Re, assumevano in tutto o in parte il comando dell'esercito
nazionale. Avevano anch'essi i loro Gasindi, ed ufficiali che facevano
le veci di Gastaldi, ed altri che chiamavano Sculdasci, i quali tutti
avevano, più o meno, poteri amministrativi, giudiziari e militari. Al
Re sarebbe di diritto spettato il nominare gli ufficiali dei Duchi; ma
questi tendevano sempre a nominarli essi, e spesso vi riuscirono. Nel
Ducato di Benevento non vi furono i Gastaldi regi, ma solo ufficiali
nominati dal Duca.
Si è molto disputato per sapere se i Longobardi in genere o i Duchi
in ispecie risiedevano nelle città o nella campagna. E certo non è
difficile trovare molti argomenti per sostenere che risiedevano in
città, soprattutto nelle principali. Queste avevano ciascuna un proprio
territorio, determinato dalle antiche circoscrizioni romane, su cui
si erano formate le Diocesi vescovili, identiche alle così dette
Giudiciarie dei Ducati. Tutto ciò, insieme riunito, aveva il nome
di _Civitas_, ed in essa di certo dovevano risiedere i Longobardi in
genere, e i Duchi in ispecie. Ma che risiedessero generalmente dentro
le mura delle città, le quali erano ab antico la sede della popolazione
romana, è, secondo noi, più facile affermarlo che dimostrarlo. Colle
invasioni germaniche il centro di gravità fu trasferito nelle campagne.
I Tedeschi erano popolazioni rurali, che non conoscevano le città; nei
castelli del contado si costituì più tardi il feudalismo, che dette la
forma predominante alla società medioevale; ed i grandi feudatari del
contado sono dai nostri cronisti continuamente chiamati i Teutonici, i
Lombardi.
Di fronte al governo dei Longobardi, in tutti i luoghi di cui essi non
riuscirono ad impadronirsi, restava sempre il governo bizantino, il
che doveva contribuire non poco a far sì che, pel mutuo contatto, si
modificassero l'un l'altro. Secondo la Prammatica Sanzione il potere
civile ed il militare dovevano essere divisi. Alla testa del primo
restava infatti il _Praefectus Praetorio_, che risiedeva a Ravenna; a
Roma c'era un _Vicarius Urbis_; a Genova un _Vicarius Italiae_, e tutti
e tre dovevano curare l'amministrazione. Le liti fra Romani venivano
decise da _Judices provinciarum_ eletti dai Vescovi. La Prefettura
d'Italia, separata dalla Rezia e dalle isole, s'era andata sempre più
restringendo, e s'era adesso ridotta ad alcuni brani solamente della
Penisola. La Sicilia aveva un suo proprio Prefetto; la Sardegna e la
Corsica dipendevano dall'Esarca dell'Africa. Siccome però lo stato di
guerra continuava sempre, nè poteva cessare per ora, così, nonostante
l'esistenza del Prefetto e dei Vicari, il potere civile ed il militare
si riunivano di fatto nei Duchi bizantini. Questi, mandati a governare
e difendere le province ancora dipendenti dall'Impero, le quali spesso
erano non solo separate, ma anche assai lontane le une dalle altre,
si trovavano di fronte ai Duchi longobardi, anch'essi separati e
indipendenti. Così fin da ora l'Italia andò sempre più dividendosi e
suddividendosi.
La tendenza burocratica, accentratrice dei Bizantini rendeva necessario
un capo che rappresentasse l'Impero nella Penisola, e nel quale tutti
i poteri si riunissero come nell'Imperatore. Questo capo era l'Esarca,
cui si attribuiva anche la dignità assai onorifica di Patrizio, e
risiedeva a Ravenna. Il titolo di Esarca era generalmente dato a tutti
coloro che conducevano una spedizione all'estero, ed in questo senso
potè esser da qualcuno attribuito anche a Belisario ed a Narsete.
Ma esso ebbe in Italia un significato, un valore affatto speciale,
perchè concesso solo a chi governava in nome dell'Imperatore e lo
rappresentava, quasi una continuazione o trasformazione dell'ufficio
affidato già a Teodorico. In questo senso Belisario e Narsete non
furono Esarchi, ma solo capi dell'esercito, e con esso governarono.
Si è molto disputato per sapere chi fosse il primo Esarca in Italia.
La più antica menzione ufficiale di questo ufficio si trova, come già
dicemmo, nella lettera di papa Pelagio II, scritta in data 4 ottobre
584, che alcuni credono di dover mutare in 585. Decio perciò fu di
certo Esarca, e prima di lui si ritiene da alcuni che anche Baduario
(575-76) avesse quel titolo. A Decio, che governò breve tempo, successe
(585) Smeraldo. I Duchi bizantini teoricamente dipendevano dall'Esarca,
che li nominava; ma, separati e lontani gli uni dagli altri, agivano di
fatto come indipendenti; e così l'Esarcato andò a poco a poco divenendo
anch'esso una specie di Ducato, da cui gli altri dipendevano solamente
perchè in esso governava il rappresentante supremo dell'Imperatore.
In questo senso più ristretto l'Esarcato si estendeva dall'Adige alla
Marecchia, dall'Adriatico all'Appennino; conteneva Ravenna e Bologna
coi loro territori, ed altre città di minore importanza. Accanto ad
esso erano la Pentapoli marittima (Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia,
Ancona) e la Pentapoli annonaria (Urbino, Fossombrone, Jesi, Cagli,
Gubbio), che, insieme riunite, secondo alcuni formavano la Decapoli,
secondo altri invece questo nome davasi alla seconda Pentapoli.[34] Nel
settimo secolo appartenevano ai Bizantini anche il Ducato di Venezia,
parte dell'Istria, l'Apulia e la Calabria (Terra d'Otranto), il Bruzio
(Calabria moderna), Napoli, Roma, Genova con la Riviera. In generale
tutte le città della costiera adriatica e mediterranea restarono ai
Bizantini, non essendo i Longobardi stati mai navigatori. L'Esarca
era mandato a governare _Regnum et Principatum totius Italiae_,
perchè l'Impero restava attaccato sempre alle antiche formole,
anche quando non rispondevano più alla realtà. Da principio l'Esarca
nominava i Duchi ed i Maestri dei militi, due ufficiali che spesso
si confondon tra loro, sebbene in origine questi fossero inferiori a
quelli, e più esclusivamente militari: a Roma il Maestro dei militi
comandava le milizie della città, il Duca quelle di tutto il Ducato.
Di fatto poi finirono, così gli uni come gli altri, coll'esercitare
le funzioni giudiziarie e militari, spesso anche amministrative, e
vi fu fra di loro poca differenza. I Ducati eran divisi in sezioni,
nelle quali comandavano i tribuni, che vennero spesso confusi coi
Conti, risiedevano nelle città secondarie, e dipendevano dal Duca
o dal Maestro dei militi, che risiedevano nelle città principali e
comandavano in tutto il Ducato. Il numero e la estensione di questi
Ducati variavano secondo le necessità della guerra. Prima della venuta
dei Longobardi ne erano stati già formati parecchi ai confini, verso
le Alpi, con soldati _limitanei_, che in pace coltivavano i campi loro
concessi, lasciandoli poi in eredità ai figli con lo stesso obbligo
della difesa. La tendenza a rendere ereditari gli uffici era, come è
noto, assai generale presso i Bizantini. Colla venuta dei Longobardi,
con la divisione e suddivisione dell'Italia, che per opera loro ne
seguì, i confini si moltiplicarono. Essi furono a poco a poco quasi
per tutto, perchè ai Bizantini era necessario difendersi per tutto
dal nemico. E s'andarono continuamente formando nuovi Ducati, i quali
variarono di numero e di estensione, secondo che per le vicissitudini
della guerra s'avanzava o si retrocedeva.
L'Esarca, come nominava i Duchi, perchè rappresentante dell'Imperatore,
così per la stessa ragione s'ingeriva nelle cose ecclesiastiche. Esso
presumeva di dover ricondurre i sudditi alla vera fede, imprigionava
i vescovi, sorvegliava ed approvava la elezione del Papa: qualche
volta ebbe da Costantinopoli persino l'ordine d'imprigionarlo. Da
un tale stato di cose sorgevano, come era naturale, cause infinite
di conflitti; e non solamente con Roma. A Costantinopoli si temeva
sempre che l'Esarca volesse rendersi indipendente: più d'uno di essi
infatti ci s'era provato. Si cercava quindi d'indebolirne il potere,
favorendo invece l'autorità dei Duchi, facendoli nominar direttamente
dall'Imperatore, o confermandoli quando il popolo cominciò esso ad
eleggerli. E ne seguì non solo che i Ducati bizantini s'andarono sempre
più separando gli uni dagli altri e dall'Esarca, dividendo sempre
più l'Italia; ma finirono coll'emanciparsi, qualche volta proclamando
addirittura la loro indipendenza. Questo avvenne a Venezia, a Napoli, a
Roma ed anche a Ravenna, come vedremo.
Nel 584 noi vedemmo come papa Pelagio II, si dolesse che a Roma non
vi fosse nè un Duca nè un Maestro dei militi. Nel 592 invece Roma
aveva già un suo Maestro dei militi che ne difendeva le mura, e nel
625 l'_Exercitus Romanus_ (che nel 640 è ricordato la prima volta
dal _Libro Pontificale_) assisteva ufficialmente alla elezione del
Papa. E non molto dopo troviamo che Gregorio Magno fa obbligo alle
popolazioni del Ducato di difendere colle loro armi contro i Longobardi
le mura della città, la quale sembra così già avviarsi ad una propria
autonomia. Si è lungamente voluto supporre, che sotto i Longobardi
fosse scomparso ogni avanzo di diritto e di istituzioni romane, e
che degli antichi municipi non fosse rimasta traccia alcuna. L'antica
_Curia_, si è mille volte ripetuto, era ridotta a riscuoter tasse, che
i Decurioni dovevano pagare anche quando non riuscivano a riscuoterle.
L'appartenervi non era quindi più un onore, ma un onere incomportabile,
che tutti cercavano di fuggire, anche col volontario esilio; nè dopo
il 625 essa si trova più ricordata nei documenti. Nella stessa Italia
bizantina, dove la legge romana era in pieno vigore, l'amministrazione
municipale, si disse, era scomparsa, cadendo nelle mani del Vescovo
e di ufficiali quasi governativi come il _Curator_ ed il _Defensor_.
Nell'Italia longobarda, secondo i medesimi scrittori, tutto sarebbe
stato assorbito dalla _Curtis regia_, dai Duchi, dai Gasindi, più
tardi dai Vescovi. Ma sono teorie ed ipotesi ora in gran parte
abbandonate da coloro stessi che una volta le sostenevano con grande
ardore. Se tutto ciò fosse vero, riuscirebbe assai difficile capire
in che modo i Longobardi avrebbero potuto amministrare e governare le
popolazioni italiane, in gran numero raccolte nelle città. Di queste
popolazioni essi dovevano pure occuparsi, ne avevano bisogno, perchè
esse esercitavano i mestieri, l'industria ed il commercio. Qualunque
fosse poi lo stato legale delle cose, è assai difficile, per non dire
impossibile, il credere che, anche volendo, i Longobardi avessero
potuto impedire che, almeno di fatto e per consuetudine, continuasse
fra gl'italiani a vivere una qualche parte della giurisprudenza e
delle istituzioni romane. Esse avevano create fra di loro un gran
numero di relazioni civili, delle quali i Longobardi ignoravano
affatto l'esistenza e perfino il nome. Quanto poi a ciò che seguì a
tempo dei Bizantini, i quali vivevano essi stessi con le istituzioni
e con la legge romana, la totale scomparsa del Municipio sotto il loro
dominio, renderebbe inesplicabile il suo pronto riapparire a Venezia,
a Roma ed in molte città del Mezzogiorno, che erano rimaste più o
meno alla dipendenza di Costantinopoli. Ma è superfluo qui anticipare
la discussione d'un argomento, che si presenterà più tardi con assai
maggiore insistenza ed evidenza.


CAPITOLO IV
Gregorio I — Agilulfo sposa Teodolinda e pacifica il regno — Gregorio
I fa pace coi Longobardi di Spoleto — Agilulfo assedia Roma —
L'imperatore Maurizio è deposto; viene eletto Foca — Morte di Gregorio
I e di Agilulfo — S. Colombano

Nel 590 morirono Pelagio II e Autari. Mutavano così nello stesso tempo
il capo della Chiesa e il re dei Longobardi, e ad essi succedevano due
uomini, il Papa soprattutto, di grandissimo valore. Gregorio I, che
prese il posto di Pelagio II, era nato a Roma circa il 540 da illustre
famiglia senatoria. La madre ed il padre erano pieni di tanto zelo
cristiano, che appena nato il figlio si dettero addirittura a vita
religiosa. Questi studiò con ardore le lettere e la filosofia, ebbe
alti uffici, e poco dopo la invasione longobarda, verso il 573, era
Prefetto di Roma e Presidente del Senato. Ben presto però si sentì
anch'egli invaso dallo zelo religioso, e cominciò a spendere il suo
ricco patrimonio fondando conventi benedettini in Sicilia ed altrove.
Uno di questi conventi, nel quale si chiuse poi egli stesso, vestendovi
l'abito, a quanto sembra, nel 575, lo fondò a Roma, nel suo palazzo
avito, sul monte Celio. Si narra che, vedendo un giorno nel mercato
alcuni bellissimi e biondi Inglesi, pagani, esposti alla vendita come
schiavi, esclamasse: — Non Angli, ma Angeli si debbono chiamare; — e
partì subito per andare in Inghilterra, con animo di convertir quelle
popolazioni. Ma il popolo lo fece richiamare dal Papa, che lo nominò
diacono; più tardi fu inviato apocrisario a Costantinopoli, dove seppe
far sentire efficacemente nella Corte imperiale la sua azione personale
a favore della Chiesa romana. Tornato a Roma, fu segretario del Papa,
cui poi successe, eletto a voti unanimi. Dicono che facesse di tutto
per evitare la enorme responsabilità d'assumere il Papato, che era in
assai difficili condizioni; ma non gli fu possibile. La peste faceva
strage, ed egli, per invocare l'aiuto divino, ordinò una processione
solenne di tutto il popolo, la quale durò tre giorni continui. Vuole
la leggenda che Gregorio allora vedesse apparire sulla tomba d'Adriano
un angelo, il quale rimetteva la spada nel fodero, a significare che
le preghiere erano state esaudite, e che la strage sarebbe cessata. In
memoria di ciò, su quella tomba monumentale venne poi messa la statua
dell'angelo in bronzo, da cui essa ebbe il nome di Castel Sant'Angelo.
La statua che oggi si vede è però del 1740.
Venuta da Costantinopoli la conferma, il nuovo Papa fu il 3 settembre
590 consacrato col nome di Gregorio I, rimanendo per quattordici
anni sulla cattedra di S. Pietro, fino cioè al marzo del 604. In lui
v'era il doppio carattere d'un uomo contemplativo e ardentemente
religioso, unito a quello d'un uomo operosissimo e pratico: due
qualità che sembrano a molti poco conciliabili fra di loro, ma che
pur si trovano assai spesso riunite in uno stesso individuo. Questo
doppio carattere si riscontra anche ne' suoi scritti, alcuni dei
quali, come i _Dialoghi_, le _Omelie_ e i libri morali ci mostrano
l'uomo contemplativo; altri mirano invece ad uno scopo pratico, come
son quelli che danno regole per la liturgia. Queste regole furono
lungamente osservate: la messa si celebra anche oggi in gran parte
secondo le norme fissate da papa Gregorio. A lui si deve anche la
riforma della musica sacra, e la fondazione delle scuole di quel
canto, che fu perciò chiamato gregoriano. I quattordici libri delle
sue _Epistolae_ sono un monumento davvero immortale per la sua
vita e per la storia dei tempi. In esse impariamo a conoscere con
sicurezza il carattere nobilissimo di quest'uomo, che si può dire il
secondo fondatore del Papato; e vi risplendono di viva luce il suo
senno pratico, la sua febbrile attività e carità cristiana, il suo
ardore religioso. Vi si vede chiaro come egli fosse divenuto il primo
personaggio del secolo, che guidava non solo la Chiesa, ma la politica
italiana, e in parte quella anche dell'Europa. Dovette occuparsi
d'amministrare l'enorme patrimonio che, per le continue donazioni dei
fedeli, allora già aveva la Chiesa in Sicilia, in Sardegna, in tutta
Italia. Di esso non è possibile determinare con esattezza il valore,
che si fa da alcuni ascendere ad una estensione di 1800 miglia, con
una rendita di 7,500,000 lire. E di questo denaro, che gli dava una
gran forza, si valeva per aiutare non solo i conventi, il clero, la
Chiesa; ma in assai più larga misura anche gli ospedali ed i poveri.
Le sue lettere sono piene di savissime norme amministrative, di un
affetto, di una cura singolare per l'interesse dei contadini. E oltre
di ciò egli fa in esse una costante guerra ai Longobardi; anima le
popolazioni italiane alla resistenza, alla difesa delle mura cittadine,
invitando qualche volta il clero stesso a prendere le armi. Tutto
questo suo ardore operoso, fervido, giovanile si manifesta in mezzo
ad un mondo che sembra da ogni parte cadere in rovina, e nel quale
egli sta sempre fermo a lottare, per salvarlo colla fede inconcussa
in Dio e nella virtù, con una passione, un affetto inestinguibile pel
bene degli uomini. «I tempi sono tristissimi, egli scrive, i campi
desolati e deserti, le città vuote, il Senato è morto, il popolo più
non esiste, la spada pende sul capo di coloro che sono rimasti: noi
siamo in mezzo alla rovina del mondo.» Eppure non cede, non piega,
non si scoraggia mai. Con una energia indomabile, sostiene di fronte
all'Impero la dignità della Chiesa romana, combattendo il Patriarca di
Costantinopoli, il quale pretendeva d'assumere il titolo di patriarca
ecumenico, che spettava solo al Papa, capo della Chiesa universale. E,
come per contrasto, continuava sempre a portare il titolo già assunto
di Servo dei Servi, sostenendo la lotta, senza mai piegare fino a che
non ebbe ottenuto la vittoria.
Le sue lettere all'Imperatrice sono piene delle più nobili massime in
favore degli oppressi, contro la corruzione amministrativa, contro
gli eccessi degli agenti del fisco. «Piuttosto, egli le scriveva,
che gravar di tasse i miseri a segno tale che per pagarle alcuni son
costretti a vendere schiavi i propri figli, mandateci meno danaro per
le spese d'Italia, ed asciugate invece le lacrime degli oppressi.»
Indefessa, costante fu la sua opera per guadagnare al cattolicismo i
Longobardi. Per convertire il loro re Agilulfo si valse della moglie
di lui Teodolinda, che già era cattolica. Dell'arcivescovo Costanzo,
che raccomandò ai Milanesi, si valse per combattere l'arianesimo
nell'alta Italia. Molto fece per diffondere sempre più il cattolicismo
tra i Franchi e nella Spagna; ma soprattutto si adoperò per convertire
gli Anglo-Sassoni, presso i quali mandò una prima missione nel 596,
una seconda nel 601. Rafforzò l'unità della Chiesa, sottomettendo a
Roma i vescovi, sulla cui elezione vegliò severamente, per combattere
la simonia e la scelta di uomini poco degni, pericolo che allora
minacciava assai. A rafforzare la papale autorità in Italia e fuori
giovò molto anche il favore che egli dette al monachismo, sul quale il
Papato aveva cominciato e continuò sempre più ad esercitare un'azione
diretta, restringendo quella esercitata dai vescovi. Ma nello stesso
tempo rafforzò il divieto d'accogliere nei monasteri chi ancora non
aveva compiuti i diciotto anni, e chi aveva moglie, se questa non
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