Le invasioni barbariche in Italia - 21

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Gerusalemme coi luoghi santi (614 e 15), portando via perfino il legno
della sacra croce. Dopo ciò s'avanzarono nell'Egitto, minacciando
d'andare più oltre ancora. Dove queste gravi perdite si dovessero
fermare, nessuno poteva prevederlo. Il nemico sembrava minacciare la
stessa Costantinopoli, e neppure allora Eraclio si moveva: si sarebbe
detto che era addirittura spaventato. Vi fu un momento (618) nel quale
pareva che volesse trasportare la capitale a Cartagine, sperando potere
di là meglio difendere l'Impero.
Fu questo invece il momento in cui tutto mutò a un tratto. Alla
minaccia di perder la capitale, lo spirito pubblico, religioso e
politico, si sollevò in Costantinopoli. E finalmente si ridestò dal
suo letargo anche Eraclio, il quale si trovò alla testa d'una grossa
guerra, combattuta a difesa non solo dell'Impero, ma anche della fede,
per liberare Gerusalemme e le sacre reliquie dalle mani profanatrici
degli adoratori del fuoco. Egli parve divenuto allora un altro uomo.
Fatta nel 620 una tregua cogli Avari per due anni, si apparecchiò
febbrilmente alla guerra. Nel 622 si mosse coll'esercito, e quasi
nuovo Belisario, in una serie di fortunate battaglie, nel 622-25,
sconfisse ripetutamente i Persiani che dovettero ritirarsi presso
il Mar Nero, dove svernarono. Cosroe loro principe si apparecchiò
allora ad uno sforzo supremo; e fece alleanza coi Bulgari, cogli
Slavi, cogli Avari. Questi ultimi, col loro Cacàno alla testa, mossero
ad un formidabile assalto contro la stessa Costantinopoli, mentre
contemporaneamente e con ugual vigore i Persiani movevano contro
Eraclio. Ma a Costantinopoli il popolo, il clero, i soldati fecero
una disperata difesa, che dovette esser vittoriosa davvero, perchè da
questo momento non sentiamo più parlare degli Avari. Pare che Eraclio
avesse deliberato di disfarsene affatto, dimostrandosi invece assai più
favorevole agli Slavi. Certo è che d'ora in poi gli Avari cominciano
quasi del tutto a scomparire dalla storia; gli Slavi, invece, ben
più numerosi, s'avanzano, occupando prima la penisola balcanica, e
dilatandosi poi anche in altri paesi verso l'Europa centrale. Eraclio
continuò le sue vittorie fino a che Cosroe, umiliato per le ricevute
sconfitte, fu nel 628 da una ribellione popolare deposto ed ucciso. Gli
successe il figlio, che fece la pace coll'Impero, abbandonando tutte
le conquiste fatte dal padre, restituendo i prigionieri ed il legno
della sacra croce, che Eraclio, dopo d'essere entrato trionfante in
Costantinopoli, riportò l'anno seguente a Gerusalemme, nella chiesa del
Santo Sepolcro.
Di tutte le guerre sostenute nella lunga lotta contro i Persiani,
questa di Eraclio fu certo la più vittoriosa, e pareva anche
definitiva. Essa però mise sempre più in luce un lato assai debole
dell'Impero d'Oriente, il quale aveva uno spirito greco, seguiva una
politica romana, ed era composto di province fra loro assai eterogenee.
Il rapido avanzarsi dei Persiani sin dal principio della guerra, aveva
fatto toccar con mano, quanta poca coesione vi fosse tra le varie
province. Parecchie di esse non erano state assimilate all'Impero, da
cui poterono perciò esser facilmente staccate. A riconquistarle era
stata necessaria una grossa guerra, che aveva obbligato a lasciare
indifese quelle che erano le parti più vitali o più assimilate, e che
restarono esposte alle invasioni di altri barbari. Di ciò s'era già
avuto un altro esempio a tempo di Giustiniano, il quale, per riprendere
l'Africa, la Spagna e l'Italia, aveva trascurato la difesa della
Tracia, della Macedonia, della Grecia, che vennero invase dai Bulgari,
dagli Avari, sopra tutto dagli Slavi. Lo stesso fatto, ed in più larghe
proporzioni, si era ripetuto a tempo di Eraclio. Gli Avari, è ben
vero, erano scomparsi dalla scena, ma gli Slavi che fino a quel tempo
avevano proceduto in loro compagnia, combattendo insieme, inondarono
addirittura la penisola balcanica, avanzandosi nella Grecia, nella
Dalmazia, nell'Istria, nella Carniola. Il destino di questi due popoli,
gli Avari che erano finnici, e gli Slavi, indo-europei e numerosissimi,
somiglia di molto al destino degli Unni e dei Germani. I primi,
finnici anch'essi, cominciarono col combattere e vincere la potenza dei
secondi, i quali, uniti poi ai Romani, li disfecero e li obbligarono a
ritirarsi, dopo di che gli Unni scomparvero quasi del tutto. E così gli
Avari, che erano sembrati dapprima prevalere sugli Slavi, furon poi da
questi e dall'Impero distrutti o forse anche assorbiti ed assimilati:
certo per lungo tempo non se ne sentì più parlare. Questi popoli
finnici, turanici appariscon quasi tutti come un uragano, cui nulla può
resistere. Ma se con grande facilità si avanzano, con grande difficoltà
riescono ad organizzarsi stabilmente, e presto si decompongono per
disciogliersi e sparire colla stessa rapidità con la quale s'erano
riuniti. Un'eccezione notevole sono però gli Ungari, detti poi
Ungheresi, che vennero in Europa assai più tardi, e formano ancora oggi
come un'isola compatta e forte in mezzo ai popoli ariani.
Certo è in ogni modo che tanto le imprese militari di Giustiniano,
quanto quelle di Eraclio non ebbero effetto duraturo, perchè le
province che essi riconquistarono finirono coll'essere definitivamente
abbandonate. L'opera dei secoli VII e VIII mirò a riprendere e
conservare almeno quelle più omogenee, che s'erano meglio assimilate.
Il lavoro di disintegrazione, vittoriosamente combattuto da Eraclio,
ricominciò prima che egli morisse. Ed il ripetersi di un tal fatto
dimostrava che esso era tutt'altro che transitorio.
S'apparecchiava allora un grande avvenimento politico-religioso, che
doveva turbare profondamente l'Oriente e l'Occidente. Maometto nel 628
cominciava dall'Arabia, colla predicazione e colle armi, a propagare
la sua nuova dottrina. Essa era un monoteismo, che lasciava da parte
tutte le sottili teorie e disputazioni filosofiche sulla Trinità, sulla
doppia natura di Gesù Cristo, che egli riteneva suo predecessore.
Queste dispute, che tanto infiammavano ed agitavano lo spirito dei
Greci, non erano punto adatte alla intelligenza delle popolazioni in
altre parti dell'Impero. La nuova religione non riconosceva inoltre
distinzione di classi sociali, giacchè gli uomini, secondo Maometto,
sono uguali «come i denti di un pettine;» prometteva nell'altro mondo
un eterno paradiso, con tutti quanti i piaceri dei sensi, a coloro
che per essa combattevano e morivano; ed inculcava un fatalismo
che rendeva indifferenti ad ogni pericolo di morte. Certo è che
l'esaltamento religioso degli Arabi e dei Saraceni (era questo il nome
che i Bizantini davano a tutti coloro che professavano la dottrina
musulmana) divenne in breve tempo straordinario. Morto Maometto nel
632, le popolazioni arabe, di loro natura guerriere, educate nel
deserto ad una vita perennemente militare, guidate dai Califfi che gli
successero, andarono rapidamente di conquista in conquista ripigliando
tutte quelle terre nelle quali s'erano poco prima avanzati i Persiani,
respinti poi da Eraclio. Nel 635 fu presa Damasco, nel 636 Antiochia,
nel 637 Gerusalemme, nel 638 la Mesopotamia, fra il 639 e 40 l'Egitto.
L'imperatore Eraclio pareva ricaduto nella sua prima apatia, e dopo una
debole, inefficace resistenza, morì nel 641, quando l'Impero aveva per
sempre perduto le terre al di là del Tauro.
La conquista musulmana era stata preceduta ed apparecchiata dalla
conversione religiosa, agevolata anch'essa dalla natura di quelle
popolazioni. L'Egitto, la Mesopotamia, l'Armenia avevano sempre
resistito alle dottrine del Concilio di Calcedonia sulla Trinità e
sulla doppia natura di Gesù Cristo. Le abbiamo già viste inclinare
costantemente al Monofisismo, che riconosceva in Gesù Cristo una
sola natura, la divina, sostenendo che essa aveva assorbito l'umana.
Quest'avversione ad ammettere la doppia natura di Gesù Cristo le
rendeva ben disposte al monoteismo musulmano, pel quale le dispute
sulla Trinità non avevano nessuna ragione di essere: si lasciavano
quindi facilmente convertire alla nuova fede. E il dissidio religioso
si mutava allora facilmente in conflitto politico, perchè quelli che
divenivano musulmani, chiamavano in loro aiuto gli Arabi, per esser
difesi contro l'Impero. Eraclio s'era avvisto in tempo del pericolo
religioso, ed aveva cercato di mettervi riparo. Aiutato dal patriarca
Sergio, si manifestò fautore della dottrina monotelita, che riconosce
in Gesù Cristo una volontà sola, pure ammettendo la sua doppia natura.
E con questa specie di compromesso, che sperava di fare accettare a
Roma, cercava di soddisfare le tendenze dei monofisiti, per evitare
la loro separazione dall'Impero. Pare che papa Onorio fosse a ciò
favorevole, avendo detto che l'insistere troppo sulla volontà unica
o doppia era una disputa grammaticale ed oziosa. Ma lo spirito della
Chiesa cattolica ripugnava sempre a queste transazioni, e più che mai
a tollerare che le dispute religiose venissero decise dall'Imperatore:
peggio ancora quando la decisione era ispirata da ragioni politiche.
Nel 638 Eraclio, incoraggiato dall'attitudine del Papa, pubblicava
l'_Ecthesis_ o esposizione della fede, ordinando che non si disputasse
più sulla doppia volontà di Gesù Cristo, essendo colla doppia natura
ammissibile la volontà unica. Ma la opposizione che si sollevò allora
in Italia fu tale, che lo stesso papa Onorio difficilmente si sarebbe
potuto astenere dal condannare l'_Ecthesis_, se quando questo pervenne
a Roma, egli non fosse già morto.
La discordia fra Roma e Costantinopoli s'era così di nuovo accesa,
ed a farla crescere s'aggiungeva ora il fatto che l'esarca Isacco,
venuto a Roma, portò via il tesoro del Laterano, sotto il pretesto
d'averne bisogno per dare ai soldati le paghe, che da Costantinopoli
non arrivavano. Eletto nel 640 il nuovo papa Severino, si cominciò
col non volerlo confermare se prima non approvava l'_Ecthesis_; ma
si dovette poi cedere e riconoscere l'elezione, sebbene egli avesse
dichiarato di volere star fermo alla dottrina di Calcedonia. Pochi mesi
dopo, nello stesso anno, gli successe Giovanni IV, che convocò subito
un Concilio, il quale condannò la dottrina monotelita, senza nominar
nè l'imperatore Eraclio, nè il patriarca Sergio, e molto meno papa
Onorio, che la Chiesa naturalmente voleva lasciar da parte. La disputa
monotelita continuò tuttavia ancora per un secolo, e così l'_Ecthesis_
non era riuscito ad altro che ad aumentar la discordia, aggiungendo ai
molti che già v'erano un nuovo scisma, come era seguìto in passato con
l'_Enotikon_.
Quando dunque nel 641 Eraclio moriva, potevasi dire che l'Impero,
sempre più violentemente assalito dai Musulmani, sempre più diviso
dalle dispute religiose, si trovava in un grandissimo disordine. Rotari
quindi non aveva adesso nulla a temere da questo lato. Non mancavano
però le discordie interne anche fra i Longobardi, i quali si trovavano
in un periodo di transizione, per essersi già molti di loro convertiti
al cattolicismo. Rotari, duca di Brescia, scelto a secondo marito da
Gundeberga, cattolica e vedova di Arioaldo morto nel 636, era ariano,
il che non poteva certo favorire la pace domestica. La divisione
religiosa era tale e tanta che, secondo Paolo Diacono, non di rado
in una stessa città si trovavano due vescovi, cattolico l'uno, ariano
l'altro. Il nuovo re cominciò col fare uccidere parecchi nobili a lui
avversi; trattò assai male la moglie cattolica, che tenne per cinque
anni chiusa in carcere, nel suo palazzo di Pavia, non sappiamo se
per dissensi religiosi o per altra ragione. Essa fu poi liberata per
intercessione del re dei Franchi, Clodoveo II, e si dette sempre più a
vita devota, facendo limosine, ricostruendo a Pavia la basilica di San
Giovanni, nella quale fu poi sepolta.
Non ostante tutti questi turbamenti, Rotari sicuro dalla parte
dell'Impero, che era sempre più minacciato ed assalito dai Musulmani,
ne profittò per estendere il proprio dominio nella Lunigiana,
avanzandosi nella Liguria sino al confine franco verso Marsiglia. E
dopo di ciò si volse contro i Bizantini, prese Oderzo, e li battè sul
Panaro in una battaglia campale, nella quale, secondo Paolo Diacono,
l'esercito che essi avevano raccolto da Roma e da Ravenna, avrebbe
perduto 8000 uomini.
In questo tempo (641) moriva il duca di Benevento Arichi, il quale
fu prode in guerra, ed aveva esteso il suo Stato nel Sannio, nella
Campania, nelle Puglie, nella Lucania, nei Bruzi. Forse allora appunto
anche Salerno venne annesso al suo territorio. E così il ducato di
Benevento confinava a nord con lo Stato della Chiesa e col ducato
di Spoleto, al sud s'estendeva in quasi tutta l'Italia meridionale,
divenendo sempre più indipendente. Presso quel Duca s'erano, come
vedemmo, rifugiati Rodoaldo e Grimoaldo, i due figli maggiori di
Gisulfo suo parente, scampati alla strage fatta dagli Avari nel Friuli.
Venendo ora a morte, Arichi raccomandò che si desse la successione ad
uno di essi, piuttosto che al proprio figlio Aione, il quale pareva
scemo di mente, in conseguenza, si diceva, d'una bevanda misteriosa
datagli dall'Esarca. Tuttavia egli successe al padre, ma poco dopo morì
(642), ucciso dagli Slavi, che dalla Dalmazia erano venuti a stabilirsi
in Siponto. Allora solamente Rodoaldo, il quale li sconfisse e cacciò
dal Ducato, potè impadronirsi del potere, che dopo cinque anni lasciò,
morendo (647), al fratello Grimoaldo, che lo tenne fino al 662. Essi
furono ambedue valorosi, ma dell'uno e dell'altro si sa assai poco.
Ignorasi perfino se Rodoaldo si trovasse nel 643 alla grande assemblea
di Pavia, dove venne sanzionato il celebre Editto di Rotari; come
s'ignora se questo Editto fu allora messo in vigore anche nel ducato di
Benevento.
L'Editto pubblicato nel 643, è certamente ciò che Rotari fece di
più notevole in tutto quanto il suo regno durato fino al 652. Esso
è un monumento storico di grande importanza, e costituisce un atto
di vera e indipendente sovranità. Era la prima volta che un barbaro
osasse legiferare in Italia, senza tener conto alcuno dell'Impero
nè, consapevolmente almeno, della legge romana. Rotari, lo dice nel
proemio, non fece altro che raccogliere in iscritto le consuetudini
già prevalenti nel suo popolo, cercando di compierle e migliorarle,
levandone il superfluo. Tutto ciò «col consiglio e consenso dei Primati
nostri Giudici, e di tutto il fedelissimo nostro esercito.» Giudici e
Primati erano i Gasindi, i Duchi, i Gastaldi, che comandavano in guerra
e giudicavano in pace: esercito, secondo l'uso barbarico, era il popolo
stesso dei Longobardi in armi. L'usanza di consultare i Grandi ed il
popolo nelle faccende di generale interesse, era antica presso tutti i
popoli germanici, come sappiamo anche da Tacito. Ma questa usanza, per
le condizioni affatto speciali di vita, e per l'organizzazione tutta
militare dei Longobardi, aveva perduto il suo carattere primitivo,
ed era divenuta affare più di forma che di sostanza. I Primati non
deliberavano, davano solo un parere, un consiglio; il popolo si
limitava ad approvare.
Fra le compilazioni di leggi barbariche, l'Editto di Rotari è certo una
delle migliori. Ciò si deve al fatto, che gli altri barbari scrissero
le loro leggi o consuetudini poco dopo entrati nell'Impero, ed i
Longobardi assai più tardi. Sebbene poi questi non se ne avvedessero,
è tuttavia per noi visibile nelle loro leggi l'azione indiretta del
diritto romano, che apparisce non solo nella stessa lingua latina in
cui sono scritte, ma anche in alcune frasi affatto giustinianee, in un
ordinamento già fin dal principio alquanto sistematico, ed in alcune
disposizioni che evidentemente non possono essere di origine germanica.
L'Editto è diviso in trecento ottantotto capitoli, di cui gli ultimi
dodici sembrano aggiunti più tardi.[35] Si comincia coi delitti contro
lo Stato e le persone; si prosegue col diritto ereditario, l'ordine
della famiglia e della proprietà; di diritto pubblico v'è poco o nulla.
Si è molto disputato per sapere se questo Editto si applicava solo
ai Longobardi o anche ai Romani. Generalmente le leggi barbariche
avevano un carattere personale, erano cioè esclusivamente del popolo
che le aveva scritte, e che le portava seco dovunque andava. Quelle dei
Longobardi però, e non di essi solamente, avevano anche un carattere
territoriale, perchè si applicavano a tutti i popoli venuti con loro
in Italia. Prova ne sarebbe, secondo alcuni, il fatto che i Sassoni,
i quali volevano vivere colle proprie leggi e le proprie istituzioni,
dovettero andar via. Rotari dice nel suo Editto, che egli lo ha
compilato per la giustizia, e per amore de' suoi sudditi, senza far tra
di essi distinzione alcuna, il che farebbe credere all'applicazione
della legge longobarda anche ai Romani: questione, come è noto,
assai dibattuta. Certo è che più di una volta l'Editto accenna alla
esistenza di altre legislazioni diverse dalla longobarda; e non pare
credibile che, se la legge romana fosse stata veramente annullata del
tutto, d'una cosa di così grande importanza non si facesse chiaramente
menzione neppure una volta. Nè si può concepire come i Longobardi,
anche volendo, avrebbero potuto distruggere un diritto, che aveva messo
radici secolari, creando fra i vinti Italiani una quantità di relazioni
giuridiche, molte delle quali erano ai loro vincitori sconosciute
in modo, che per esse la loro legge non provvedeva e non poteva
provvedere nulla addirittura. Non si capirebbe poi come, ammessa una
volta l'assoluta distruzione del diritto romano nell'Italia longobarda,
questo si ritrovasse più tardi in vigore, senza che del suo sparire
e del suo riapparire si facesse nei documenti o nelle cronache cenno
alcuno. La conclusione più probabile cui bisogna, secondo noi, arrivare
è che, sebbene la legge romana non venisse officialmente riconosciuta,
pure in molte delle relazioni private che da antico correvano fra
gl'Italiani, essa fosse lasciata vivere sotto forma per lo meno
consuetudinaria.
Ed invero se dall'Editto di Rotari si può solamente indurre la
persistenza del diritto romano,[36] questa apparisce manifesta come
un fatto normale nella legislazione posteriore di re Liutprando. «Se
un Longobardo, noi leggiamo in essa, dopo avere avuto figli, si fa
chierico, questi continueranno a vivere sotto la legge stessa, sotto
la quale viveva il padre prima di farsi chierico.» Ciò vuol dire non
solamente che v'era un'altra legge, ma che ad essa era sottoposto
anche il Longobardo che si faceva chierico. E quale poteva esser
mai quest'altra legge se non la romana? Il diritto canonico, che pur
vigeva certamente, non era forse pieno d'elementi di diritto romano,
e non dovette perciò contribuire a favorirne quel rapido incremento,
che apparisce infatti sempre più manifesto? La longobarda è una
legislazione essenzialmente barbarica, sulla quale si scorge sin dal
principio l'azione d'una civiltà superiore, esercitata per mezzo del
diritto romano e del Cristianesimo. Lo stesso Rotari, che dice di
raccogliere le consuetudini nazionali e migliorarle, dichiara assurdo
l'uso barbarico del duello per risolvere questioni di diritto, e cerca
diminuirlo, come cerca di aumentare le composizioni, per mettere un
qualche freno alla vendetta (_faida_) barbarica. In alcuni casi egli
condanna l'uccisione delle streghe, come contraria all'umanità ed ai
principii del Cristianesimo. Liutprando dice addirittura, che egli
crede poco al valore dei così detti giudizi di Dio. Certo a misura
che si è approfondito lo studio del diritto longobardo, più chiari
sono in esso apparsi gli elementi nascosti di diritto romano. Risorge
perciò sempre più la teoria sostenuta dal grande Savigny a favore della
persistenza del diritto romano, vera di certo nella sua sostanza,
sebbene egli l'abbia qualche volta esagerata. Anche l'esistenza in
tutto il Medio Evo di scuole di grammatica e di diritto romano a
Ravenna, a Roma ed altrove, apparisce sempre più dimostrata.
La legislazione longobarda è certo un prodotto sostanzialmente
germanico, e manifesta costantemente questo suo carattere fondamentale,
sebbene in alcuni punti apparisca alquanto alterato dalle condizioni
speciali in cui essa venne formulata. È innanzi tutto la legislazione
d'un popolo in armi, ma d'un popolo di agricoltori sparsi per la
campagna, in case separate, con siepi che circondano i campi. Rotari
dichiara fin dal principio d'essere mosso dall'interesse dei propri
sudditi, «specialmente rispetto ai continui travagli dei poveri, ed
alle esazioni inutili contro i deboli, che noi sappiamo aver patito
violenza.» Un tale concetto si può in parte attribuire, come è stato
sostenuto, al Cristianesimo; ma in parte si deve anche attribuire al
fatto, che i barbari in generale rivolgevano la loro ostilità sopra
tutto contro i latifondisti oppressori dei poveri; spogliavano,
uccidevano i primi, e spesso favorivano i secondi, ai quali nulla
potevano togliere. Certo furono verso i poveri meno oppressori dei
Bizantini; nè si sa che nelle campagne o nelle città li opprimessero al
pari dei ricchi.
La legislazione longobarda è inoltre, anzi è sopra tutto la
legislazione barbarica d'un popolo armato e conquistatore; ed è di
sua natura intrinsecamente, essenzialmente contraria allo spirito vero
del diritto romano. Quello che vi domina non è il concetto giuridico
dello Stato, ma il concetto della forza. La famiglia, primo nucleo e
fondamento di una società, in cui il governo è ancora assai debole,
si trova fortemente costituita a propria difesa; ma non apparisce
giuridicamente coordinata allo Stato, risultando invece unita dai
primitivi vincoli del sangue. La donna, come debole, è sottoposta
ad una perpetua tutela, che si chiama _mundio_, da cui non può mai
liberarsi: non può mai essere _selbmundia_. La tutela a cui ella è
sottoposta, secondo il diritto romano, è in gran parte determinata
dall'interesse della famiglia, che si vuol tenere unita, e della quale
non si vuole perciò dividere il patrimonio. Per questa ragione la
tutela romana può in alcuni casi cessare. La donna longobarda passa dal
mundio del padre a quello del marito, alla morte del quale va sotto il
mundio dei parenti di lui, ed in alcuni casi anche dei propri fratelli
o del proprio figlio; in ultimo, della _Curtis regia_: non essendo
capace di portare le armi, ella dev'esser sempre sotto il mundio di
qualcuno. I maschi la escludono quasi affatto dalla eredità, di cui,
quando è nubile, ha solo una piccola parte. La famiglia longobarda
non era come la romana una specie di monarchia assoluta, nella quale,
massime sotto la Repubblica, il padre aveva un potere illimitato; però
anche presso i Longobardi questo potere era grandissimo. La donna
maritata trovava qualche protezione nell'autorità serbata ai suoi
parenti; e l'autorità paterna sul figlio aveva dei limiti ignoti alla
legge romana. Divenuto atto alle armi, esso poteva separarsi dalla
propria famiglia, e costituirne un'altra. La legislazione barbarica
in generale, come è noto, non conosceva il regime dotale; ma presso i
Longobardi la donna possedeva quello che le veniva dal marito, il quale
doveva liberarla dal mundio del padre o dei fratelli, pagandone il
prezzo; darle la _meta_ che si può dire una specie di dote, e il dono
del mattino, _morgengab_. Il padre le doveva solo il _faderfium_, che
era un dono a suo beneplacito. Presso di essi la proprietà collettiva
germanica era scomparsa quasi del tutto, essendone solo qua e là
sopravvissuta qualche debole traccia. Osserviamo ancora che nei primi
tempi non si trova il testamento, e quando, sotto l'azione del diritto
romano, comincia ad apparire, esso è, come la donazione, di sua natura
irrevocabile.
Il carattere germanico di questa legislazione, opposto a quello del
diritto romano, apparisce più chiaro ancora nel diritto penale. La
pena di morte, che era assai rara, si applicava, secondo l'Editto,
innanzi tutto a chi attentava alla vita del re, che era tenuta sacra:
«il cuore del re è in mano di Dio;» all'adultera, che poteva anche
essere uccisa dal marito; alla donna che uccideva il proprio marito;
allo schiavo che uccideva il padrone; a chi disertava al nemico, si
ribellava contro il re o i duchi, eccitava i soldati alla ribellione.
Quanto al resto, tutto il diritto penale longobardo era una serie di
composizioni pecuniarie, graduate secondo le persone e secondo i reati.
Ma questa pena era intesa a soddisfare la _faida_, o sia la vendetta
privata, riconosciuta legale, ed affidata a tutta la famiglia; non
era destinata, come presso i Romani, a ristabilire la giustizia, a
vendicare la Repubblica. Qui era il contrasto fondamentale, che ai
Romani doveva apparire una barbarie enorme, incomportabile. Il sistema
della prova si fondava, oltrechè sul giuramento, sul duello, sul così
detto giudizio di Dio, e sui sacramentali, che servivano a scemare i
duelli. Il guidrigildo era la pena che si pagava per l'uccisione d'un
uomo o d'una donna, ed andava dapprima alla famiglia dell'offeso, più
tardi, parte ad essa, parte al Re.
Il vedere che nell'Editto di Rotari non si trova determinato nessun
guidrigildo per il Romano ucciso, fece sostenere che dai Longobardi non
si desse alla sua vita valore alcuno, e che perciò fosse schiavo. Ma
abbiamo già detto, che nessuno più crede alla schiavitù dei Romani, e
quindi neppure che alla loro vita non si desse valore alcuno; nessuno
più osa dal silenzio della legge dedurre così gravi conseguenze. È
superfluo dunque fermarsi a combatterle.


CAPITOLO VI
Grimoaldo re — Lotta e poi accordo tra Papa e Imperatore — Costante II
in Italia — Morte di Grimoaldo — Bertarido — Cuniberto — Conversione
dei Longobardi al cattolicismo — Liutprando

Morto Rotari (652), gli successe il figlio Rodoaldo, che venne ben
presto ucciso; ed a lui seguì il cognato Ariperto (653-61), figlio di
quel Gundobaldo fratello di Teodolinda, venuto con lei di Baviera, e
morto poi duca di Asti. Di Ariperto si sa poco o nulla; e subito dopo
segue un periodo assai oscuro, alterato da molte leggende, dalle quali
non riesce facile cavare un qualche costrutto storico.
Ariperto lasciò il regno diviso fra i suoi due figli Bertarido e
Godeberto, divisione questa assai comune presso gli altri barbari,
sopra tutto i Franchi; ma affatto insolita fra i Longobardi, il regno
dei quali era già troppo diviso in Ducati. Nè meno singolare è il
vedere che i due fratelli ebbero le loro rispettive capitali, il
primogenito a Milano, il secondo a Pavia. Così non solo esse erano
l'una vicina all'altra; ma il secondogenito risiedeva nella più
importante delle due, Pavia essendo stata sempre la capitale del regno.
I due fratelli, com'era naturale in tali condizioni, furon subito
in guerra fra di loro. E Godeberto mandò Garibaldo duca di Torino
a Grimoaldo duca di Benevento, promettendogli in isposa la propria
sorella, se veniva a Pavia per aiutarlo contro Bertarido. Grimoaldo
allora, quello stesso che vedemmo scampato alla strage seguìta nel
Friuli, uomo assai avventuroso, lasciato il governo di Benevento in
mano del proprio figlio, si mosse subito con un piccolo esercito, che
s'andò ingrossando per via. Arrivato a Pavia, secondo il racconto, che
in parte almeno è leggendario, invece d'aiutare Godeberto, lo uccise
inopinatamente, tanto che il figlio ebbe appena il tempo di mettersi in
salvo. Bertarido, saputo quello che era seguìto, se ne fuggì anch'egli,
ricoverando presso gli Avari in tal fretta, che lasciò indietro la
moglie ed il figlio Cuniberto, i quali caddero ambedue nelle mani di
Grimoaldo, che li mandò prigionieri a Benevento. Grimoaldo sposò poi
la sorella di Godeberto, che gli era stata promessa per indurlo a
venire in aiuto del fratello, da lui invece detronizzato ed ucciso. Il
duca di Torino, che aveva secondato il tradimento, fu da un parente
del tradito Godeberto ucciso; ma Grimoaldo venne confermato a Pavia
re dei Longobardi (662). Questo fatto aveva grande importanza, perchè
egli rimaneva anche duca di Benevento, dove suo figlio governava per
lui; e fu la prima, anzi l'unica volta in cui quasi tutta Italia si
trovò unita sotto un re longobardo, il che poteva, se fosse durato,
avere gravissime conseguenze. Ma chi già se ne risentiva non poco
era il Papa, il quale si trovò come stretto in un cerchio di ferro,
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