Le invasioni barbariche in Italia - 28

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ma questa donna, colla sua condotta verso il figlio, aveva dimostrato
di essere un mostro.
Nè andavano gran fatto meglio le cose a Roma, dove la debolezza
dell'Impero e la lontananza di Carlo avevano di nuovo fatto scatenare
selvagge passioni. I _judices de clero_, e i _judices de militia_,
che già da qualche tempo comandavano nella Città, si sollevarono.
I primi, come già vedemmo, eran ricchi prelati, amici o parenti dei
Papi. Di mezzo ad essi si sceglievano i sette ministri che reggevano
la Curia, ed amministravano gl'interessi della Chiesa; ed alla loro
testa si trovava il _Primicerius_, che nelle pubbliche cerimonie veniva
subito dopo il Papa. Quest'ufficio, sotto Adriano I, la cui famiglia,
già nobile e potente, divenne allora potentissima, era stato tenuto
da suo zio Teodato, che ebbe anche il titolo di _Consul et Dux_. Gran
potere avevano avuto pure i due nipoti del Papa, Teodoro e Pasquale,
il secondo dei quali fu, dopo Teodato, nominato Primicerio, ed alla
morte di Adriano ritenne l'ufficio, giacchè secondo l'usanza esso non
mutava col mutare dei Papi. S'era quindi assuefatto a farla da padrone,
e veniva perciò avversato da Leone III, di cui era naturalmente nemico.
Egli ed il sacellario Campulo (forse altro nipote del Papa defunto) si
posero alla testa dei _judices de clero_, e dei _judices de militia_,
i quali ultimi, formando l'aristocrazia laica, comandavano l'esercito;
e tutti insieme volevano ora impadronirsi affatto del governo della
Città.
Il 25 di aprile 797, giorno di S. Marco, destinato alla processione
delle solenni litanie, Leone III, accompagnato da Pasquale e da
Campulo, s'avanzava a cavallo, seguito dal clero, per la via che da
S. Giovanni in Laterano conduce a S. Lorenzo in Lucina. Appena che
furono giunti a S. Silvestro in Capite, sbucarono colle armi sguainate
i congiurati, che assalirono il Papa, gettandolo giù da cavallo e
ferendolo. Cercarono poi, secondo la barbara usanza bizantina, di
accecarlo e di strappargli la lingua, lasciandolo a terra semivivo.
Pasquale e Campulo, che eran d'accordo coi congiurati, s'unirono
con essi, e chiusero il Papa nel vicino convento; poi, per maggiore
sicurezza, lo condussero a Sant'Erasmo sul Celio. La leggenda vuole che
colà egli miracolosamente riacquistasse gli occhi e la lingua, che la
storia invece crede non avesse mai perduti. I congiurati non osarono
procedere alla elezione d'un nuovo Papa, tanto più che essi non avevano
cospirato contro il capo della Chiesa, ma contro il signore della
Città. Essendo Leone III guarito ben presto delle sue ferite, fu da
alcuni dei suoi famigliari, tra cui il ciambellano Albino, calato con
funi dalle mura del convento, e menato in S. Pietro. Colà venne il duca
di Spoleto, Guinigildo, coi suoi armati, in compagnia d'un messo di re
Carlo, e lo condussero a Spoleto. Un'ambasceria fu subito mandata in
Francia, per render conto al Re dell'accaduto, aggiungendo che il Papa
voleva parlargli. Carlo rispose che sarebbe subito venuto in persona,
se non fosse stato trattenuto da una nuova spedizione contro i Sassoni.
Lo aspettava perciò a Padeborn, ed avrebbe inviato ad incontrarlo
l'arcivescovo Ildibaldo di Colonia, il conte Ascario ed il proprio
figlio Pipino re d'Italia, che lo avrebbero, per maggior sicurezza
ed onore, accompagnato fino a lui. Il viaggio del Papa, in compagnia
di molti prelati, fu trionfale. Incontrò prima l'Arcivescovo, poi
Pipino, che con una parte dell'esercito lo accompagnò a Padeborn, dove
Carlo lo accolse solennemente, alla testa delle sue schiere, le quali
ricevettero in ginocchio la benedizione papale. Il Re lo intrattenne
poi con grandi feste, e gli fece anche larghi donativi.
Da Roma, dove la rivoluzione imperversava, continuavano intanto ad
arrivare gravissime accuse contro il Papa, e si pregava il Re che
volesse sottoporlo ad un giudizio, perchè si trattava di colpe tali
da doverlo deporre, se non riusciva a dimostrarsene innocente. La
cosa appariva infatti tale che Carlo, sebbene trattenuto dalle cure
della guerra, par che si decidesse a consultare l'opinione del suo
fido Alcuino circa l'opportunità di continuare in persona la guerra,
o recarsi invece subito a Roma, per provvedere allo stato ivi sempre
incerto e tumultuoso delle cose. Ed Alcuino allora scrisse al Re una
lettera assai notevole, in cui gli diceva: «Fino ad ora vi sono state
nel mondo tre potestà: il Vicario di San Pietro, sacrilegamente oggi
ingiuriato e maltrattato; l'Imperatore, laico, dominatore della nuova
Roma, il quale, in modo non meno barbaro, venne balzato dal trono, su
cui fu messa una donna; e finalmente la regia dignità da Gesù Cristo
a Voi affidata, per reggere il popolo cristiano. Essa ora sovrasta a
tutti in sapienza e potenza; in Voi perciò è riposta la salute della
Cristianità. Bisogna che prima pensiate a portare rimedio al capo
(_cioè Roma_), per pensare dopo a guarire i piedi (_cioè i Sassoni e
gli altri nemici_), i cui mali son sempre meno pericolosi.»
Il Re, che si vedeva adesso invocato quale suprema autorità dal Papa e
dai Romani, era compreso della gravità delle cose, e desiderava recarsi
senz'altro indugio in Italia. Pure, non essendogli ancora possibile
muoversi, lasciò ripartire Leone III, accompagnato dagli arcivescovi
di Colonia e di Salisburgo, da cinque vescovi, da tre conti, i quali
andarono col Papa, non solamente in segno d'onore, ma anche per
iniziare il processo sui fatti seguiti in Roma, e sulle accuse che gli
erano mosse. Per la sua qualità di capo della Chiesa, per la reazione
già cominciata in suo favore, e per la protezione che aveva dal Re,
il Papa fu accolto trionfalmente per tutto. Il 29 novembre 799 era a
Pontemolle, dove gli vennero incontro il clero, le suore, il Senato,
cioè i nobili, l'esercito romano, il popolo, le _scholae_ degli
stranieri, cantando salmi, e portando le bandiere in mano. Leone III
andò in S. Pietro ove dette la benedizione, ed amministrò la comunione.
Il giorno seguente si recò in Laterano, e colà, dopo pochi altri
giorni, i commissari regi iniziarono il processo nel nuovo triclinio,
dove era il gran mosaico da noi ricordato più sopra. Pasquale e Campulo
si presentarono tranquilli coi loro compagni; ma non avendo potuto
provare le accuse, ed essendo invece manifeste le sanguinose violenze
da essi usate contro il Papa, furono arrestati e inviati in Francia,
per essere sottoposti al giudizio supremo e definitivo di Carlo, il
quale rimandò la decisione al suo ritorno in Italia.
Nè il Re si poteva muovere ancora, a cagione delle guerre contro
i Sassoni, contro i Bretoni, e contro i Musulmani nella Spagna.
S'aggiunse che il 4 giugno dell'800 moriva la terza ed ultima sua
moglie legittima, Liutgarda. Finalmente nell'autunno di quell'anno
intraprese il suo quarto e più memorabile viaggio in Italia. Veniva
alla testa d'un esercito, in compagnia di suo figlio Pipino, che
da Ancona egli spedì contro il duca di Benevento, che nuovamente
minacciava di ribellarsi. Il 23 novembre era a Mentana, a 14 miglia
da Roma, e colà gli venne incontro Leone III col clero, l'esercito ed
il popolo romano. Si trattennero insieme e desinarono; dopo il Papa
ritornò a Roma. Il giorno seguente Carlo fece il suo solenne ingresso
in S. Pietro, dove Leone III lo aspettava col clero.
Il 1º di dicembre il Re, circondato dai suoi vescovi, abbati e baroni,
sedeva come supremo giudice in S. Pietro, dove aveva convocato una
grande assemblea, alla quale assistevano le due aristocrazie ed il
clero di Roma. Carlo vestiva la toga e la clamide di Patrizio dei
Romani, ed accanto a lui sedeva il Papa, i cui accusatori, ricondotti
di Francia a Roma, erano ivi presenti. Il Re espose allora d'esser
venuto, come Patrizio e difensore della Chiesa, per restituire in essa
l'ordine turbato dalle ingiurie e dalle accuse mosse al capo della
Cristianità. La suprema autorità di Carlo era da tutti riconosciuta; ma
ciò non ostante riusciva assai difficile arrivare ad una conclusione
in questo giudizio. Provare davvero le accuse mosse contro il Papa
non era possibile, ma non era facile neppure dimostrarle false. I
vescovi inoltre dichiararono unanimi che ad essi non era in nessun
modo lecito giudicare il capo supremo della Chiesa, che doveva invece
essere il loro giudice. I particolari del processo ci sono ignoti, e
non conosciamo neppure la precisa natura delle accuse. Certo è che il
23 dicembre, alla presenza del Re, dei vescovi, del clero, dei Franchi,
dei nobili e del popolo romano, solennemente radunati in S. Pietro, il
Papa, salito sull'ambone, posando la mano sugli Evangeli, con chiara e
sonora voce, dichiarava che, seguendo l'esempio dei predecessori (fra
i quali si poteva infatti citare Pelagio, accusato d'aver contribuito
alla morte di papa Vigilio), di sua spontanea volontà, senza che
nessuno potesse giudicarlo, giurava d'essere affatto innocente di
tutte quante le colpe di cui lo avevano accusato. Il clero cantò allora
solenni litanie, in ringraziamento a Dio ed alla Vergine. Certo Leone
III s'indusse a quest'atto, perchè era parso necessario al Re, senza
il cui aiuto egli non avrebbe potuto governare. La sua autorità di
fronte alla Chiesa ed al popolo fu però salva. Pasquale, Campulo ed
i loro compagni vennero condannati alla pena di morte, commutata poi
nell'esilio perpetuo in Francia, per intercessione, a quanto si disse,
del Papa stesso. Quel giorno arrivarono a Roma due rappresentanti del
Patriarca di Gerusalemme, che consegnarono a Carlo le chiavi della
città e del S. Sepolcro. Il giorno di Natale egli assisteva alla messa
solenne, celebrata in S. Pietro dal Papa, finita la quale andarono
insieme a pregare nel sepolcro del Santo. Quando Carlo si levò in
piedi, Leone III improvvisamente gli pose sul capo la corona imperiale,
e si narra che subito dopo, inginocchiatosi, lo adorasse. Il popolo
romano freneticamente allora acclamò: _Carolo, piissimo, augusto, a
Deo coronato, magno, pacifico Imperatori vita et victoria_. Questa
coronazione iniziava un'epoca nuova nella storia del mondo.
L'annalista Eginardo afferma che essa fu un atto improvviso ed
inaspettato del Papa, compiuto ad insaputa di Carlo, il quale avrebbe
anzi dichiarato che, se avesse potuto prevederlo, si sarebbe, non
ostante la solennità di quel giorno, astenuto dall'andare in S. Pietro.
Molto si è disputato sulla verità di una tale affermazione. Alcuni
la credettero pura invenzione del cronista, altri invece una finzione
del Re, il quale avrebbe fatto come Tiberio, che pretendeva di ricusar
l'Impero da lui pur tanto ambito. Sin dal tempo in cui il Papa era a
Padeborn sarebbe, secondo essi, stato fissato tutto, per la imperiale
coronazione, la quale in nessun modo avrebbe potuto essere un atto
improvviso ed inaspettato. Bisognava almeno aver prima ordinato,
preparato la corona, concertato la solennità della funzione, la quale
infatti non riuscì punto inaspettata ai presenti, che subito intesero
ed applaudirono unanimi e clamorosamente.
Nella storia non mancano esempi simili, i quali provano che, per
spiegare le parole del Re, non c'è bisogno di ricorrere alla finzione
ed alla malafede. Il Persigny racconta, nelle sue _Memorie_, come fu
lui che affrettò quasi violentemente la proclamazione dell'Impero,
contro la volontà di Napoleone III, il quale pur tanto e da così
lungo tempo lo ambiva e lo preparava. Gli sembrava però che non fosse
ancora giunto il momento opportuno, che il Persigny credeva invece
arrivato, e non voleva lasciarlo passare. È probabile quindi che Carlo,
il quale certo ambiva l'Impero, avesse desiderato di apparecchiarne
meglio la proclamazione e determinare prima la forma della solennità;
e che il Papa invece, appunto per non esser costretto ad accettare
qualche formola o condizione a lui poco gradita, avesse affrettato la
decisione, presentando il fatto compiuto. A lui importava sommamente,
che la coronazione e la proclamazione dell'Impero apparissero
come opera del capo visibile della Chiesa, quale strumento di Dio,
coll'acclamazione del popolo romano, che rappresentava l'universo
popolo cristiano. Leone III voleva essere l'iniziatore, il creatore
del nuovo Impero, perchè tutto riuscisse a vantaggio della religione, a
sempre maggiore incremento dell'autorità della Chiesa.
Su questo grande avvenimento, come è naturale, molto si discusse
e molte teorie si esposero. Carlo, secondo alcuni, fu proclamato
imperatore dal Senato e dal popolo romano; secondo altri invece lo
elesse e consacrò il Papa; secondo altri ancora l'Impero fu conseguenza
della conquista. Causa prima fu però sempre riconosciuta la volontà
di Dio, di cui gli uomini sono strumento passivo. Il fatto vero è che
l'Impero non fu conseguenza di nessuna teoria, ma resultato inevitabile
di una storica necessità. La Chiesa aveva bisogno d'essere difesa e
protetta; il Papa perciò aveva chiamato i Franchi, e con le sue mani,
di propria iniziativa, in nome del Signore, incoronò Carlo. Ma, dopo
averlo incoronato, si era inginocchiato dinanzi a lui. Chi dunque era
superiore l'Imperatore o il Papa? Questo è ciò che solo l'avvenire
potrà decidere. Per ora è il Papa che ha creato l'Impero, della cui
protezione ha bisogno. La Chiesa, separatasi da Costantinopoli, è
dentro il nuovo Impero, alla testa del quale si trova Carlo, a cui
la posterità dette il titolo di Magno. Di fatto sin d'ora egli solo
veramente comanda, perchè solo ha la forza.
Ma l'Impero era di sua natura universale, e quindi non poteva
essere che uno solo, quello cioè d'Oriente, la cui sede si trovava a
Costantinopoli. L'Impero che in passato venne chiamato d'Occidente, non
era stato che un episodio passeggiero ed effimero già da lungo tempo
scomparso. Erano infatti decorsi tre secoli, dacchè gli ambasciatori
d'Odoacre e di Augustolo avevano deposto le insegne imperiali nelle
mani di Zenone, dicendogli che l'Occidente non aveva bisogno di un
proprio imperatore, bastando a tutti quello di Costantinopoli, di cui
l'Italia, sede primitiva, era sempre parte integrante. Il nuovo Impero
franco, adunque, pur essendo conseguenza d'una storica necessità,
non aveva nessun fondamento giuridico. E forse anche perciò Carlo
aveva desiderato di proceder cauto circa il tempo ed il modo della
proclamazione. Tuttavia il momento che Leone III aveva scelto era
stato assai opportuno. Il re franco aveva allora vinto tutti i suoi
nemici, aveva fortemente costituito ed esteso il proprio regno; il
Papa, riconosciuto innocente, era tornato sulla cattedra di S. Pietro
più autorevole che mai. Il giorno della incoronazione era stato quello
a tutti sacro della nascita di nostro Signore, della redenzione cioè
del genere umano. Sul trono di Costantinopoli, come abbiam visto, si
trovava una donna, e questa donna era un mostro, che non poteva far
paura a nessuno. Ciò non ostante, il grande avvenimento ora compiuto
era pieno di equivoci e di pericoli, dei quali si dovevano sentire le
gravi conseguenze. Per ora l'autorità morale del Papa ne era cresciuta
a dismisura.
Dopo una dimora di cinque mesi, nell'aprile 801, celebrata la Pasqua, e
lasciato a Pipino l'incarico di continuare la guerra contro Benevento,
Carlo se ne tornò a Pavia dove pubblicò alcune altre leggi, che
aggiunse a quelle dei Longobardi, ed assunse il titolo di «Serenissimo
Augusto, coronato per divino volere, reggente l'Impero dei Romani,
e per grazia di Dio re dei Franchi e dei Longobardi.» All'Italia
superiore egli lasciò una propria autonomia, senza annetterla alla
Francia, considerandola piuttosto come una sua conquista personale.
Invece dei Duchi pose dei Conti, che scelse fra i Longobardi, e che
erano, come già dicemmo, meno potenti e più sottomessi, con territori
meno estesi. L'unità e la forza del governo, la fusione dei vinti e
dei vincitori fecero allora un grande progresso. I Gastaldi, non più
necessari, si mutarono in semplici amministratori, e dipesero dai
Conti, che rendevano giustizia, non più di propria autorità come i
Duchi, ma per delegazione del sovrano. L'eribanno, o la convocazione
dell'esercito, appartenne al solo Imperatore che andò ognor più
limitando il potere dei Duchi, per mezzo dei _Missi dominici_, i
quali presso i Franchi divennero una istituzione regia di primaria
importanza, e per mezzo di essi l'Imperatore vegliava su tutta
l'amministrazione. Nei giudizi egli giudicava come vero sovrano, anche
secondo equità, quando mancava una speciale disposizione di legge.
Questa facoltà che in parte era concessa ai duchi longobardi, non
l'avevano i conti franchi.
Carlo si occupò anche dell'ordinamento giudiziario, che presso i
barbari serbò lungamente le tracce della sua origine. Dapprima ognuno
si faceva giustizia da sè; poi la giustizia venne amministrata dal
popolo; più tardi ancora dal sovrano, che rappresentava lo Stato.
Nel Medio Evo prevalse un sistema misto. Il popolo partecipava
all'amministrazione della giustizia insieme col Re, che giudicava
solennemente, circondato dai Grandi della Corte, e dai suoi giudici
palatini, dinanzi alle assemblee popolari, chiamate _placita_, che per
delegazione potevano essere presiedute dai Conti. Accanto al sovrano
o al suo delegato v'erano magistrati che dirigevano queste assemblee,
e conoscevano bene le consuetudini. A poco a poco il popolo cominciò
a non intervenire regolarmente ai _placita_; e le leggi scritte che
vennero aggiunte alle consuetudini, o furono sostituite ad esse,
erano meno facilmente conosciute. Divenne allora necessario nominare
magistrati temporanei periti nelle leggi e capaci di formulare le
sentenze. Questi magistrati furono da Carlo resi permanenti, e vennero
chiamati _Scabini_. Erano eletti nei _placita_ in presenza del Conte; e
i _Missi dominici_ ne approvavano la nomina quando li trovavano idonei.
La forma generale della società e del governo franco differiva molto
dalla longobarda, specialmente nel suo maggiore accentramento, nella
maggiore autorità politica, militare e giudiziaria del sovrano. Pei
Franchi non c'era differenza tra il patrimonio dello Stato e quello
del Re. _Curtis regia_, _Palatium publicum_, _Res publica_ erano una
sola e medesima cosa: il sovrano poteva concederli in beneficio o
anche donarli. Le terre demaniali, e quelle confiscate che per mancanza
d'eredi venivano al demanio, facevano parte anch'esse del patrimonio
regio. Il Re dava l'amministrazione di tutto ciò a suoi ufficiali, che
non erano indipendenti come i Gastaldi longobardi; ovunque e sempre la
sua forte individualità aumentava la sua morale e materiale potenza.
La continua e febbrile attività di Carlo si manifestava in mille
modi diversi. Forte, alto, bello della persona, facondo e valoroso,
con occhi vivacissimi, sempre instancabile, egli era non solo un
capitano ed un uomo di Stato di primissimo ordine, ma anche un gran
promotore di opere pubbliche, come furono generalmente tutti i grandi
sovrani. Nel 793 lo vediamo occupato ad esaminare la proposta d'un
canale, che avrebbe dovuto congiungere il Reno ed il Danubio, impresa
gigantesca, superiore alla capacità di quei tempi e che solo ai nostri
giorni potè essere eseguita. Molti canali, strade, ponti, tra cui
uno grandissimo sul Reno a Magonza, furono da lui costruiti. E così
pure molte chiese, fra le quali è celebre, pel suo tesoro, le sacre
reliquie e le memorie, quella che anche oggi è continuamente visitata
dal forestiero in Aquisgrana, e venne costruita a similitudine della
chiesa di S. Vitale in Ravenna. Ma la più parte di questi edifizi è ora
scomparsa, nè a Carlo, non ostante i suoi lodevoli sforzi, riuscì di
fermare la decadenza dell'architettura. Quello che dà un'altra prova
della sua varia attività e del suo alto intelletto, si è l'osservare
come, sebbene egli fosse così poco culto, che imparò assai tardi a
leggere, nè mai riuscì a scrivere con facilità, e sebbene fosse di
uno spirito e di un carattere essenzialmente germanico, fu anche uno
dei più grandi promotori della cultura greco-romana. Quando appena la
guerra gli lasciava un momento di riposo, noi lo vediamo nello stesso
tempo legislatore, giudice supremo, iniziatore di opere pubbliche, e
gran Mecenate, circondato di dotti, con piena intelligenza di quella
cultura, che non possedeva, ma di cui comprendeva tutta l'importanza.
Presso di lui troviamo fra gli altri Paolo Diacono, lo storico dei
Longobardi; uomo di varia cultura, che conosceva il greco, e scrisse
parecchie opere in prosa ed in verso. Caro a Rachi ed a Desiderio, fu
prima nella Corte di Pavia, poi in quella di Benevento; assistè alla
rovina del regno longobardo, e si ritirò frate benedettino a Monte
Cassino. La sua famiglia dovette essersi mescolata nelle congiure
contro Carlo, giacchè un suo fratello, come già vedemmo, fu tenuto
dal Re in dura prigionia. Questo indusse Paolo, che sapeva in quanta
stima l'Imperatore tenesse i dotti, a scrivergli e perorare la causa
del fratello. Dopo di che andò egli stesso alla Corte, dove fu assai
bene accolto, vi restò negli anni 783-86, e par che la sua preghiera
fosse esaudita. Ma l'amore della patria lontana lo richiamava, e se ne
tornò a Monte Cassino, dove scrisse la sua Storia dei Longobardi. Per
mezzo di altri dotti, che vennero in Francia o che vi erano nati, Carlo
potè fondare nel proprio regno molte scuole, la principale delle quali
soleva risiedere nel suo Palazzo in Aquisgrana, e spesso lo seguiva
con la Corte nelle sue peregrinazioni. Essa fu diretta da Alcuino,
nato in Inghilterra, dove venne educato nella scuola di York, in cui
fioriva quella cultura, che dall'Irlanda era passata nell'Inghilterra.
In essa il dotto Inglese acquistò la conoscenza della filosofia e dei
classici latini, pei quali ebbe grande ammirazione. Carlo lo conobbe
in Italia, e lo invitò subito in Francia, dove Alcuino andò con alcuni
suoi compagni, e fu ivi l'iniziatore della grande scuola, che diresse,
e che era una specie di Accademia, alla quale il Re soleva assistere
coi suoi figli. Vi s'insegnavano il Trivio, il Quatrivio, la Teologia;
e i suoi principali componenti, assumevano nomi greci, romani o
biblici. Re Carlo era chiamato David, Alcuino ebbe il nome di Flacco,
il suo compagno Angilberto quello d'Omero, e così gli altri. Dal 782
al 796, Alcuino rimase alla testa della scuola, la quale promosse
grandemente la cultura non solo in Francia, ma anche in Europa. Ed il
Re, fra le altre non poche elargizioni, concesse a questo suo dotto e
fido consigliere la ricchissima abbazia di S. Martino, nella quale esso
finalmente si ritirò e potè scrivere molte delle sue opere. Parecchi
altri furono i dotti che vissero nella Corte di Carlo. Eginardo, nobile
dell'Austrasia (770-844), ebbe anch'egli dono di ricche abbazie dal
sovrano, di cui scrisse la vita; e fu autore di Annali preziosi per
la storia del tempo. Angilberto, nobile della Neustria, dopo avere
avuto vari figli, si fece ecclesiastico e divenne autore di poesie e
di opere storiche. Altri non pochi nobili furono da Carlo incitati a
coltivar le lettere, e fondarono scuole nelle loro città episcopali.
Questo glorioso sovrano promosse la cultura non solo nelle lettere,
ma in tutte quante le possibili manifestazioni; anche la musica ed il
canto furono da lui protette. Si occupò della revisione dei manoscritti
della Bibbia, e della sua diffusione, come della diffusione delle opere
dei SS. Padri. Persino la scrittura sotto di lui migliorò, e prese una
forma nuova, che si chiamò carolingia.
La costituzione dell'Impero franco fu il fatto capitale, centrale
di tutto quanto il Medio Evo. Esso strinse temporaneamente in una
forte unità paesi e popolazioni assai diversi, promosse la fusione
dei vinti e dei vincitori, dei Teutonici e dei Romani, dello spirito
germanico e della cultura greco-romana; favorì, temporaneamente almeno,
l'accordo dello Stato colla Chiesa, la quale fu da Carlo colmata di
favori. Egli cercò costantemente di proteggerla e di migliorarne la
costituzione, presumendo assai spesso di vegliare anche alla purità
della fede. Fuori d'Italia egli nominò i vescovi, e cercò da per tutto
tenerli d'accordo fra di loro, col Papa e coi Conti, valendosi a ciò
dei _Missi dominici_, i quali, appunto perchè dovevano provvedere alla
giustizia ed alla religione, solevano esser due, uno laico, l'altro
ecclesiastico.
Ma tutto questo grande organismo dell'Impero, se era un fatto storico
e necessario, era anche l'opera personale di un uomo di genio: doveva
perciò, in parte almeno, cadere insieme con lui. Dopo la morte di Carlo
infatti, i suoi successori, come tante volte era seguito tra i Franchi,
furon subito tra di loro in guerra. E questa guerra, per la vastità
dell'Impero, e per gli elementi così diversi di cui esso era composto,
divenne anche più aspra. Una società nuova s'era andata formando, nella
quale il diverso spirito nazionale dei vari popoli cominciò a reagire,
a manifestarsi irresistibilmente, decomponendo la temporanea unità
formata dal genio militare e politico di Carlo. In Italia l'Impero non
andò oltre il Garigliano, ivi essendosi fermata la conquista vera e
propria. Il ducato di Benevento riuscì a salvare la sua indipendenza, e
quindi colà sopravvisse per qualche tempo ancora la società longobarda.
È da questo momento infatti che l'Italia meridionale comincia ad avere
una storia separata e diversa assai da quella di tutto il resto della
Penisola. Oltre di ciò la Chiesa e lo Stato, il Papa e l'Imperatore
ben presto si trovarono fra di loro in lotte aspre e violenti, che
contribuirono non poco a indebolire sempre più la nuova società,
formata dall'Impero franco, la quale s'andò, con la costituzione
del feudalismo, sgretolando in mille gruppi secondari. In mezzo al
feudalismo ed in opposizione con esso si formeranno e sorgeranno
rigogliosi i nostri Comuni, i quali saranno il primo resultato della
fusione di due popoli e di due società, iniziata dall'Impero, e
daranno origine alla civiltà moderna. Ma prima che i Comuni riescano a
costituirsi, bisogna che l'Europa e l'Italia percorrano ancora un nuovo
periodo di profondo dolore, di grande disordine e quasi di anarchia.


INDICE ALFABETICO

=Acacio=, patriarca di Costantinopoli. Condannato e scomunicato, 134,
136, 164.
=Adalberga=, vedova d'Arichi (II) duca di Benevento, 404.
=Adaloaldo=, figlio di Agilulfo re de' Longobardi. Fatto da lui
battezzare, 295; e proclamare suo successore, 297. Costretto a fuggire,
301.
=Adelchi=, figlio di Desiderio re de' Longobardi. Si chiude in Verona,
387. Riesce a scampare dopo la resa di quella città ai Franchi, e si
rifugia a Costantinopoli, 388, 394, 398. Torna, ma è respinto, 404,
405.
=Adozianismo=, dottrina teologica, 406.
=Adriano I=, papa, 384. Resiste alle lusinghe e alle minacce di
Desiderio re de' Longobardi, 384. Fa imprigionare Paolo Afiarta, capo
del partito longobardo in Roma, 385. Si apparecchia a resistere con
l'armi a Desiderio, e sollecita gli aiuti di Carlo re de' Franchi, 386.
Spoleto e altre città gli fanno atto di sottomissione, 389. Riceve in
Roma il re Carlo, 391; e della donazione di terre da esso fattagli,
391 e segg. D'un conflitto tra lui e l'Arcivescovo di Ravenna, 396.
Chiama di nuovo re Carlo in difesa dell'autorità della Chiesa, e dei
suoi dominii, 397; e quali fossero i dominii cui pretendeva, 400, 403.
Chiede la restituzione di alcune terre tolte alla Chiesa in Italia dai
Bizantini, 403, 407. Muore, 407. Riassunto del suo pontificato e delle
sue relazioni con Carlo re de' Franchi, 407, 408. Come datasse le sue
bolle, 408.
=Adrianopoli.= Combattuta da' Goti, 48, 49.
=Afiarta.= V. _Paolo_ cubiculario.
=Africa.= Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. Fornisce grano
all'Impero, 5. Forma, con l'Italia, una delle quattro Prefetture di
esso, 31, 58. Vi scoppia una guerra tra i generali romani; e della
invasione in essa de' Vandali, 87 e segg. Resta divisa tra questi e
i Romani, 91. Riconquistata all'Impero, 181 e segg. Vi scoppia una
rivolta, tosto domata da Belisario, 185.
=Agilulfo=, duca longobardo. Sposa Teodolinda, e diventa re, 287. Si
trova in grandi difficoltà, e si regge con altrettanta prudenza, 288.
Conclude un accordo co' Franchi, 288. Attende a risottomettere alcuni
Franchi ribelli, 289. Assedia Roma, 291; poi si ritira, 292. Disposto
ad accordarsi col Papa, 293. Prende e distrugge Padova, 294. Il Papa
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