Le invasioni barbariche in Italia - 20

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si dava anch'essa alla vita religiosa. In tutto si dimostrò un uomo
superiore. Un giorno egli rimproverò il vescovo di Terracina, per avere
a forza cacciati gli Ebrei dai luoghi in cui celebravano i loro riti
religiosi, dicendo che coloro i quali dissentivano dalla vera fede, si
dovevano richiamare alla dottrina di Gesù Cristo colla mansuetudine e
la persuasione, non colla violenza.
Nell'anno stesso in cui fu eletto Gregorio I, si procedeva alla
elezione del nuovo re dei Longobardi. Questi dissero a Teodolinda, di
cui avevano giustamente un alto concetto, che si scegliesse un secondo
marito, capace di governare, ed essi, fidando nel buon giudizio di lei,
lo avrebbero senz'altro accettato per loro re. Teodolinda che aveva
già cominciato a governare, e dato subito prova della sua accortezza
politica cercando di stringere alleanza coi Franchi, tenuto ora
_consilium cum prudentibus_, scelse Agilulfo duca di Torino, originario
della Turingia, parente di Autari, bello, giovane, valoroso, prudente.
Deliberata la scelta, si mosse francamente per andargli incontro
verso Torino. E trovato che l'ebbe a Lumello, lo invitò a bevere nella
stessa tazza, dopo di che, _cum rubore subridens_, si lasciò baciare in
bocca, come per confermare la scelta che aveva fatta. Le nozze furono
celebrate con generale letizia; e nel maggio del 591 Agilulfo assunse
la potestà regia, solennemente acclamato dal popolo congregato a
Milano.
La posizione in cui si trovava ora Agilulfo era assai difficile. Da
una parte minacciavano i Franchi, da un'altra i Bizantini. A Roma
c'era un Papa avversissimo agli ariani ed agli stranieri, che aveva
grandissima autorità sulle popolazioni italiane. Se questi tre nemici
si fossero una volta messi veramente d'accordo, ai Longobardi non
sarebbe rimasto da far altro che ripassare le Alpi. Ma fortunatamente
per essi quest'accordo non esisteva e non era possibile. Il Papa era
tutt'altro che contento dei Bizantini, dei quali scontentissime si
mostravano le popolazioni. I Franchi, continuamente paralizzati dalle
sanguinose discordie interne, quando queste cessavano, si ponevano, è
vero, assai facilmente d'accordo coi Bizantini, per muover guerra ai
Longobardi. Se non che, tanto essi quanto i Bizantini avrebbero voluto
ciascuno l'Italia per sè; e così appena erano sul punto di abbattere i
Longobardi, tornava subito la discordia fra di loro, e ognuno di essi
cercava d'avvicinarsi al nemico, a danno dell'amico. Si formò così
una specie di equilibrio instabile, in mezzo al quale Agilulfo poteva
sperare di destreggiarsi a suo modo. A questi pericoli esterni si
aggiungevano però anche gl'interni. Alcuni dei Duchi, scontenti per la
speranza delusa di salire essi sul trono, minacciavano di ribellarsi.
Altri non pochi, sopra tutto quelli assai potenti che erano ai confini,
aspirando a sempre maggiore indipendenza, dimostravano di volersi
anch'essi ribellare.
In mezzo a tutte queste gravi difficoltà, Agilulfo seppe dar prova di
tale e tanta prudenza, da reggersi non solo, ma da riuscire anche ad
essere, come fu giustamente affermato dal Ranke, il vero fondatore
del regno longobardo. E prima di tutto, seguendo il savio concetto
di Teodolinda, riuscì a concludere coi Franchi un accordo, del quale
ignoriamo i termini precisi. Sappiamo però che, per lungo tempo,
da questo lato vi fu pace. Ma il merito di un tale accordo non deve
attribuirsi tutto ad Agilulfo. Childeberto che aveva unito sotto di sè
l'Austrasia e la Borgogna, lasciò morendo (596) due fanciulli, che si
divisero fra loro le due parti del suo regno, dal quale la Neustria era
adesso separata. Così tra i Franchi scoppiò di nuovo la guerra civile;
ed il re dei Longobardi seppe trarne profitto, per concludere un
accordo, che gli permise di darsi interamente a domare i Duchi ribelli,
ed a mettere ordine nel Regno, per poter poi combattere vigorosamente i
Bizantini.
Cominciò quindi col rivolgersi contro Mimulfo, duca dell'Isola di
S. Giuliano, sul lago d'Orta, che fu da lui vinto ed ucciso. Andò
poi contro Gaidulfo, duca assai potente di Bergamo, col quale, dopo
averlo vinto, fece la pace; ma fu poi nuovamente assalito da lui,
quando combatteva Ulfari duca di Treviso. Ciò non ostante, Agilulfo,
vinto ed imprigionato Ulfari, si rivolse subito contro Gaidulfo, che
s'era ritirato e fortificato nell'Isola comacina. Gli levò l'isola ed
il tesoro ivi raccolto, lo inseguì a Bergamo, vincendolo di nuovo e
facendolo prigioniero. Quando però tutti s'aspettavano di vederlo messo
a morte, Agilulfo da vero uomo di Stato, dominando l'impeto delle sue
passioni, gli fece grazia della vita. Sapendolo assai potente e di
alto lignaggio, non voleva aumentar troppo il numero dei propri nemici.
Rivolse poi il suo pensiero a Benevento, per far riconoscere anche in
quel Ducato, già troppo indipendente, la regia autorità. Colà era morto
il duca Zottone, ed Agilulfo invece di fargli succedere un parente come
s'era fatto in passato, per arrivare, colla successione ereditaria,
alla totale indipendenza di quel Ducato, vi mandò invece Arichi nobile
longobardo del Friuli.
Il ducato di Spoleto aveva una estensione assai minore di quello di
Benevento, ma gli dava grande importanza la sua posizione geografica.
Posto sulla via Flaminia, la quale va da Roma a Rimini, che per
altra via è congiunta con Ravenna, esso trovavasi fra la Pentapoli e
Roma, che di continuo minacciava. Papa Gregorio infatti si doleva ora
amaramente all'Imperatore che l'esarca Romano, il quale pur era un
uomo valoroso, lo lasciasse esposto ai nemici assalti, senza muovere
un passo in sua difesa, tanto che doveva egli solo provvedere a
tutto. Lo pregava perchè si movesse finalmente a difesa della _causa
Italiae_. «Io non so più, egli diceva, se ora adempio l'ufficio di
pastore o di principe temporale. Debbo provvedere alla difesa, a tutto;
sono divenuto il pagatore dei soldati.» E veramente egli pensava a
restaurare le mura, a dare ordini per la difesa; era l'anima della
guerra in Roma e fuori; avvertiva i capi dei militi a stare di continuo
attenti ai movimenti degli Spoletini. In qualche città inviava soldati,
scrivendo che la difendessero sotto l'ordine del _Magister militum_
(27 settembre 591). Con un'altra lettera, circa dello stesso tempo,
indirizzata: _Clero, ordini et plebi consistenti Nepae_, mandava il
_clarissimum Leontium_ a difenderla. Nel giugno del 592 scriveva a
due Maestri dei militi come a suoi dipendenti, dando loro ordini per
la guerra. E nello stesso anno, alla città di Napoli che si trovava
senza armi, ed era minacciata da Benevento d'accordo con Spoleto, il
Papa mandava il «Magnifico tribuno» Costanzo, ordinando che gli si
affidasse il comando dei soldati, perchè potesse dirigere la difesa. E
intanto, senza aver dall'Esarca aiuto nè di uomini nè di danari, doveva
difendersi da Ariulfo, che s'avanzava per assediare Roma. «I soldati
regolari che qui sono, così egli scriveva al vescovo di Ravenna, non
avendo più le paghe, hanno abbandonato la Città; gli altri a stento
s'inducono a far la guardia alle mura. Ormai non resta che concludere
la pace coi Longobardi. Questa è divenuta per Roma questione di vita
o di morte.» Ed assumendo sopra di sè ogni responsabilità, quasi fosse
divenuto il capo legale, il rappresentante legittimo del Ducato romano,
concluse con Ariulfo la pace.
L'Esarca fu di ciò irritatissimo, accusando il Papa d'avere compiuto un
atto d'indebita sovranità, quasi fosse indipendente dall'Imperatore.
Ormai, egli diceva, Ariulfo, sicuro alle spalle, poteva da un
momento all'altro, unendosi con Agilulfo, procedere contro Ravenna. E
nell'autunno del 592 s'avanzò verso l'Italia centrale, trovando a un
tratto quelle forze che fino allora aveva sempre detto di non avere.
S'impadronì di Perugia, di Todi, di Orte, di Sutri, che erano occupate
dai Longobardi. Ed il Papa, di buona o di mala voglia, non ostante
la pace fatta, dovette secondar questa guerra. Così il suo accordo
coi Longobardi fu rotto; ed Agilulfo, nel maggio del 593, si mosse in
persona contro Roma. Passato il Po, fece prigionieri alcuni Italiani,
che mandò nella Gallia per venderli schiavi; altri arrivarono in Roma
mutilati. Il Papa dovette allora solennemente annunziare al popolo,
che interrompeva le sue predicazioni sopra Ezechielle, per occuparsi
della guerra. «Nessuno ci potrà rimproverare, egli diceva, se cessiamo
dal predicare in mezzo a tante tribolazioni, circondati come siamo
dalle spade nemiche. Alcuni Italiani già tornarono fra noi colle mani
mutilate; altri vennero fatti prigionieri, legati e venduti schiavi;
altri uccisi!» Agilulfo intanto aveva già preso Perugia, ed ucciso il
duca Maurizio che, dopo aver tenuto quella città pei Longobardi, la
teneva ora pei Bizantini, ai quali l'aveva a tradimento ceduta. Pose
poi l'assedio a Roma, e sebbene le notizie che abbiamo di questo fatto
siano incertissime, sembra tuttavia che in parte la resistenza dei
cittadini animati dal Papa; in parte la malaria che, a cagione della
state, infieriva nella Campagna; in parte la ribellione dei Duchi
non ancora sedata nell'alta Italia, finissero coll'indurre Agilulfo a
ritornare verso il Nord, dove l'un dopo l'altro sottomise i ribelli.
In mezzo a tutti questi eventi il Papa andava sempre più divenendo
il personaggio principale in Italia, i cui interessi egli ora
rappresentava, la cui storia sembrava concentrarsi intorno a lui,
che sorgeva gigante in mezzo al secolo, dando al Papato inaspettata
grandezza, iniziando un'epoca nuova, tenendo testa a tutti con
straordinaria energia. Non poteva andare d'accordo coi Longobardi,
stranieri, ariani, barbari, saccheggiatori, nemici del nome romano.
Non poteva neppure andare d'accordo coi Bizantini, continui essendo con
Costantinopoli i dissensi religiosi, continua essendo colà la pretesa
di tenere la Chiesa sottomessa all'Impero. Il patriarca Giovanni era
sempre ostinato nell'assumere il titolo di ecumenico; e l'Imperatore
aveva, con nuovo editto, proibito a coloro che facevano parte
dell'amministrazione, d'accettare uffici ecclesiastici o entrare nei
conventi. Contro di ciò il Papa energicamente protestava. Oltre di che
la continua velleità d'indipendenza manifestata dal clero di Ravenna,
veniva favorita adesso dall'esarca Romano, «la cui condotta, scriveva
Gregorio, era peggiore di quella dei Longobardi; tanto che sembrano più
benigni i nemici che ci uccidono, dei rappresentanti della Repubblica,
i quali dovrebbero difenderci, ed invece colla loro malizia e le loro
rapine ci consumano lentamente.» Si valeva di tutti i mezzi per agire
sull'Imperatore e sull'Esarca; mediante l'arcivescovo di Milano,
agiva anche su Teodolinda. Ma in sostanza neppure a lui conveniva una
vittoria o prevalenza decisiva dei Bizantini o dei Longobardi. Avrebbe
voluto perciò un accordo, col quale venisse stabilito un equilibrio che
lasciasse la Chiesa libera dagli uni e dagli altri.
Agilulfo, che si trovava anch'egli in mezzo a mille difficoltà,
pareva da parte sua disposto a stringere accordo col Papa; ma questi,
dopo ciò che gli era successo per la pace conclusa con Ariulfo,
non poteva arrischiarsi a provocare ora un'altra crisi. Si trovava
quindi sempre più angustiato, e nelle sue lettere ripeteva che le
continue tribolazioni non gli lasciavano neppur tempo di leggere o
di scrivere. _Tantis tribulationibus premor, ut mihi neque legere
neque per epistolas multa loqui liceat_. Ma quello che era peggio, non
gli venivano risparmiate calunnie d'ogni sorta: lo accusarono presso
l'Imperatore perfino d'avere ucciso un vescovo. Al che egli perdette
addirittura la pazienza, e scrisse: «Se avessi voluto macchiarmi le
mani nel sangue, a quest'ora la nazione longobarda non avrebbe nè
re, nè duchi, nè conti, e sarebbe in estrema confusione. Ma io temo
Iddio e rifuggo dal macchiarmi le mani del sangue di chicchessia.»
L'Imperatore lo aveva accusato d'incapacità e fatuità nella sua
condotta verso i Longobardi. «E come! esclamava il Papa indignato, in
un'altra lettera del 5 giugno 595, si è rotta la pace da me conclusa
con Ariulfo, ritirando i soldati e lasciandomi solo contro Agilulfo.
Ho dovuto vedere i Romani presi, legati come cani, e mandati a vendere
schiavi nella Francia! L'Imperatore non avrebbe dovuto giammai prestar
fede alle parole dei miei nemici, ma guardar solo ai fatti.» E se ne
appellava a Gesù Cristo. Intanto i Longobardi di Spoleto e di Benevento
si allargavano sempre più nell'Italia meridionale, saccheggiando,
conquistando; nè quelle popolazioni potevano trovare aiuto o
incoraggiamento in altri che nel Papa, il quale così acquistava sempre
maggiore importanza ed autorità, diveniva di fatto il capo legittimo
delle popolazioni italiane, che per tale lo riconoscevano.
Nel 595 l'aspetto generale delle cose cominciava a mutare alquanto,
perchè moriva il patriarca di Costantinopoli, Giovanni, che era
stato causa continua di dissidi, e ne succedeva un altro, Ciriaco,
che era più accetto al Papa. Moriva non molto dopo l'esarca Romano,
e gli succedeva _Kallinicus_ (per corruzione detto _Gallinicus_),
anche questi a lui molto più favorevole. Tutto ciò avrebbe agevolato
non poco le trattative d'una pace generale coi Longobardi, se non
si fosse trovato un ostacolo inaspettato nei duchi di Benevento e di
Spoleto, i quali, volendo agir sempre per conto proprio, pretendevano
di firmarla solo con speciali condizioni da essi imposte. Quindi nel
599 più che una vera pace, si concluse una tregua di soli due mesi. E,
come papa Gregorio aveva già preveduto, dicendo: — si farà pace e non
sarà pace; — così, quando non era anche scaduto il termine fissato, la
tregua fu rotta senza poterla rinnovare. Nel 601 primo a cominciare le
ostilità fu l'Esarca, cui rispose subito Agilulfo cercando d'incendiar
Padova, che poi prese e distrusse. Egli fu in questa guerra secondato
dagli Avari, ai quali mandò, _ad faciendas naves_, artefici italiani,
probabilmente delle antiche _scholae_ o associazioni di mestieri.
A sempre più aumentare il disordine s'aggiunse, che da una parte
gli Avari assalirono l'Impero e devastarono l'Istria, da un'altra
i Longobardi di Spoleto ebbero più d'uno scontro cogl'imperiali di
Ravenna.
Il mutamento più notevole e di generale importanza avvenne però
a Costantinopoli, dove l'imperatore Maurizio era divenuto assai
impopolare per la severa disciplina che voleva nell'esercito. Gli
Avari gli avevano nel 600 proposto che riscattasse per danaro 12,000
prigionieri, i quali erano nelle loro mani; ma avendo egli decisamente
ricusato, li uccisero, il che provocò un malumore grandissimo contro
di lui. Qualche anno dopo, avendo egli dato ordine all'esercito di
passare il Danubio e svernare al di là del fiume, lo scontento arrivò
a tale che ne scoppiò una rivoluzione, e fu proclamato imperatore Foca,
il quale manifestò subito il suo carattere mostruosamente crudele. Nel
novembre del 602 fece uccidere il suo predecessore, dopo averne fatto
trucidare i figli sotto gli occhi stessi del padre. Siccome poi si
doveva subito occupare della guerra persiana, così concluse la pace
cogli Avari, richiamò l'Esarca, che aveva fatto scoppiare la guerra
anche in Italia, vi rimandò Smeraldo, e pubblicò un decreto con cui
riconosceva la supremazia del Papa. Questi allora gli scrisse una
lettera nella quale, augurandogli ogni prosperità, diceva, «che gli
angeli stessi del cielo avrebbero cantato un inno di lode al Signore,»
per la nuova elezione. Un tale linguaggio restò sempre come una macchia
indelebile nella vita del gran Papa. Ed in vero, per quanto Foca
aiutasse il trionfo della Chiesa, che era lo scopo costante, unico,
supremo, a cui Gregorio Magno tutto sacrificava, pure il congratularsi
della elezione d'un tal mostro non era scusabile in nessun modo.
Bisogna tuttavia osservare, che il linguaggio ufficiale di quei tempi,
massime coll'Oriente, era assai ampolloso, e tutto si diceva con frasi
altosonanti. Nè si può con certezza affermare, che quando il Papa
scrisse quella lettera, avesse già avuto sicura e precisa notizia del
sangue innocente con tanta crudeltà versato.
Agilulfo, come abbiamo notato, subiva l'azione che la ferrea volontà
del Papa esercitava per mezzo della regina Teodolinda, cattolica e
donna d'alti sensi, la quale lasciò gran nome di sè, e grandi opere
pubbliche, sopra tutto a Monza. Una nuova prova dell'azione su di lui
esercitata dal Papa si ebbe nella Pasqua del 603, quando Agilulfo
fece battezzare cattolico il figlio Adaloaldo, nato verso la fine
del 602. Alcuni sostengono che si convertisse anch'egli; ma certo è
solamente che si dimostrò assai favorevole ai cattolici. Del resto
siamo già al principio della generale conversione dei Longobardi,
la quale si dovette appunto all'opera di Gregorio, efficacemente
aiutato da Teodolinda. Tutto questo non impediva però che Agilulfo
continuasse le sue conquiste, e che il Papa politicamente gli si
dimostrasse perciò sempre più avverso. Dopo aver preso Monselice, il
re longobardo andò oltre verso Ravenna; e par certo che, in questa
occasione, il Papa si occupasse d'indurre i Pisani ad aiutare l'Esarca.
Abbiamo infatti una sua lettera, nella quale dice, che di questi
non c'era da fidarsi punto, perchè avevano già pronti i loro dromoni
(navi rapide) per metterli in mare, e servirsene solamente a proprio
vantaggio. Si direbbe, che i Pisani fossero già ordinati in una qualche
specie di municipale indipendenza, volendo e potendo deliberare da
sè sulle guerre che loro conveniva fare o non fare. Comunque sia di
ciò, Agilulfo, nuovamente favorito dagli Avari, assalì ed abbattè
Cremona; prese Mantova di cui demolì le mura, e lo stesso fece di altre
città, fino a che Smeraldo consentì ad una pace che doveva durare dal
settembre del 603 all'aprile 605.
In questo mezzo erano per l'età cresciute di molto le malattie di
Gregorio I; ma, per quanto può argomentarsi dalle sue lettere, era
anche andata sino all'ultimo crescendo sempre la sua prodigiosa
attività. Non cessava mai di raccomandare a tutti che si provvedesse
alle sorti della _misera Italia_, adoperandosi costantemente per essa:
e questo in mezzo a dolori, a infermità d'ogni sorta. L'anno 600 egli
scriveva: «In undici mesi appena qualche volta la gotta mi ha lasciato
levare di letto. La mia vita è divenuta tale che aspetto come un
benefizio la morte.» Ed in un'altra: «Il dolore non è sempre uguale,
ma non mi lascia mai; eppure non riesce ancora ad uccidermi!» Una
delle ultime lettere fu scritta nel gennaio 604, poco prima di morire,
per mandare abiti e coperte ad un vescovo assai povero che pativa
il freddo; e vivamente lo raccomandava alla pietà dei compagni. Poco
dopo, l'undici marzo successivo, Gregorio moriva, ed era sepolto in S.
Pietro.
In quello stesso anno Agilulfo, ad evitare le dispute che potevano
nascere per la sua successione, fece a Milano proclamare erede il
figlio Adaloaldo, che non aveva allora più di due anni. E ciò in
presenza dei grandi e dell'ambasciatore di Teudiberto re dei Franchi,
la cui figlia, in segno d'amicizia e di perpetua pace, veniva promessa
sposa al giovanetto erede del trono longobardo. Nel 605 fu fatta
pace coll'Esarca, rinnovata poi fino al 612. All'imperatore Foca era
successo intanto Eraclio (610-41), che fu subito occupato nella guerra
persiana. Anche all'esarca Smeraldo, che per la seconda volta teneva
quell'ufficio, era successo, verso il 611, un altro esarca di nome
Giovanni.
Pareva che dovesse esservi pace in Italia; ma appunto allora gli
Avari, che erano stati in passato amici dei Longobardi, mossero una
guerra violenta contro Gisulfo duca del Friuli; il quale, dopo viva
resistenza, morì in battaglia con la più parte de' suoi, lasciando
la vedova Romilda con otto figli. E questa, con essi, e cogli altri
superstiti, la più parte dei quali eran donne, vecchi o fanciulli, si
chiuse nella città di Foro Giulio (Cividale del Friuli). Quattro dei
figli eran femmine, e quattro maschi, due soli dei quali, Tasone e
Cacco adulti; gli altri due, fanciulli. Gli Avari assediarono la città
sotto il comando del loro Cacàno. Narra la leggenda, che questi era
così giovane e bello, che Romilda, appena l'ebbe visto, se ne invaghì
per modo, che offerse di aprirgli le porte della città, se prometteva
di sposarla. E così il Cacàno entrò, devastò, bruciò ogni cosa, e
fece prigionieri gli abitanti, che divise fra i suoi seguaci. Quanto
a Romilda, dopo che l'ebbe sottomessa alle sue voglie, l'abbandonò
agli ufficiali, per farla poi impalare, dicendo che questo era il solo
matrimonio degno di una traditrice come lei. I primi tre figli maschi
di Gisulfo montarono intanto a cavallo per salvarsi colla fuga. E
perchè l'ultimo di essi, Grimoaldo, giovanetto, non cadesse in mano
del nemico, volevano ucciderlo. Ma egli disse al fratello che già
aveva sguainato la spada: — Non mi uccidere, chè io saprò ben reggermi
in sella. — E salito a cavallo lo seguì. Se non che nella fuga, il
giovanetto restò indietro e venne raggiunto da un Avaro, che lo prese.
Questi però vedendolo così bello, giovane e biondo (i suoi capelli eran
quasi bianchi), non osò ucciderlo, e lo menava seco tenendo le redini
del cavallo. A un tratto il fanciullo inaspettatamente, cavò dal fodero
la sua piccola spada, e con un vigoroso colpo sulla testa, distese a
terra l'Avaro, raggiungendo al galoppo i fratelli. Le sorelle restarono
prigioniere, e per salvare il loro onore, si posero in seno della
carne cruda e corrotta, la quale mandava un tal fetore che gli Avari
se ne allontanavano stomacati. La verità storica di un sì fantastico
racconto può ridursi a questo, che gli Avari entrarono nell'Istria,
devastarono il Friuli, uccisero il duca Gisulfo e presero Cividale;
poi si ritirarono, assai probabilmente perchè Agilulfo si avanzava. Dei
quattro figli maschi di Gisulfo, i due adulti, Tasone e Cacco, poterono
assumere il governo, ma furono poi trucidati a tradimento; gli altri,
che erano troppo giovani ancora, se ne andarono a Benevento, presso
Arichi, che era del Friuli anch'egli, e loro parente. Arichi che li
aveva già prima educati nel loro paese, li accolse adesso come figli a
casa sua.
Ed ora Agilulfo, dopo venticinque anni di regno, moriva a Milano tra
il 615 e 16, lasciando già, come vedemmo, proclamato erede il proprio
figlio Adaloaldo, che allora aveva dodici anni. Cominciò quindi di
fatto a governare la madre Teodolinda, continuando a favorire con
ardore il cattolicismo, e promovendo anche la cultura, in ispecie
l'architettura dei Longobardi. S'apriva così la strada alla loro totale
fusione coi Romani. Ricchi donativi essa fece alle chiese, e molte
ne costruì, fra le quali viene ricordata la basilica di S. Giovanni a
Monza, annessa al palazzo che Teodorico aveva costruito, e che ella ora
restaurò ed ampliò. Fu in questo palazzo appunto che Teodolinda fece
dipingere quelle pitture da cui Paolo Diacono potè darci la descrizione
del vestire dei Longobardi. Nella basilica s'andò poi raccogliendo
un vero tesoro, nel quale erano sopra tutto notevoli tre corone. Una
di esse, tempestata di pietre preziose, con Cristo e gli apostoli
scolpiti, aveva un'iscrizione, che la diceva offerta da Agilulfo _Rex
totius Italiae_; il che fa credere che fosse di tempi posteriori, non
sapendosi che egli abbia mai avuto un tal titolo. Questa corona venne
da Napoleone I portata a Parigi, dove fu rubata e sparì. Un'altra,
anch'essa di tempo posteriore, ha poca importanza. Celebre sopra tutte
è invece quella che fu chiamata la corona di ferro, perchè dentro
al cerchio d'oro, scolpito a frutta e fiori, con smalti e ventidue
gioielli, specialmente perle e smeraldi, v'è un sottile cerchio di
ferro, che dicesi formato da uno dei chiodi coi quali Gesù Cristo fu
confitto sulla croce. Con essa vuolsi che fosse coronato Agilulfo; e
certo furono più tardi, per molto tempo, coronati i re d'Italia.
Un fatto notevole, avvenuto in questo tempo, fu anche la protezione da
Agilulfo e da Teodolinda accordata a S. Colombano, celebre nella storia
della Chiesa e della cultura. Egli nacque verso il 543 nell'Irlanda,
dove il Cristianesimo aveva suscitato un ardore, un entusiasmo
indicibile, e la cultura cristiana era in quei conventi progredita in
modo veramente maraviglioso, diffondendosi di là nel resto d'Europa.
Animato dall'ardente spirito di propaganda, S. Colombano andò in
Francia, donde fu poco dopo cacciato, per avere aspramente biasimata
la condotta di quei sovrani che, sebbene cattolici, erano crudelissimi.
Lo lasciarono tuttavia tranquillo a Bregenz, sul lago di Costanza. Poco
dopo egli andò più oltre verso il mezzogiorno, restando nella Svizzera
qual suo rappresentante il discepolo S. Gallo, irlandese anch'egli, che
dette il suo nome alla celebre abbazia ed al Cantone in cui si fermò.
Venuto in Italia, verso il 613, fu cordialmente accolto da Agilulfo
e da Teodolinda, sebbene continuasse a scrivere contro gli Ariani.
Fondò il convento di Bobbio, famoso per molti codici ivi raccolti,
che sono oggi sparsi nella Vaticana, nell'Ambrosiana, nella biblioteca
di Torino, e rendono testimonianza del grande amore di lui e de' suoi
seguaci per gli studi classici. La protezione da Agilulfo concessa a
questo santo; l'aver lasciato convertire al cattolicismo i suoi due
figli; l'aver concesso larghi donativi alle chiese, continui favori
ai vescovi per lo innanzi perseguitati dai Longobardi, sembrerebbero
avvalorare la opinione di Paolo Diacono, che anch'egli fosse divenuto
cattolico. Pure è negli storici generalmente prevalso l'avviso
contrario, che cioè questa sua condotta fosse dovuta piuttosto al poco
ardore, quasi alla indifferenza religiosa dei Longobardi, all'azione
efficacissima esercitata da Teodolinda sul marito, ed a quella che
Gregorio I esercitò sempre su tutti.


CAPITOLO V
Rotari re — Eraclio imperatore — Guerra persiana — Maometto —
L'_Ecthesis_ — L'editto di Rotari

L'Italia andava adesso soggetta ad una doppia crisi. Erano scomparsi
dalla scena due uomini grandi, quali Agilulfo e Gregorio I. La
conversione già cominciata dei Longobardi aveva seminato fra di loro
la discordia, e questa fece ben presto scoppiare una ribellione contro
il giovane Adaloaldo, che era cattolico, e se ne dovette ora fuggire a
Ravenna. Gli successe Ariovaldo il quale era invece ariano (625). Di
lui, che pure regnò diversi anni, sappiamo assai poco; ed ignoriamo
ancora che cosa pensasse o facesse in questo mezzo Teodolinda. Si
direbbe che assistesse omai spettatrice impassibile a tutti i mutamenti
che seguivano. Nel 628 cessò di vivere, ed Ariovaldo, che aveva sposato
la figlia di lei, Gundeberga, morì verso il 636. Allora fu concessa
alla sua vedova, come già a Teodolinda, facoltà di scegliersi un
secondo marito, che sarebbe stato il nuovo re. Ed anche questa volta la
scelta riuscì felice, essendo per essa salito sul trono Rotari, che fu
il re legislatore dei Longobardi.
Intanto, per le difficili condizioni dell'Impero, occupato nella guerra
persiana divenuta sempre più grossa e minacciosa, non solamente non
si potevano mandare aiuti a Ravenna, ma si mutavano continuamente gli
esarchi, per evitare che sorgesse in loro l'ambizione di rendersi
indipendenti. Infatti a Smeraldo era successo quel Giovanni, che
secondo alcuni era chiamato _Lemigius Thrax_ (611-616), ed a questo
un Euleterio (616-620), il quale pensò di assumere in proprio nome
il governo dell'Esarcato. Ma i soldati allora gli si ribellarono, lo
uccisero e ne mandarono la testa a Costantinopoli, di dove fu spedito
un altro esarca.
In questo mezzo grave assai era la crisi che traversava l'impero, ed
essa naturalmente si ripercoteva sull'Italia. Il 5 ottobre 610 era
morto l'imperatore Foca, al quale Smeraldo aveva eretto la celebre
colonna nel Foro Romano, ed il cui regno crudele era stato turbato
da continue cospirazioni. A lui succedeva Eraclio (610-41), un vero
carattere orientale, che passava da una straordinaria attività ad una
straordinaria indolenza. Infatti, salito che fu sul trono, pareva nei
primi dieci anni che se ne stesse a guardare, senza impensierirsi del
rapido avanzarsi dei Persiani, aiutati dagli Avari. Pure il pericolo
era grande davvero, perchè i Persiani occuparono la Siria, entrarono
in Damasco, poi nella Palestina, e s'impadronirono della stessa
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