Le invasioni barbariche in Italia - 26

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rovina di tutti i disegni così lungamente meditati, fu preso da una
collera irrefrenabile. Il linguaggio da lui adoperato nella lettera
che allora scrisse ai due fratelli era infatti tale che, sebbene
essa si trovi nel codice carolino, venne da alcuni ritenuta apocrifa.
Chiamava diabolica ogni unione «fra la nobilissima gente dei Franchi
e la iniquissima dei Longobardi.» Sembrava credere che i due fratelli
avessero già moglie, e quindi che i nuovi matrimoni proposti non
potessero esser altro che concubinaggi. E concludeva: «abbiamo
posto questa nostra lettera di ammonimento sulla tomba di S. Pietro,
celebrandovi sopra la messa, e da questo luogo la mandiamo a voi colle
lacrime agli occhi.» Carlo però non aveva moglie legittima, non v'era
quindi ostacolo al suo matrimonio con Desiderata, che fu celebrato;
ed il Papa si dovè rassegnare al fatto compiuto. A che invero
avrebbe potuto giovare l'irritare Carlo e Desiderio? Si aggiungeva
che Cristoforo e Sergio erano divenuti sempre più insopportabili,
s'erano avvicinati a Carlomanno, e questi aveva mandato presso di
loro a Roma il suo ambasciatore Dodone con alcuni militi, il che li
aveva resi più audaci che mai. Inoltre dopo la deposizione di Filippo
e la uccisione di Valdiperto, essi erano necessariamente divenuti
nemici dei Longobardi, e per questa ragione Bertrada potè riuscire a
riannodar buone relazioni fra il Papa e re Desiderio, che tornò subito
a largheggiar di promesse.
Sotto pretesto d'un religioso pellegrinaggio, il re longobardo con buon
seguito d'armati s'avvicinava ora a Roma, per incontrarsi col Papa in
S. Pietro, ed aiutarlo contro Cristoforo e Sergio, che erano sempre
più minacciosi, e non si lasciarono prendere alla sprovvista (771).
Dalla Città e dalla Campagna avevano chiamato i loro amici, radunandoli
insieme coi pochi soldati franchi venuti coll'ambasciatore Dodone;
e quando il Papa e Desiderio s'incontrarono in S. Pietro, tutto era
pronto per la rivolta. Ma neppure il Papa se n'era stato ozioso, avendo
dato la direzione della difesa ad uno degli alti ufficiali della Curia,
il cubiculario Paolo, soprannominato Afiarta, uomo audacissimo. Questi,
senza por tempo in mezzo, quando Stefano III tornava da S. Pietro al
Laterano, chiamò il popolo alle armi, e levò il tumulto. Cristoforo e
Sergio corsero colle loro genti al Laterano, chiedendo ad alte grida
che si desse loro nelle mani l'Afiarta. Ma sfortunatamente per essi
quelli che li seguivano, entrati nel Palazzo, non seppero trattenersi
dal saccheggiarlo, e penetrarono armati perfino nella Basilica, dove il
Papa s'era rifugiato. Che cosa precisamente seguisse allora noi non lo
sappiamo. Stefano III scrisse d'aver corso pericolo della vita; ma il
giorno dopo andava accompagnato da molti armati e dallo stesso Afiarta,
ad abboccarsi nuovamente con Desiderio in S. Pietro. Sembra certo che
Cristoforo e Sergio non si spinsero fino a far violenze al Papa, sia
che essi non osassero porre le mani sul Capo visibile della Chiesa, nel
tempio del Signore, sia che i loro seguaci allora li abbandonassero, o,
come è più probabile, che l'Afiarta arrivasse in tempo per resistere.
Certo è che il giorno dopo, quando Stefano III era tornato in S.
Pietro, caddero ambedue nelle mani dei difensori del Papa, il quale
ordinò che restassero nella Basilica fino a notte avanzata, per farli
poi, così almeno disse, coll'aiuto delle tenebre, condurre dall'Afiarta
più sicuramente salvi in città. Ma invece, quando erano per entrar
dentro le mura, sopraggiunsero improvvisamente alcuni manigoldi ivi
appiattati, che li malmenarono e cavaron loro gli occhi. Cristoforo
fu trascinato nel monastero di S. Agata, dove dopo tre giorni morì;
Sergio invece fu tenuto prigioniero nel Laterano, donde poi scomparve.
E Desiderio, che era stato il segreto istigatore di queste sanguinose
violenze, alle quali non si può credere che rimanesse affatto estraneo
il Papa, se ne tornò a Pavia.
In tal modo i due antichi capi dell'aristocrazia ecclesiastica, che si
erano uniti ai Longobardi per poi tradirli, furono abbattuti. Ma papa
Stefano, sempre debole e mutabile, s'era liberato da una tirannia,
per cadere sotto un'altra. In Roma spadroneggiava ora l'Afiarta col
favore del partito longobardo, di che erano scontentissimi i Franchi.
Carlomanno infatti aveva favorito Cristoforo e Sergio; e neppure a suo
fratello Carlo poteva piacere di vedere in Roma trionfare i Longobardi.
Con ambedue i fratelli e con la loro madre Bertarida il Papa si scusava
dicendo che tutto era stata colpa dell'ambasciatore Dodone, il quale
s'era unito «coi diabolici promotori d'un tumulto, che aveva messo a
grave pericolo la sua propria vita in Laterano. Quanto alle violenze
usate a Cristoforo ed a Sergio, nel loro rientrare in Città, esse eran
seguite contro ogni suo volere, per opera di volgari malfattori, che
non si fu in tempo a fermare, perchè erano sbucati inaspettatamente dai
loro nascondigli.» La lettera del Papa concludeva facendo le lodi di
Desiderio, a cui egli diceva di dovere la propria salvezza, e che già
cominciava a mantenere la promessa di restituire le terre usurpate. Ma
tutto ciò non era poi vero, come ben presto si vide.
Lo stato generale delle cose mutava ora non poco in Italia e fuori.
Carlo, che era stato sempre avverso ai Longobardi, ripudiava la moglie
Desiderata, rimandandola al padre, e ciò, come è naturale, apriva fra
di loro un abisso. Il 4 dicembre 771 Carlomanno moriva, lasciando un
figlio, che aveva solo un anno; ed i Grandi elessero Carlo a successore
del fratello, volendo colla unione del regno aumentarne la forza.
Il Papa, mutando ancora una volta la sua politica, si allontanava
da Desiderio, che non manteneva le promesse fatte, e s'avvicinava a
Carlo. Egli era molto irritato contro il re longobardo, perchè quando
aveva a lui ricordato gli obblighi assunti, questi gli aveva risposto,
che doveva invece essere contento, e ringraziarlo di quanto aveva già
fatto per lui, che per opera sua era stato liberato dalla prepotenza di
Cristoforo e di Sergio. Tutte queste agitazioni, tutti questi continui
e pericolosi mutamenti turbarono assai l'animo debole ed incerto del
Papa, già malato del male che doveva condurlo alla tomba. L'Afiarta poi
non gli lasciava pace, perchè voleva apparecchiare a proprio vantaggio
la nuova elezione; e quindi di suo arbitrio mandava in esilio, faceva
mettere in carcere tutti i nobili più avversi a lui ed ai suoi.
Finalmente ai primi di febbraio 772 Stefano III moriva, il che dette
origine ad un altro grande mutamento in Roma e nell'Italia.


CAPITOLO VI
Elezione di Adriano I — Condanna e morte dell'Afiarta — Discesa di
Carlo re dei Franchi in Italia — Disfatta dei Longobardi, assedio di
Pavia — Carlo va a Roma, dove passa la Pasqua del 774

L'Afiarta riuscì a fare in modo, che la nuova elezione procedesse
rapidamente e senza tumulti, non però a fare scegliere un papa quale
a lui sarebbe convenuto. Sulla cattedra di S. Pietro saliva infatti
Adriano I (772-95), uomo saldo nella fede religiosa, e di carattere
fermissimo, che, a differenza del suo predecessore, non esitava mai.
Quando infatti arrivarono a lui gli ambasciatori di Desiderio, facendo
al solito larghe promesse in nome del loro signore, egli rispose, che
non poteva prestar fede a chi aveva sempre mentito al Papa defunto.
Tuttavia, siccome essi insistevano, e non volendo Adriano mancare
del tutto all'usanza ed alle convenienze, mandò a Pavia ambasciatori
il notaio Stefano, e Paolo Afiarta. Arrivati però che essi furono a
Perugia, dovettero fermarsi, avendo saputo che Desiderio, già mutato
animo, s'era impadronito di Faenza, di Ferrara e Comacchio, dopo di
che le sue genti correvano liberamente per l'Esarcato, e minacciavano
Ravenna, di dove l'arcivescovo chiedeva aiuto al Papa. La vedova di
Carlomanno s'era in questo mezzo rifugiata coi figli presso Desiderio,
il quale, per odio a Carlo, l'aveva accolta sotto la sua protezione, e
voleva che il Papa facesse lo stesso, che anzi ne consacrasse i figli.
Ma Adriano «si mostrò duro come adamante;» mandò anzi una seconda
ambasceria a Pavia, per far nuovi rimproveri al re longobardo, ed
indagare più precisamente l'animo di lui.
In questo mezzo l'Afiarta, avendo compreso quanta era l'avversione del
Papa per lui e pei Longobardi, aveva cercato di mettersi d'accordo con
Desiderio. Questi voleva avere un abboccamento con Adriano, sperando,
mediante nuove lusinghe, di poterlo tirare alle sue voglie; e l'Afiarta
promise di condurglielo, «anche se fosse stato necessario trascinarlo
con una corda al collo.» Aveva però fatto i conti senza l'oste, giacchè
appena giunto a Rimini, venne arrestato dagli agenti dell'arcivescovo
di Ravenna, che ne aveva ricevuto ordine dal Papa. Il quale, essendo
deciso a farla finita colle prepotenze dell'Afiarta, aveva richiamato
quasi tutti coloro che da questo erano stati esiliati, e fatti uscir
di carcere quelli che aveva imprigionati. Ordinò inoltre una severa
inchiesta, per sapere che cosa fosse mai avvenuto di Sergio. E fu
scoperto che, otto giorni prima della morte di Stefano III, in sul
far della notte, quel disgraziato era stato, per ordine dell'Afiarta
e di altri, condotto sull'Esquilino, presso l'Arco di Gallieno, dove
l'avevano ucciso e sepolto. Il cadavere venne infatti trovato con
i segni ancora visibili delle percosse, e col capestro alla gola. I
complici del delitto, appena scoperti, o fuggirono o vennero esiliati.
Gli atti del processo furono mandati a Ravenna, perchè anche l'Afiarta
venisse giudicato, e, se colpevole, punito della stessa pena. Ma
l'arcivescovo, che era ardente partigiano dei Franchi, e però anche
più del Papa nemico dell'Afiarta e dei Longobardi, lo fece condannare
a morte, sentenza che venne subito eseguita. Il Papa se ne mostrò
assai scontento, perchè egli che era fermo, non voleva appunto perciò
apparire eccessivo.
In ogni modo adesso il partito dei Longobardi era in Roma sgominato,
ed il loro capo Afiarta non poteva più dar noia a nessuno. Desiderio
faceva gravi minacce al Papa, che non si voleva accordare con lui; e
subito dopo occupava l'Esarcato, entrava nella Pentapoli, e tra la fine
del 772 e i primi del 773 era già in via verso il confine del Ducato
romano. Adriano però non se ne stava inerte; ma raccoglieva gente dalla
Campagna, dalle province, e dalle città, per esser pronto alla difesa.
Nello stesso tempo scriveva, sollecitando aiuto da Carlo, che allora
era spinto a venire in Italia anche da alcuni Grandi longobardi nemici
di Desiderio. Ben presto infatti gli ambasciatori franchi arrivarono a
Roma con la notizia che Carlo aveva deciso di passare le Alpi. E però,
quando Desiderio era giunto a Viterbo, i messi del Papa, che aveva
ripreso animo, si presentarono a lui, intimandogli di ritirarsi sotto
pena d'anatema. Ed il re longobardo, saputo che i Franchi s'avanzavan
davvero, si ritirò. Carlo, come già aveva fatto Pipino con Astolfo,
prima di venire alle armi, anch'egli avanzò proposte di pace al re
longobardo, promettendogli 14,000 soldi d'oro, se restituiva al Papa le
terre promesse. Ma nessun accordo fu possibile.
Nella primavera del 773 i Franchi s'avanzarono perciò di nuovo verso
l'Italia, divisi in due eserciti. Uno, che prese la via di Monte Giove,
oggi Gran S. Bernardo, era comandato da Bernardo, figlio di Carlo
Martello e zio di re Carlo. L'altro s'avanzò pel Cenisio, condotto
dal Re in persona, che, arrivato alla Chiusa di S. Michele, tentò
nuovamente d'indurre Desiderio a cedere colle buone. Ma fu tutto
invano, e si dovè venire a battaglia. E qui più d'una leggenda altera
la storia in modo, che resta assai difficile scoprire il vero. Si
narra che il passaggio delle Alpi era così fortemente chiuso da un
grosso muro, costruito dai Longobardi a propria difesa, che i Franchi,
sgomenti, volevano ritirarsi, quando, per divina volontà, i nemici
si dettero invece a precipitosa fuga. Un'altra leggenda dice che ciò
avvenne, perchè alcuni dei capi longobardi tradirono. Una terza narra
che, quando re Carlo si trovò nella impossibilità di andar oltre,
un giullare longobardo si presentò a lui, offrendosi d'indicargli un
sentiero sconosciuto, pel quale poteva passare inavvertito. E così i
Franchi, discesi nella pianura, avrebbero preso il nemico alle spalle,
ponendolo in rotta. Si sarebbe allora chiesto al giullare che compenso
voleva, ed egli, salito sopra un colle, e dato fiato al suo corno,
avrebbe chiesto che fin là dove il suono s'udiva, il terreno fosse suo.
E gli fu concesso. Ma lasciando da parte queste ed altre leggende, noi
possiamo dir solo che tra Franchi e Longobardi vi fu una battaglia,
vinta certamente dai primi, della quale però non sono conosciuti
i particolari. Sembra che, mentre re Carlo combatteva di fronte i
Longobardi, l'esercito comandato da Bernardo, avanzatosi rapidamente
per una via poco conosciuta, li prendesse alle spalle, ponendoli così
in fuga precipitosa. Desiderio allora si ritirò a Pavia per difendersi,
e suo figlio Adelchi si chiuse in Verona, dove si era rifugiata anche
Gerberga, la vedova di Carlomanno, coi figli.
Carlo s'avanzò subito coll'esercito, occupando varie terre importanti,
fra cui Torino e Milano. Poi mise l'assedio a Pavia, che poteva
resistere a lungo. Adesso lo scopo della guerra non era più, come a
tempo di Pipino, di far restituire le terre alla Chiesa. Carlo non
voleva venire a patti, faceva ai Longobardi addirittura una guerra di
sterminio, per annientarne la potenza, ed impadronirsi di tutto il loro
regno. Prevedendo che l'assedio, già regolarmente cominciato, dovesse
andare in lungo, fece di Francia venir la moglie Ildegarda, e compiè
parecchie secursioni, occupando altre città, che s'arresero senza
resistere. Fra queste fu anche Verona; e caddero allora nelle sue mani
Gerberga e i figli, che finirono in un convento. Adelchi invece riuscì
a scampare, e dopo essere rimasto qualche tempo a Salerno, se ne andò a
Costantinopoli.
Essendo passati già sei mesi, senza che la fine dell'assedio si
vedesse vicina, Carlo pensò d'andare quell'anno (774) in Roma, a
passarvi, com'era allora il sogno di tutti i credenti, la Pasqua, che
cadeva quell'anno il 2 di aprile. Il Re avrebbe anche avuto a Roma il
modo d'accordarsi col Papa sulle grandi questioni politiche, che in
conseguenza della guerra presente, dovevano sorgere inevitabilmente.
Infatti, conquistato che avesse il regno longobardo, che cosa doveva
farne? Non certo restituirlo all'Impero, perchè vi si sarebbe opposto
Adriano I, nè egli era venuto in Italia per ciò. Darlo tutto alla
Chiesa non avrebbe voluto, nè il Papa, disarmato come era, sarebbe
stato in grado di governarlo. Tenerlo tutto per sè, sarebbe stato un
mancare alle promesse fatte al Papa, col quale voleva andare d'accordo:
per difenderlo e favorirlo egli era venuto in Italia, ed aveva
intrapreso la guerra. Era dunque necessario intendersi, ed anche per
ciò la sua gita a Roma riusciva assai opportuna.
Quello a cui già da un pezzo miravano i Papi, ed a cui mirava più
che mai Adriano, adesso che il regno longobardo era vicino a cadere,
trasparisce abbastanza chiaro dalle loro lettere e dalla così detta
donazione di Costantino, la quale, sebbene sia un documento falso,
compilato in questo tempo appunto da qualcuno della Curia, ha certo un
notevole valore storico, perchè scopre chiaramente le mire ambiziose,
che da lungo tempo aveva sempre avute la Chiesa. Questa donazione, che
vien fuori adesso, ed è ben presto citata dai Papi come un documento
autentico, diceva che l'Imperatore, dopo aver concesso al Papa il
palazzo Laterano insieme con i più alti onori imperiali, dopo aver
riconosciuto la superiorità della Chiesa, e riconosciuto nei prelati e
nei cardinali la dignità senatoria, concedeva «la città di Roma e tutti
i luoghi, le province e città d'Italia al beatissimo papa Silvestro ed
ai suoi successori.» Per quanto vaghe e fantastiche potessero sembrare
queste concessioni, risulta sempre più chiaro che i Papi aspiravano a
prendere in Italia il posto che l'Impero era costretto a lasciare; e i
fatti provano che Adriano I non si contentava più delle sole terre che
Pipino aveva tolte all'Impero. Appunto ora gli Spoletini, per evitar
di cadere sotto il dominio di Carlo, erano venuti in Roma a fare atto
di sottomissione al Papa, giurandogli obbedienza, facendosi, secondo
l'uso di quel tempo, tagliare i capelli e radere la barba; ed il Papa
aveva accettato, riconoscendo, quasi fosse già loro legittimo signore,
il nuovo Duca che si erano scelto. Osimo, Fermo, Ancona e Città di
Castello imitarono l'esempio di Spoleto. Che Adriano I però pensasse
sul serio di potere in Italia succedere all'Impero ed ai Longobardi,
non è facile crederlo. Egli doveva ben capire che, anche avendola, non
avrebbe mai potuto, nè saputo governar tutta la Penisola. Il concetto
perciò che a Carlo si presentava come più pratico e più facilmente
attuabile, era quello di formare nella Lombardia e nella Liguria un
regno franco, cedendo al Papa, oltre il Ducato di Roma, l'Esarcato e la
Pentapoli, dandogli altrove anche i territori e le proprietà su cui la
Chiesa avesse potuto dimostrare d'avere giusti diritti patrimoniali.
Tutto questo però non era ancora ben definito nella mente di nessuno;
era sempre un argomento fluttuante, aperto alla discussione, che si
sarebbe potuta fare a Roma.
A trenta miglia di distanza dalla Città, presso il lago di Bracciano,
Carlo incontrò i primi dignitari mandati dal Papa. Ad un miglio di
distanza dalle mura incontrò le _Scholae_ della milizia, gli studenti
con rami d'ulivo, tutta una moltitudine che s'avanzava cantando inni
religiosi, portando in mano grandi croci, come s'era usato nel ricevere
l'Esarca. Appena che Carlo li vide, discese da cavallo, ed andò a piedi
sino a S. Pietro. L'antica chiesa, che la tradizione diceva costruita
per ordine di Costantino, era assai diversa dalla presente, ed assai
più bella, pel suo carattere veramente originale. Si trovava fuori
delle mura, le quali ancora non circondavano il quartiere vaticano, che
era come un sobborgo della Città. La vasta basilica a forma di croce
aveva cinque navate, la principale delle quali finiva con un abside
semicircolare. Alla chiesa s'arrivava traversando un atrio spazioso a
forma di chiostro, detto il Paradiso di S. Pietro. Il pavimento così
della chiesa come dell'atrio, si trovava alcune braccia più in alto
della piazza. Vi si ascendeva per una scala larga quanto la facciata o
muro esterno. Le novantasei colonne, nonchè i mattoni coi quali erano
state costruite le mura e gli archi, erano stati tolti dal vicino
anfiteatro di Nerone, e da altri edifizi pagani: si vedeva una grande
varietà di sagome, di capitelli, di colonne. E questo gran tempio
cristiano, composto coi frammenti di tempii pagani, sembrava sfavillar
da lontano, perchè il tetto era formato da tegoli di bronzo dorato,
tolti anch'essi dagli antichi tempii di Roma e di Venere. Nell'interno
i diversi colori dei mosaici e delle pitture davano a quella chiesa
una solenne e severa varietà, che armonizzava col sentimento religioso
assai più del S. Pietro moderno, che sembra quasi un'immensa galleria.
Molte erano le statue di marmo e di bronzo, alcune delle quali
anch'esse tolte ai tempii pagani, e adattate ad uso cristiano. A tutto
ciò s'aggiungevano ricchi broccati, veli a trapunto, lamine d'oro e
d'argento. Nel mezzo della croce era la Confessione dell'Apostolo,
rivestita d'argento, coperta da un tempietto con sei colonne di onice a
spira, con un centinaio di lampade e candele, le quali ardevano giorno
e notte. Ivi erano tutti i giorni prostrati in ginocchio migliaia di
fedeli d'ogni sesso ed età, d'ogni condizione sociale, venuti da tutte
le parti del mondo a chiedere perdono dei loro peccati. Insomma era un
tempio unico veramente, che poteva dirsi il centro religioso del mondo.
In cima della scala d'ingresso, circondato dal clero, da numeroso
popolo, il Papa sin dal mattino aspettava il Re, che nel vederlo cadde
in ginocchio ai piedi della scala, ed in ginocchio ne salì gli scalini,
baciandoli l'un dopo l'altro. Giunto che fu dinanzi alla porta, il
Papa lo baciò, e poi strettagli la mano, traversato con lui l'atrio, lo
condusse nel tempio fino alla Confessione, dove il clero ed i cantori
intonarono il versetto: «Benedetto chi viene in nome del Signore». Quel
giorno stesso, sabato santo, 1º di aprile, Re e Papa, circondati da
nobili franchi e romani, scesero nella Confessione, dove era la tomba
di S. Pietro, e si giurarono mutua fedeltà. Dopo di che andarono a S.
Giovanni in Laterano, dove il Re assistette al battesimo amministrato
dal Papa. Il giorno seguente, era la Pasqua, ed il Re ascoltò la messa
solenne, celebrata in S. M. Maggiore dal Papa. Il terzo giorno, che
era la prima festa di Pasqua, vi fu gran banchetto; il quarto venne
solennizzato in S. Pietro, dove colle lodi del Santo furono celebrate
quelle del Re; il quinto in S. Paolo.
Ma più importante di tutti fu il sesto giorno, 6 aprile, quarta
festa di Pasqua. Il Papa usciva di città, in solenne processione, e
s'incamminava nuovamente col Re a S. Pietro, dove prese a scongiurarlo
perchè volesse adempiere interamente le promesse fatte da Pipino,
e da lui confermate. Allora, secondo il Libro pontificale, che è la
fonte quasi unica che qui abbiamo, Carlo si fece leggere la donazione
fatta da Pipino a Quierzy, la quale venne da lui e dai suoi Grandi
riconfermata. Ordinò poi che venisse trascritta dal suo cappellano
e notaio, nuovamente impegnandosi a concedere le terre in essa
menzionate, facendone anche più specificatamente designare i confini,
che si trovano infatti ripetuti nel citato racconto. Questa carta di
donazione, che noi più non abbiamo, sottoscritta dal Re, dai suoi
vescovi, abati, duchi e conti, fu messa sull'altare di S. Pietro;
poi dentro la sacra Confessione; e finalmente venne data al Papa
con solenne giuramento che sarebbe osservata. Una seconda copia, di
mano dello stesso notaio Eterio, fu, a maggiore solennità e sicurtà,
messa nella Confessione, là dove era il corpo di S. Pietro, sotto gli
Evangeli, che ivi si solevano baciare: una terza restò nelle mani del
Re. Questa narrazione ci è data dal Libro pontificale, nella vita di
Adriano I, il cui autore dice d'aver visto coi propri occhi l'atto
di donazione. Ciò nondimeno, sulla esistenza di esso e su tutto il
racconto si sono fatte dispute infinite, che hanno dato origine ad una
intera letteratura: si è parlato di falsificazioni, d'interpolazioni,
e simili. Il resultato della lunga disputa è stato però, che oggi si
presta fede allo scrittore della vita d'Adriano: le divergenze sorgono
piuttosto sul modo d'interpetrare le sue parole.
Secondo lui adunque l'atto di donazione dava al Papa l'Esarcato, nella
sua più antica e vasta estensione. Non ricordava espressamente la
Pentapoli, ma par certo che intendesse d'includervela; aggiungeva poi
i Ducati di Spoleto e di Benevento, la Toscana intera e la Corsica,
la Venezia e l'Istria. Così il nuovo regno che Carlo avrebbe serbato
esclusivamente per sè, si sarebbe ridotto in assai angusti confini
nell'Italia settentrionale, ed il Papa sarebbe divenuto padrone di
quasi tutta l'Italia centrale e meridionale, con una parte anche della
settentrionale. È certo però, che i confini delle terre concesse al
Papa, al di fuori del Ducato romano, dell'Esarcato e della Pentapoli,
sono indicati in un modo assai indeterminato. E bisogna concludere,
che o s'intese accennar solamente ai beni patrimoniali che la Chiesa
affermava di possedere nelle altre province, ed il cui possesso credeva
di poter documentare; o se si volle veramente promettere in queste
un vero e proprio diritto di sovranità, siffatte promesse non furono
certo mantenute. E ciò potè essere avvenuto non perchè il Re avesse
mutato animo, o avesse voluto ingannare; ma perchè ben presto dovette
accorgersi che il Papa non era in grado di conservare neppur quello che
gli era stato già concesso. In ogni modo, anche volendo, nel 774 era
assai difficile determinare con precisione quello che gli si sarebbe
veramente potuto dare. Da una parte le pretese del Papa crescevano ogni
giorno; e da un'altra si trattava di conceder quello che si doveva
ancora conquistare. L'incertezza ne seguiva perciò come necessaria
conseguenza, ed apriva la porta a molte discussioni, a cui solo l'esito
finale della guerra poteva porre un termine.
Tra la fine di maggio ed i primi di giugno, re Carlo, fatta a Roma
un'assai breve dimora, se ne tornava a Pavia, che dopo avere già
resistito circa otto mesi, dovette finalmente arrendersi. E qui la
leggenda viene di nuovo a mescolarsi colla storia. Si narra che
una figlia di Desiderio, innamoratasi di Carlo, gli facesse, per
mezzo d'un proiettile spinto attraverso il Ticino, pervenire una sua
lettera, e che dalla risposta avuta s'accendesse vieppiù nel suo amore.
Furtivamente allora prese le chiavi della città, che erano sospese al
letto del padre, e di notte aprì la porta al nemico. Quando però ella
andò incontro a Carlo, venne dai cavalieri franchi, che furiosamente
s'avanzavano, calpestata ed uccisa. Tutto questo sembra significare,
che Pavia s'arrese non solo per la fame e per le malattie, ma ancora
per le discordie interne dei Longobardi. Il re Desiderio fu condotto
via, con la moglie e la figlia, in Francia, dove morì oscuro monaco.
Il valoroso Adelchi s'era già, per la resa di Verona, che alcuni
vorrebbero avvenuta dopo quella di Pavia, rifugiato a Costantinopoli.
Tutte le altre terre longobarde, nell'alta e nella media Italia,
cedettero l'una dopo l'altra. E così può dirsi colla caduta di Pavia
caduto il regno dei Longobardi, che era durato più di due secoli.


CAPITOLO VII
Formazione del regno franco in Italia — Congiure e ribellioni contro il
Papa, che chiede aiuto a Carlo — Questi torna in Italia, e celebra in
Roma la Pasqua del 781

Carlo, che era giunto appena alla età di circa trentadue anni, ed aveva
da ogni parte assicurato il suo vasto regno, reso vastissimo dalle
conquiste, prese ora il titolo di re dei Franchi, re dei Longobardi
e patrizio dei Romani. La sua cancelleria cominciò nei pubblici atti
a computare gli anni del regno dalla presa di Pavia, e così fecero
anche i privati: il nome dell'Imperatore di Costantinopoli fu in questi
documenti come dimenticato. Il nuovo regno dei Franchi nell'alta Italia
si estese al di là dell'Isonzo fino all'Istria; ma la supremazia
di fatto esercitata da Carlo si allargò a tutta l'Italia centrale.
Spoleto che aveva giurato obbedienza al Papa, se ne allontanò, per
sottomettersi a Carlo. Il duca di Benevento, Arichi, continuava però
a farla da sovrano indipendente; quello del Friuli s'era sottomesso
assai di mala voglia, ed aspettava una qualche occasione per
ribellarsi. In ogni modo il titolo di Patrizio dei Romani assunto da
Carlo non era più un semplice ornamento, ma cominciava ad acquistare
un valore reale, perchè egli era divenuto davvero il protettore e
difensore della Chiesa. Infatti anche le province più esplicitamente
proprie di essa giurarono a lui fedeltà. Par che egli si serbasse il
diritto di decidere le condanne capitali, togliendole alle autorità
ecclesiastiche; più di una volta infatti lo vediamo sedere _pro
tribunali_, e giudicare nella stessa Roma. Con grande accorgimento
non assunse però mai il titolo di re d'Italia, ma quello solamente di
re dei Longobardi; e non volle aggregare alla Francia neppur quella
parte d'Italia, che ritenne per sè. Ne formò come una provincia
separata, quasi un regno autonomo, cui lasciò le antiche istituzioni
e gli antichi Duchi: in qualche luogo pose, invece del Duca, un
Conte. A Pavia però cominciò subito ad ordinare un'amministrazione
nuova, pigliando per sè i beni della corona longobarda, una parte dei
quali dette ad alcuni conventi in Francia, il che si potrebbe dire un
principio di assimilazione.
Ad un tratto re Carlo fu costretto a ripassare improvvisamente le
Alpi, per correre a domare la ribellione dei Sassoni, contro i quali
vinse nel 775 una grande battaglia, dopo di che tornò, come vedremo,
in Italia a sottomettere il duca del Friuli; ma dovette di nuovo
traversare le Alpi, per continuare contro i Sassoni quella lotta, che
pareva non dovesse aver mai fine. Sebbene però la resistenza loro e
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