Le invasioni barbariche in Italia - 27

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degli Alamanni fosse oltre ogni dire ostinata, gli uni e gli altri,
come popolazioni più omogenee, finirono coll'essere assimilati ai
Franchi. Lo stesso non potè mai seguire degl'Italiani, che resistettero
assai più debolmente e furono più facilmente domati. Durante i due
secoli vissuti insieme, Longobardi e Romani s'erano fusi in un popolo
solo, e quindi v'era una generale e persistente ripugnanza degli uni
e degli altri contro i Franchi, soprattutto poi nei Duchi ed in genere
nella classe governante. Nè meno profonde erano queste antipatie nelle
terre occupate ancora dai Bizantini, i quali, essendo irritatissimi per
ciò che era stato loro tolto dai Franchi, si sforzavano in ogni modo di
seminare nelle popolazioni odio contro di essi. Tutto ciò fu causa di
grandi disordini, cui se ne aggiunsero, come inevitabile conseguenza,
altri di natura diversa, ma non meno gravi.
Gli arcivescovi di Ravenna avevano, noi già lo vedemmo, dato origine a
molti dissensi e conflitti con Roma; e questi, nel disordine presente,
rinascevano più vivi che mai. L'arcivescovo Leone era riuscito nel
771 ad assumere l'alto ufficio, vincendo il suo rivale con l'aiuto di
Carlo ed il favore del Papa, al quale si dichiarò allora obbediente; ma
adesso, mutati i tempi, cominciò invece a fare opposizione. Gli pareva
che, cessato in Ravenna il dominio bizantino, l'Arcivescovo dovesse
nella sua sede assumere quella medesima autorità che il Papa assumeva
in Roma. Si faceva forte non solamente delle speciali condizioni in
cui s'era sempre trovato il seggio episcopale nell'Esarcato; ma anche
della Prammatica sanzione, che dava ai Vescovi facoltà di nominare i
giudici, i quali erano anche amministratori. — Non s'era a lui stesso
rivolto Adriano I, quando si trattava di far giudicare l'Afiarta; non
aveva egli fatto eseguire la sentenza di morte, senza neppur consultare
il Papa? Le facoltà concesse dall'Imperatore ai Vescovi non potevano
diminuire per la donazione fatta da Carlo a quello di Roma; nè potevano
esser distrutte dall'autorità che il titolo di Patrizio dava al Re.
I mutamenti avvenuti erano stati fatti in nome del popolo romano, il
quale non poteva certo essere tenuto superiore all'Imperatore. — Così
pare che ragionasse l'arcivescovo di Ravenna: certo si può affermare
che la sua condotta appariva guidata da queste idee. E però egli voleva
nell'Esarcato e nella Pentapoli assumere la stessa posizione (e per le
stesse ragioni), che il Papa assumeva nelle terre da cui l'Impero si
ritirava. Trovò, è vero, una viva resistenza nella Pentapoli, che si
dichiarò favorevole al Papa; ma nell'Esarcato gli riuscì d'insediare
i suoi ufficiali, facendo respingere quelli mandati da Roma.
L'Arcivescovo aveva avuto l'accortezza di mostrarsi avversissimo ai
Longobardi, favorevole ai Franchi; e però Carlo non poteva osteggiarlo.
Un tale stato di cose riusciva utile al Re, per tenere un po' a freno
l'ambizione sempre crescente del Papa.
Di tutto ciò Adriano I era naturalmente scontentissimo, e ne moveva
lamento a Carlo, incitandolo a tornare in Italia, per ristabilirvi
l'autorità della Chiesa, e mantenere le promesse fatte. E continuando
ne' suoi rammarichi, gli rendeva conto d'una congiura tramata
in Italia, d'accordo con Costantinopoli, contro i Franchi. Egli
esagerava non poco la parte che solo indirettamente potè avervi presa
l'arcivescovo di Ravenna, il quale s'era, come dicemmo, dichiarato
amico dei Franchi; e quella ancora che vi avevano presa i duchi di
Benevento e di Spoleto, che nuovamente s'erano alienati da lui. Il Papa
affermava, fra le altre cose, che una lettera, nella quale il patriarca
di Grado gli rendeva conto della congiura, eragli pervenuta coi
suggelli rotti dall'Arcivescovo, che l'aveva aperta per renderne conto
ai due Duchi coi quali cospirava. La verità è che una cospirazione si
tramava davvero da parecchi duchi longobardi contro i Franchi e contro
il Papa. Chi diceva che Rodogaudo duca del Friuli aspirava alla corona
di Desiderio, e chi diceva che i Longobardi volevano ripristinare
l'interregno che s'era avuto dopo la morte di Clefi. Si aggiungeva
che da Costantinopoli erano partite navi, comandate da Adelchi, per
secondare la trama. È possibile che l'arcivescovo Leone la favorisse,
perchè essa riusciva a danno del Papa, col quale si trovava in lotta;
ma non è credibile che egli avesse voluto cooperare alla cacciata
dei Franchi, dei quali era amico, ed alla ricostituzione del dominio
longobardo, al quale s'era manifestato avverso. Sembra però certo
che a Spoleto si era tenuta un'adunanza, nella quale fu deliberata la
congiura di cui il Papa, esagerandola, avvertiva re Carlo.
Questi, pigliando la cosa con molta calma, cercò prima di tutto di
separar dagli altri cospiratori i duchi di Spoleto e di Benevento,
promettendo di lasciar loro una maggiore indipendenza. Oltre di ciò,
la notizia arrivata in Italia nel febbraio del 776, che l'imperatore
Copronimo era morto, levava ai cospiratori il principale appoggio
su cui avevano fatto assegnamento. Intanto il Re, che si trovava
allora libero dalla guerra contro i Sassoni, si mosse con poche genti
verso l'Italia, dove pervenne colla rapidità del fulmine, ed attaccò
battaglia col solo Rodogaudo, che fu subito vinto, e pare anche ucciso.
Così Carlo fu padrone del Friuli, avendo ben presto superato anche la
poca resistenza fatta da Treviso, dove il 14 aprile 776 potè celebrare
la Pasqua. Se nella sua prima venuta in Italia egli s'era dimostrato
assai indulgente, adesso, invece, irritato dalla congiura, si dimostrò
severissimo. Molti furono, per la confisca dei loro beni, ridotti alla
miseria, e quando non vennero chiusi in carcere, andarono pel mondo
raminghi. Fu imprigionato tra gli altri anche il fratello dello storico
Paolo Diacono. E questi, dopo aver lodata la generosità dimostrata
dal Re nella sua prima venuta in Italia, dovette ora lamentare la
lunga e crudele prigionìa del proprio fratello, la cui moglie andò
limosinando coi figli, laceri e privi di tutto. Carlo cominciò adesso a
porre nelle città italiane, molto più che non aveva fatto prima, Conti
invece di Duchi. I primi erano meno potenti, più sottomessi a lui che
li nominava, e quindi più obbedienti. Ai confini del regno, per meglio
difenderli, egli soleva costituire le Marche, riunendo in una più
contee, che affidava a conti di Marche, i quali erano perciò non meno
potenti dei duchi: e così fece ora nel Friuli. Dopo di ciò, dovendo
da capo ripigliare la guerra contro i Sassoni, ripartì dall'Italia,
senza avere neppure visitato il Papa, verso il quale par che fosse
questa volta un po' freddo, dimostrando invece, almeno in apparenza,
qualche favore all'arcivescovo di Ravenna. Vinti dopo fiera resistenza
i Sassoni, Carlo dovette andare rapidamente verso la Spagna, e,
passati i Pirenei, mosse guerra agli Arabi, prese Pamplona, e s'avanzò
fino a Saragozza. Ma allora fu subito costretto a tornare indietro
per combattere di nuovo i Sassoni. La sua retroguardia venne per via
fieramente assalita dai Baschi, e addirittura distrutta nella celebre
rotta di Roncisvalle (778), nella quale morì il fiore dei paladini
franchi, e fra gli altri quell'Orlando, il cui valore è tanto celebrato
nei poemi cavallereschi. Ciò non ostante, Carlo continuò il suo
cammino, inflisse nel 779 una nuova disfatta ai Sassoni, e poi ripassò
per la terza volta le Alpi, venendo in Italia, dove lo stato delle cose
imperiosamente lo chiamava.
A Ravenna allora era morto l'arcivescovo Leone, ma non era cessata
del tutto l'opposizione al Papa, al quale avversissimi si mostravano
sempre più anche i duchi di Spoleto e di Benevento. Questi davano
animo a tutti i nemici, a tutte le terre che a lui si ribellavano,
come ora aveva fatto Terracina, che, seguendo l'esempio di Gaeta, s'era
dichiarata pei Bizantini. Di ciò il Papa amaramente si doleva col Re,
invocandone l'aiuto. Ed ora per la prima volta faceva ufficialmente
allusione alla donazione di Costantino a Silvestro. Nel determinare
però quali erano i dominii che pretendeva per la Chiesa, si manteneva
in limiti assai più modesti di quelli indicati nella donazione.
Infatti egli accennava solamente ai _patrimoni_ spettanti a S. Pietro
nella Toscana, nello Spoletino, nel Beneventano, nella Corsica e nel
territorio sabino, patrimoni che i Longobardi avevano usurpati, ma che
erano della Chiesa, in conseguenza di donazioni fatte da Imperatori,
da Esarchi e da altri per la salute delle loro anime, come poteva con
documenti provare. Sembrerebbe perciò che, ad eccezione del Ducato
romano, dell'Esarcato e della Pentapoli, si trattasse, per ora almeno,
solo di poderi, di terre, e di case sparse in diversi luoghi. Il Libro
pontificale avrebbe quindi, in modo più o meno indeterminato e vago,
esagerato, mutando il diritto di proprietà sopra alcuni terreni in
diritto di sovranità sulle province in cui essi si trovavano.
Il Papa si rivolgeva ora a Carlo, come a legittimo signore,
chiedendogli ciò che secondo lui apparteneva alla Chiesa, difendendosi
nello stesso tempo dalle calunnie che gli erano state fatte da' suoi
nemici circa la corruzione del clero, circa il commercio degli schiavi,
che dicevano da lui favorito, e che egli invece aveva condannato e
cercato d'impedire. Ma quello che è più notevole, come prova della
grandissima autorità che il Papa riconosceva sempre nel Re, gli
chiedeva ora il permesso di tagliare alberi nei boschi dello Spoletino,
per avere le travi necessarie a restaurare il tetto della chiesa di
S. Pietro. Ciò dimostra ad evidenza che Adriano era ben lungi dal
presumere di volerla far da padrone in quasi tutta l'Italia centrale e
meridionale, come vorrebbe far credere il Libro pontificale.
Verso la fine del 780 Carlo passava il Natale a Pavia con la moglie
Ildegarda, e i figli Carlomanno e Lodovico. Sebbene fosse questa
volta venuto in Italia senza un esercito, la sua dimora fu pure
importantissima, per le leggi o _capitolari_ che allora pubblicò,
cercando di dare assetto definitivo al governo del paese. Alcune
di queste leggi, già pubblicate in Francia, vennero ora sanzionate
in Italia; altre furono fatte specialmente per essa, e quasi tutte
a vantaggio della Chiesa. A questa egli assicurava la riscossione
delle decime, aumentava le rendite; cercava di regolare anche il
pagamento dei censi che le eran dovuti, di determinare la dipendenza
dai metropoliti, e di render sicura l'amministrazione della giustizia
per parte dei conti. Tutto ciò, com'è naturale, di pieno accordo e con
soddisfazione del Papa, col quale il 15 aprile 781 passava la Pasqua
in Roma, dove fece da lui ribattezzare il proprio figlio Carlomanno,
che prese allora il nome di Pipino. E perciò d'ora in poi Carlo nelle
lettere papali è chiamato sempre _compater noster_. Nello stesso
giorno Pipino venne dal Papa consacrato re d'Italia, e Lodovico re
d'Aquitania: atto questo di pura forma, giacchè l'uno di essi aveva
appena compiuto quattro anni, e l'altro due solamente.
Certo tutto ciò accresceva non poco l'autorità del capo della Chiesa,
il quale sembrava assumere ognor più la facoltà di fare e disfare
i regni. Ma il potere supremo, effettivo e reale, anche in Italia,
rimaneva nelle mani di Carlo, il quale solo firmava i pubblici
documenti del regno, che uscivano ora dalla cancelleria franca.


CAPITOLO VIII
Irene governa in Costantinopoli — Carlo sconfigge di nuovo i Sassoni —
Torna in Italia e sottomette il Friuli e Benevento — Combatte gli Avari
— Dispute religiose — Morte di Adriano I e suo carattere

Adesso tutto sembrava andare a seconda di re Carlo. In Costantinopoli
a Costantino Copronimo era successo Leone IV iconoclasta, ed a
questo succedeva nel 786 la vedova Irene, la quale venne incoronata
insieme col figlio Costantino VI di soli dieci anni. Ella, che era
favorevole al culto delle immagini, ed aveva, come donna, bisogno di
consolidare la sua posizione sul trono, fece subito adesione alla
Chiesa di Roma, e mandò a Carlo ambasciatori, chiedendo sposa per
suo figlio la primogenita del Re, Rotruda, la quale aveva soli otto
anni. Così pareva si potesse sperare non solo che a Costantinopoli
s'andasse d'accordo coi Franchi, ma che non si dovesse porre alcun
ostacolo al libero possedimento concesso alla Chiesa dell'Esarcato,
della Pentapoli e delle terre sulle quali essa poteva dimostrare di
avere legale diritto. Se non che appunto quando sembrava che si fosse
per venire ad accordi, Carlo dovette improvvisamente partire, per
ripigliare l'eterna guerra contro i Sassoni, di nuovo violentemente
insorti. Egli li vinse e punì severamente, avendone, si dice, in un sol
giorno condannati a morte 4500. Ma questo, invece di domarli, li fece
insorgere con maggior violenza. Nell'anno 783, in cui perdette prima
la moglie e poi la madre, dovè combatterli da capo, e dette finalmente
ad essi un'altra decisiva disfatta. Dal campo di battaglia, che lasciò
coperto di cadaveri, se ne tornò ricco di preda in Francia, ove diede
sepoltura alla madre ed alla moglie, sposandone ben presto un'altra,
Fastrada. Nella state del 785 egli dette ai Sassoni una nuova e grande
disfatta. Il loro celebre capo Viduchindo, che li aveva sempre guidati,
si sottomise e si convertì al cattolicismo, il che fu come il principio
della sottomissione e conversione di tutto il popolo. Ma per arrivare a
un tal resultato Carlo dovette successivamente spedire contro i Sassoni
undici eserciti, nove dei quali furono comandati da lui in persona.
Sebbene in questo mezzo le cose d'Italia fossero andate sempre
migliorando, e sempre a vantaggio dei Papi, favoriti da coloro che
governavano la Penisola in nome di Pipino, ma sotto l'autorità
effettiva di Carlo, pure Adriano I non era soddisfatto. Egli si
rallegrava dei trionfi del Re e della conversione dei Sassoni, ma
chiedeva con crescente insistenza le _giustizie_ di S. Pietro, senza
determinar mai con precisione quali e quante veramente fossero: pareva
che le andasse di continuo allargando. Ora insisteva più specialmente
sul territorio della Sabina, che era stato, egli diceva, sempre
promesso, non però mai reso. E di simili lamenti son piene le sue
lettere dal 781 al 783. — Il Re, così concludeva il Papa, aveva fatto
fare le sue indagini, per accertarsi dello stato vero delle cose;
s'erano per tutto interrogati gli anziani, e dopo essersi venuto in
chiaro d'ogni cosa, non s'era poi nulla concluso. — Le stesse domande
il Papa faceva alla imperatrice Irene, per quelle terre che erano state
tolte alla Chiesa dai Bizantini nella Calabria, in Sicilia e altrove. E
procedendo d'una cosa in un'altra, finiva col proporre anche un pieno
accordo della Chiesa d'Oriente con quella d'Occidente, «affinchè non
continuasse ad esservi ancora un'infausta scissura, quando si parlava
sempre di concordia e di amicizia.»
Certo le cose in Italia non erano quiete. Il Papa si doleva sempre di
non aver le sue terre; Arichi duca di Benevento, ritenendosi affatto
indipendente, minacciava di continuo i vicini per la voglia che aveva
d'ingrandire il proprio Stato. Carlo tornava perciò da capo in Italia,
e dopo aver passato a Firenze il Natale del 786, continuava il suo
cammino verso Roma, avanzandosi alla volta di Benevento. Arichi s'era
armato con la intenzione di difendersi in Salerno, dove poteva dal mare
ricever soccorso; ben presto però venne ad un accordo col Re. Il Duca
si sottomise a lui nel modo stesso in cui i suoi antecessori erano
stati sottomessi al re dei Longobardi; pagò un'indennità, e diede in
ostaggio il proprio figlio Grimoaldo. Ma ora si turbarono le relazioni
con Costantinopoli. Nel 787 andò a monte il matrimonio della figlia
di Carlo con Costantino figlio d'Irene, il quale nell'anno seguente
sposò una moglie armena. Carlo tuttavia non poteva adesso pensare a
ciò, perchè, celebrata la Pasqua del 787 a Roma, dovette tornare in
Germania a combattere il duca di Baviera, che in quell'anno finalmente
si sottomise del tutto.
Verso la fine del 787 s'udì ad un tratto che nell'antica Calabria
era sbarcato Adelchi. Il Papa affermava che questi veniva in aiuto
del duca Arichi, con intenzione di metterlo alla dipendenza di
Costantinopoli, per poi fare insieme con esso uno sbarco a Ravenna. Ma
quali che fossero siffatti disegni, ben presto il duca Arichi e suo
figlio Romualdo morivano, lasciando al governo la vedova Adalberga,
accorta e risoluta, che parteggiava manifestamente pei Franchi. Ella
chiese a re Carlo che liberasse l'altro suo figlio Grimoaldo, tenuto
sempre in ostaggio. Questi fu rimandato, e subito prese possesso del
Ducato, senza punto occuparsi del Papa, nè delle richieste che esso
continuamente faceva di terre, di diritti, di giustizie di S. Pietro.
Il Duca s'apparecchiava intanto alla guerra contro i Bizantini,
d'accordo con Carlo, occupato sempre in Germania ove ben presto dovette
combattere gli Avari. Questi erano gli avanzi che, scampati alla rovina
del loro impero ai tempi di Eraclio, s'erano rifugiati nella Pannonia,
e per un momento ancora ricompariscono sulla scena, avanzandosi un
momento sino al Friuli.
Nel 788 soldati bizantini sbarcavano nell'Italia meridionale in aiuto
di Adelchi; e contro di essi marciavano insieme con alcuni Franchi
mandati da Carlo, Grimoaldo coi suoi Beneventani e Ildebrando cogli
Spoletini. I Bizantini furono ricacciati in Sicilia; Adelchi si ritirò,
senza che se ne sentisse più parlare. E per tutti questi fatti la
potenza e l'autorità di Carlo ne crebbero a dismisura in Italia. Egli
dimostrava però sempre una grandissima deferenza verso il Papa, così
nelle grandi come anche nelle piccole cose. Gli chiedeva perfino,
quasi ad autorità superiore nell'Esarcato, il permesso di esportare da
Ravenna alcuni marmi e mosaici, per servirsene nelle costruzioni che
voleva fare in Aquisgrana ed altrove.
La sua operosità pareva che non dovesse aver mai posa: ogni giorno
sorgevano nuovi pericoli, ai quali egli prontamente riparava. Nel 791
era occupato nella guerra contro gli Avari in Germania e nel Friuli.
Nel 792 dovè reprimere una congiura del suo figlio naturale Pipino,
detto il gobbo, il quale si ribellò perchè era assai scontento d'essere
stato escluso dalla successione al trono a vantaggio, come sembrava
credere, del fratello legittimo, a cui s'era, già lo vedemmo, dato
recentemente lo stesso suo nome. Ma ben presto fu vinto e chiuso in
un convento. Anche Spoleto e Benevento davano assai da fare colle loro
continue minacce di ribellione.
A questo tempo appunto, quando cioè gli Avari minacciavano il Friuli,
dovrebbe riferirsi il fatto cui accenna una carta, che ha la data
dell'824. Volendosi restaurare le mura di Verona per metterla in istato
di difesa, sarebbe sorta una grave disputa tra la città ed il Vescovo,
a cui essa voleva imporre un terzo della spesa, quando egli credeva di
esser tenuto a pagarne solo un quarto. Si venne perciò ad una specie
di giudizio di Dio, il quale riuscì a favore del Vescovo. Da una tal
narrazione s'è voluto dedurre, che fin d'allora esistesse un principio
d'autonomia in qualcuna delle città longobarde. Ma non si è punto
sicuri che la carta sia autentica, ed assai probabilmente essa accenna
a fatti di tempi posteriori.
Nel por mano alla sua opera legislativa e di organizzazione dello
Stato, Carlo si occupò continuamente della organizzazione della Chiesa
ed anche delle questioni religiose. Nel 794 radunava un Sinodo a
Francoforte, pigliando parte vivissima alle dispute teologiche. In
una di esse combattè la così detta dottrina dell'_Adozianismo_, che
era venuta di Spagna, ed ammetteva la doppia natura di Gesù Cristo,
dichiarando che, come Verbo, era sostanzialmente figlio di Dio, come
uomo era figlio solo per grazia e libera volontà del Padre. L'altra
disputa religiosa, non meno vivace, fu d'indole diversa. Il settimo
Concilio generale tenuto a Nicea (787), nel sanzionare il culto
delle immagini, aveva ammesso che alle immagini dei Santi si dovesse
come alla Croce rivolgere la preghiera, accendere i lumi, bruciare
l'incenso. Tutto ciò poteva non sembrare eccessivo in Oriente, dove
s'accendevano i lumi e si bruciava l'incenso anche dinanzi all'immagine
dell'Imperatore; ma così non era in Occidente. E la cosa divenne
anche più grave, quando nel tradurre, per ordine di papa Adriano,
le conclusioni del Concilio, alla parola _onorare_ i Santi, quale
era nell'originale, si sostituì l'altra ben diversa, _adorare_. E
quindi il Re con ragione, dopo essersi opposto all'Adozianismo, si
oppose anche alla pretesa che ai Santi si prestasse lo stesso culto
in forma di _latria_, dovuto alla Trinità. Se non che questo era un
combattere mulini a vento, essendosi a Nicea parlato di _onorare_, non
di _adorare_. Il Papa perciò, senza consentire alla condanna (e non
avrebbe potuto) delle recenti conclusioni di Nicea, non le approvò
neppure. E ciò egli fece, non solamente per la forma insolita che
avevano, ma anche perchè voleva far conoscere il suo malcontento a
Costantinopoli, dove non mostravano nessuna voglia di restituire le
terre che egli diceva usurpate alla Chiesa nell'Italia meridionale. In
sostanza si dimostrò contento delle deliberazioni prese a Francoforte.
Il 10 agosto dello stesso anno 794, re Carlo perdeva la moglie
Fastrada, e subito dopo dovette ripigliare ancora una volta la guerra
sassone, che fu continuata energicamente nel 795.
Il giorno di Natale del medesimo anno moriva Adriano I, sotto il
cui papato erano, come abbiam visto, seguiti avvenimenti di grande
importanza, sebbene non sempre per sua personale iniziativa. È ben
vero che egli chiamò in Italia re Carlo, il quale distrusse il regno
longobardo ed iniziò il potere temporale dei Papi; ma pareva che
ciò fosse avvenuto più per forza inevitabile delle cose, che per
opera personale di lui. Nelle lettere a Carlo egli ricordava sempre
Costantino, «che aveva fatto la gran donazione, perchè non era giusto
che l'Imperatore terreno esercitasse la propria potestà là dove
l'Imperatore celeste aveva costituito il suo principato sacerdotale.»
E teneva tanto alla propria autorità, che si dolse col Re, quando
questi accolse alcuni abitanti della Pentapoli, i quali erano andati
a lui senza averne ricevuto il permesso dal Papa. «Come i Franchi,
egli scriveva, non vengono a Roma senza licenza del Re, così costoro
non avrebbero dovuto andare in Francia senza licenza del Papa. E come
questi rispetta il Patriziato del Re, così il Re dovrebbe rispettare
quello di S. Pietro.» Nè voleva ammettere che Carlo s'ingerisse negli
affari di Ravenna, perchè l'Esarcato e la Pentapoli appartenevano ormai
a S. Pietro. Ma queste erano tutte più o meno teorie; padrone di fatto
era il Re. Adriano potè evitare molti pericoli, riconoscendo il vero
stato delle cose, e sottomettendosi con prudenza alla necessità, non
ostante le sue proteste e le continue riserve per mantenere intatti
i diritti della Chiesa. Il suo successore, che fu d'un carattere più
intransigente, e rispettava un po' meno le apparenze, ebbe ben presto,
come vedremo, a soffrirne gravi conseguenze.


CAPITOLO IX
Elezione di Leone III — Ambasceria franca a Roma — Irene imperatrice —
Gravi tumulti in Roma — Il Papa a Padeborn — Suo ritorno a Roma — Carlo
viene a Roma, dove è coronato imperatore dal Papa, il giorno di Natale
800

Il giorno dopo la morte di Adriano I veniva eletto Leone III,
consacrato il 27 dicembre 795. Il suo predecessore, che nel 772 datava
ancora le Bolle pontificie secondo gli anni in cui l'Imperatore aveva
governato, cominciò, dopo che Carlo fu padrone d'Italia, a datarle
secondo gli anni del proprio pontificato, riconoscendo però sempre la
superiore autorità dell'Imperatore. Leone III invece le datò subito
secondo gli anni del regno di Carlo «re dei Franchi e dei Longobardi,
Patrizio dei Romani, dopo la sua conquista d'Italia.» Così fu rotto il
legame della Chiesa con Costantinopoli, da cui il nuovo Papa veniva di
fatto a dichiararsi indipendente. Il suo primo atto fu di annunziare
a Carlo la morte del predecessore e la propria elezione, inviandogli
le chiavi d'oro di S. Pietro e la bandiera della città di Roma, come a
Patrizio, di cui egli senza esitare riconosceva la superiore autorità.
Lo invitava nel medesimo tempo a mandar suoi messi in Roma, per
ricevere il giuramento di fedeltà dal popolo.
Il concetto che Leone III s'era formato del nuovo stato di cose lo
fece chiaramente vedere anche nel celebre mosaico da lui ordinato,
per metterlo nel triclinio del Laterano. Esso è ora scomparso, ma una
riproduzione, fatta nel 1743 da una copia in disegno, se ne vede oggi
nella Piazza di Porta S. Giovanni in Laterano, vicino alla basilica,
sul muro esterno dell'edifizio della Scala Santa. Di là le figure di
quel mosaico sembrano contemplare, attraverso la Campagna, gli uliveti
di Tivoli, e più lungi ancora gli Appennini umbri e sabini, il cui
diafano colore di tanto in tanto, durante l'inverno, sparisce sotto
la cortina di neve che li ricopre. Esso è diviso in tre compartimenti.
In quello di mezzo, che è il più ampio, si vede la figura maestosa di
Cristo circondato dagli Apostoli, che manda pel mondo a predicare il
Vangelo. Una mano è distesa a benedire, l'altra tiene un libro su cui
è scritto: _Pax vobis_. Nel compartimento a destra si vede di nuovo
Cristo che siede tra papa Silvestro e l'imperatore Costantino, i quali,
in assai più piccole proporzioni, sono inginocchiati ai due lati.
Nel compartimento a sinistra la grande figura di S. Pietro sta con le
chiavi sulle ginocchia, e ai due lati sono inginocchiati Leone III e
re Carlo, anch'essi in piccole proporzioni. San Pietro dà al Papa una
stola, ed al Re la bandiera di Roma. Sotto si legge: _Beate Petre donas
vitam Leoni PP. et bictoriam Carulo Regi donas_.
All'ambasceria mandata da Roma, Carlo rispondeva con un'altra, di cui
parte principale era l'abate Angilberto, noto per la sua dottrina
ed il suo amore alla poesia, che gli fecero dare il soprannome di
Omero. Le istruzioni avute erano assai semplici. Doveva ricordare al
Papa la necessità di «serbare la santità della vita, e di provvedere
alla osservanza dei sacri canoni.» Ed il Re scriveva poi direttamente
ad Adriano: «Angilberto viene a discorrere con Voi di tutto ciò che
crederete necessario alla esaltazione di Santa Chiesa e di Dio, alla
stabilità del vostro onore e del nostro Patriziato. Noi vogliamo con
Voi, come già col vostro predecessore, stringere patti d'alleanza,
ed avere la vostra benedizione. Spetta a noi, mercè l'aiuto di
Dio, difendere di fuori con le armi la Chiesa contro i pagani e
gl'infedeli, proteggerla dentro con la conservazione della cattolica
fede. Spetta a voi, o Santo Padre, assistere le nostre milizie, con
le mani levate al cielo, come Mosè, affinchè il popolo cristiano
possa conseguire vittoria contro i nemici di Cristo.» Carlo prendeva
adunque l'attitudine non solamente di protettore del Papa, ma anche di
sostenitore della vera fede. L'ammonizione sulla necessità di serbare
il buon costume, dimostrava che era giunta in Francia notizia delle
molte e gravi accuse che in Roma si movevano al Papa dai suoi nemici e
calunniatori.
Tutto intanto continuava ad andare a favore del Re, ed insieme con
la fortuna cresceva l'animo suo e dei suoi seguaci. Il suo dotto
consigliere Alcuino gli ricordava continuamente, che era stato
chiamato da Dio ad essere non solo il più potente sovrano del mondo,
ma anche il sostenitore della vera fede. Adesso non c'era più da
temer nulla dall'Impero d'Oriente, divenuto tale che nessuno osava
parlarne senza arrossire. Di là non poteva minacciare nessun pericolo,
nessuna opposizione alla soverchiante potenza di Carlo. Irene aveva
cominciato a governare col figlio Costantino VI, tenendolo sottoposto
sino ad umiliarlo non solo, ma anche a batterlo. Egli se ne emancipò
finalmente, escludendola dal governo, e confinandola. Ma era così
debole, così dissoluto, capriccioso e violento, che nel 797 una
rivoluzione rimise sul trono la madre, la quale potè non solamente
deporlo, ma anche adoperare contro di lui ogni violenza, facendogli
da ultimo cavare gli occhi: non riuscì però a farlo morire come aveva
sperato. Non solo adunque sul trono di Costantinopoli si trovava una
donna, il che non era mai sino allora seguito, e pareva perciò enorme;
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