Le invasioni barbariche in Italia - 16

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persistente con Giovanni; nè l'Imperatore mandava aiuti di sorta. Così
corsero ancora due anni, nei quali i Bizantini non fecero altro che
accrescere sempre più il malcontento delle popolazioni, con vantaggio
dei Goti, i quali perciò andavano ripigliando nuove terre, fra le altre
Rossano e Perugia. Belisario era quindi in uno stato di sconforto
disperato, tanto che sua moglie Antonina si decise a partire per
Costantinopoli, sperando d'ottenere per lui i necessari aiuti, mediante
la protezione che aveva sempre avuta di Teodora; ma, arrivata colà,
trovò invece che questa era già morta il 1º luglio 548. E non potendo
far altro, chiese ed ottenne il ritorno del marito, che nel 549 era
da capo a Costantinopoli, carico al solito di ricchezze accumulate
nella guerra, ma con la sua antica gloria molto offuscata, giacchè
nulla d'importante aveva potuto concludere in questa seconda campagna
d'Italia. E tutto ciò appariva anche assai più evidente, se si faceva
il paragone cogli strepitosi successi ottenuti nella prima. Egli restò
a Costantinopoli, sempre onorato, ma senza mai più avere, per dieci
anni continui, il comando dell'esercito.
Nel 559 però gli Unni, essendo entrati nella Media e nella Tracia,
cominciarono a fare stragi crudeli, minacciando la stessa città di
Costantinopoli. Ed allora Giustiniano, che era già vicino ai 77 anni, e
s'era per modo spaventato, che voleva fuggire dalla capitale, ricorse
di nuovo all'ormai vecchio, ma pur sempre glorioso capitano. Questi
aveva già superato i 54 anni, e i dolori patiti lo avevano assai
fiaccato; pure, senza esitare, corse alle armi, raccolse alcuni de'
suoi veterani e parecchi contadini; formò così un piccolo esercito, e
con un nuovo miracolo d'audacia, di accortezza e di valore strategico,
respinse un nemico assai più numeroso, che lasciò 400 morti sul campo
di battaglia. E fu allora appunto che Giustiniano, sopraffatto dalla
puerile o per dir meglio senile gelosia, lo richiamò, preferendo
accordarsi definitivamente col nemico mediante danaro, piuttosto che
ottenere una pace onorevole che avrebbe fatto rivivere l'antica gloria
del suo invidiato generale. Questi fu di nuovo accolto dal popolo come
un trionfatore, ma restò poi sempre lontano dagli affari e dal comando
dell'esercito. Ciò dette ai suoi nemici tanto ardire, che lo accusarono
di cospirazione contro lo stesso Imperatore, il quale da capo lo privò
d'ogni suo avere, ponendolo anche sotto sospettosa vigilanza. Ma alcuni
mesi dopo, forse ravveduto o pentito, restituì ad esso gli emolumenti
di cui lo aveva privato (luglio 563). Nel 565 il valoroso capitano
trovò finalmente pace nella tomba, circa nove mesi prima che morisse
l'Imperatore, da lui così fedelmente servito. La leggenda, secondo la
quale egli avrebbe finito la sua vita, cieco, povero, seduto alla porta
d'una chiesa, con una scodella di creta in mano, chiedendo limosina,
_Date obolum Belisario_, si formò tra i secoli XI e XII; ma di essa
nulla sanno i contemporanei, i quali tacciono quasi affatto degli
ultimi suoi anni infelici. Assai probabilmente, come fu già osservato,
si fece confusione con quello che avvenne a Giovanni di Cappadocia, che
realmente finì limosinando, non però cieco.


CAPITOLO IX
La disputa dei _Tre Capitoli_ — Ritorno di Narsete in Italia — Disfatta
di Totila e di Teja — Fine del regno ostrogoto

La definitiva ritirata di Belisario dagli affari segna la fine, anzi
si può dire il fallimento della politica estera di Giustiniano. Da
ogni parte infatti i barbari sembravano ora avanzarsi di nuovo. Più
di tutti orgogliosi e sicuri del loro avvenire parevano i Franchi; la
fortuna di Totila sembrava anch'essa rapidamente risorgere. In Roma
v'era una guarnigione di soli 3000 soldati imperiali, poco o punto
pagati, privi di tutto, e però scontentissimi, i quali avevano ucciso
il generale Conon, che sembrava voler come Bessa, in mezzo alla comune
calamità, far guadagno colla vendita del grano. Li comandava ora
Diogene, stato già della guardia di Belisario, e che alla testa de'
suoi aveva respinto gli ultimi ripetuti assalti di Totila. Questi potè
tuttavia occupar Porto, di dove riuscì ad affamare la Città, fino a che
alcuni soldati isaurici, stanchi di soffrire senza mai avere le paghe,
la tradirono al nemico, aprendo la Porta S. Paolo, per la quale esso
entrò, facendo strage della guarnigione. Diogene si salvò con parte
de' suoi; altri 400 si chiusero nella tomba d'Adriano, ma dovettero
poi anch'essi arrendersi per fame, unendosi ai soldati di Totila (549),
che si mostrò generoso verso di loro, giacchè si riteneva omai sicuro
di vincere, e cercava perciò di vivere in armonia colla popolazione
romana. Diverse città s'andavano infatti ogni giorno arrendendo a
lui come fecero Rimini e Taranto, come promettevano di fare, se non
venivano presto soccorse dagl'Imperiali, anche Civitavecchia ed Ancona.
Egli pensò quindi d'andare verso il sud, prendere le isole, e colla
flotta rendersi padrone del mare, per interrompere le comunicazioni
degl'Imperiali con Costantinopoli. Passato quindi il Faro, sbarcò
in Sicilia, e trovando resistenza a Messina, penetrò nell'interno
dell'isola, e ne occupò facilmente la campagna.
Questo sarebbe stato per Giustiniano il momento di provvedere con
energia alla guerra, se non voleva addirittura rinunziare all'Italia.
Sfortunatamente però egli, già assai vecchio e più o meno invaso sempre
da una manìa religiosa, s'era da qualche tempo siffattamente immerso
nella teologia, che per essa trascurava i bisogni più urgenti della
guerra e dello Stato. Aveva l'ambizione d'essere il sostenitore della
vera fede, il restauratore della unità non solo dell'Impero, ma anche
della Chiesa. Se non che l'Oriente e l'Occidente non riuscirono mai
ad andar pienamente d'accordo sul concetto fondamentale della suprema
autorità religiosa. Nelle cose della fede il Papa non poteva ammettere
nè superiori, nè uguali, qualunque fossero d'altronde i meriti e i
servigi che altri avesse resi alla Chiesa. Giustiniano invece, che
faceva derivare la sua autorità politica non dal popolo, dal Senato
o dall'esercito, ma direttamente da Dio, sebbene riconoscesse la
superiorità del potere spirituale sul temporale, riteneva che l'uno
e l'altro dovessero metter capo all'Imperatore. E però voleva, anche
nelle cose della fede, stare alla testa della Chiesa, dei sacerdoti
e dei credenti. «La nostra principale sollecitudine, così egli
scriveva, è rivolta ai veri dogmi di Dio, alla onestà del clero.»
Condannava perciò gli eretici e le dottrine eterodosse; non voleva
riconoscere valore definitivo ai decreti dei Sinodi e del Papa, ma solo
a quelli del Concilio ecumenico, convocato da lui, che ne sanzionava
e promulgava le deliberazioni. A tutto ciò Roma non poteva mai
consentire.
Animato costantemente da siffatti pensieri, Giustiniano s'era da
un pezzo stranamente esaltato per la scoperta che era stata fatta
d'alcuni errori o piuttosto inavvertenze in cui era caduto il Concilio
di Calcedonia, e voleva avere la gloria di correggerli: a tal fine
si chiudeva assai spesso nel suo studio a meditare, a discutere
ardentemente con preti e con frati. La questione di cui da qualche
tempo s'occupava, è nota sotto il nome dei _Tre Capitoli_ o sia
tre punti controversi. Essa era molto oscura, molto intricata, e
senza grande valore teologico; ma aveva per lui anche una importanza
politica. Ora come sempre l'Imperatore desiderava piena concordia
con Roma; ma questa concordia, appena veniva conclusa, suscitava la
discordia in Oriente, dove, come in Egitto, numerosissimi e passionati
erano i seguaci della dottrina monofisita, fieramente avversata
dalla Chiesa romana. La nuova controversia versava sulle dottrine di
tre vescovi orientali, nelle quali s'erano scoperte tracce evidenti
d'eresia, sebbene il Concilio di Calcedonia non le avesse notate.
Pare che Teodoro Ascida, iniziatore di questa disputa, facesse sperare
all'Imperatore che, avendo quei tre vescovi aspramente combattuto la
dottrina monofisita, il condannarli gli avrebbe potuto indirettamente
conciliare i seguaci di essa, senza irritare la Chiesa romana. E
Giustiniano, persuaso, non senza ragione, che i tre vescovi avessero
veramente errato, ne fu come infatuato, ed «In nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo», anatemizzò i _Tre Capitoli_, invitando
i Monofisiti a fare adesione alla vera dottrina da lui esposta (544 e
551). Ma s'era questa volta pienamente ingannato. Il suo decreto non
gli guadagnò punto i Monofisiti, e suscitò invece una viva opposizione
in Occidente, dove si vedeva in esso un'offesa all'autorità del
Concilio di Calcedonia (451), ed a quella del Papa. Oltre di che, i
tre vescovi condannati col decreto imperiale, non solo erano stati
rispettati a Calcedonia, ma erano già morti da un secolo. A che dunque
turbare adesso le loro ceneri? La disputa sollevata era per lo meno
inopportuna, e senza pratico valore. Pure Giustiniano non sapeva
pensare ad altro, e non voleva in nessun modo recedere.
Chi si trovava ora peggio di tutti era papa Vigilio, il quale, per
gl'intrighi di Teodora salito sulla cattedra di S. Pietro, era stato
chiamato a Costantinopoli, dove pareva che fosse fra l'incudine
ed il martello. Se infatti condannava i _Tre Capitoli_, destava
un vespaio in Occidente; se non li condannava, si poneva in lotta
coll'Imperatore. E finì col cedere a questo, pubblicando nel 548 la
condanna dei _Tre Capitoli_. Ma quando vide la fiera tempesta che
si sollevò in Occidente contro di lui, della quale Giustiniano non
teneva nessun conto, mutò avviso, ponendosi in aperta opposizione con
l'Imperatore. Non intervenne nel Concilio ecumenico, del quale egli
stesso aveva suggerito la convocazione, anzi protestò contro di essa
(553). Il Concilio, come era da aspettarsi, condannò esplicitamente i
_Tre Capitoli_; e ne seguirono disordini, nei quali fu in pericolo la
vita stessa del Papa, che, dopo aver sopportato gravi violenze, venne
confinato in un'isola del Mar di Marmara. Dopo sei mesi finalmente,
stanco delle patite calamità, oppresso dagli anni, tormentato dal mal
della pietra, cedette, ed il 23 di febbraio 554 pubblicò la condanna
dei _Tre Capitoli_. Potè allora ripartire per l'Italia; ma appena che
fu arrivato in Sicilia, morì il 7 gennaio del 555.
Pur tali erano allora la potenza della Chiesa e l'autorità dei
Papi, che anche in questi anni di debolezza e di patite violenze,
si ottennero per essa dall'Impero nuove e notevoli concessioni.
Nel 554 infatti era stata pubblicata quella Prammatica Sanzione,
che sanzionando definitivamente il diritto giustinianeo in Italia,
concedeva al clero nuova autorità anche nelle cose temporali. I giudici
dovevano essere eletti dai Vescovi e dai principali cittadini; nei
pesi e nelle misure si dovevano osservare le norme fissate dai Vescovi
e dal Senato. E tutto ciò dopo molte altre concessioni fatte anche
prima. Sin dal 546 era stato deciso che il clero doveva esser giudicato
dai soli tribunali ecclesiastici. In molti casi si poteva dai giudici
ordinari appellare al Vescovo, che diveniva così come una specie di
tribuno della plebe: a lui era affidata la cura dell'annona, degli
edifizi pubblici, degli acquedotti. Di certo tutte queste concessioni
erano fatte ai Vescovi come ufficiali dipendenti dall'Impero. Ma la
Chiesa le accettava senza discutere, e quando l'autorità dell'Impero
cominciò a decadere, ed essa potè sempre più affermare la propria
indipendenza spirituale, una uguale indipendenza si estese naturalmente
anche all'esercizio di quelle temporali facoltà che, senza riflettere
alle inevitabili conseguenze, le erano state concesse. L'Impero aveva
dato alla Chiesa le armi con le quali essa doveva poi combatterlo.
E la Prammatica Sanzione che poneva come il suggello a tali e tante
concessioni, era stata pubblicata da Giustiniano, come in essa è detto
esplicitamente, per seguire i consigli di quello stesso papa Vigilio
che egli aveva così maltrattato, così umiliato!
Giustiniano, è vero, poteva esser lieto d'aver trionfato nella
questione dei _Tre Capitoli_, essendo riuscito a farli condannare
dal Papa; ma era ben lungi dall'avere ottenuto lo scopo finale che
s'era prefisso, giacchè egli non aveva guadagnato alla sua causa un
solo Monofisita, e s'era invece sempre più alienato l'animo delle
popolazioni italiane. La lotta religiosa da lui provocata aveva inoltre
messo in chiaro, che sotto i Bizantini il Papa non era, non poteva
essere libero. Per sei anni infatti Vigilio era stato costretto a
fermarsi in Costantinopoli, dove risiedeva il Patriarca a lui avverso,
ed era stato malmenato dall'Imperatore, che lo aveva trattato come un
suo dipendente.
Certo la condotta di papa Vigilio era stata poco onorevole, e risultò a
grave danno della Chiesa, che dopo di lui soffrì circa un mezzo secolo
d'oscurità e di decadenza fino a che non venne a sollevarla Gregorio
Magno. Ma in tutto ciò il procedere di Giustiniano fu assai imprudente,
e causa non ultima della caduta del dominio bizantino in Italia e della
venuta dei Longobardi. Il vero è che egli voleva ricostituire l'unità
dell'Impero, ed i papi volevano invece fondare l'unità e l'autorità
universale della Chiesa cattolica; ma nessuno di questi due disegni
poteva essere pienamente attuato, perchè l'Oriente doveva politicamente
e religiosamente separarsi dall'Occidente.
Già da gran tempo Giustiniano, chiuso nel suo studio, era talmente
immerso nelle sue sottigliezze teologiche, che avrebbe per esse
abbandonato anche quella guerra d'Italia, con tanto ardore da lui
intrapresa, ma che con grande spargimento di sangue, con crudele rovina
delle misere popolazioni, era durata assai più a lungo, che egli non
avrebbe mai pensato. Se non che da tutte le parti gli si facevano
premure, perchè conducesse una volta a compimento la restaurazione
dell'Impero, e molti emigrati erano dall'Italia stessa venuti per
deciderlo a ciò. Il problema principale per lui era allora: trovare un
generale in capo, cui affidare quella unità di comando così necessaria
a condurre con fortuna la guerra. A Belisario, dopo gli ultimi fatti,
non era più da pensare. Elesse quindi Germano suo nipote che, avendo
sposata una nipote di Teodorico, vedova di Vitige, pareva dovesse
ispirare qualche simpatia anche nei Goti. Egli era ricco di suo, e
per poter condurre la guerra ebbe a sua libera disposizione la cassa
dell'Impero. Ben presto si vide quindi da ogni parte accorrer gente
sotto le sue bandiere, non esclusi anche alcuni Goti. Ma quando aveva
raccolto in Dalmazia buon numero d'armati, ed era pronto a partire, fu
colpito dalla morte. L'esercito rimase perciò a svernare presso Salona
(550-551).
Totila aveva intanto assediato Ancona, città assai importante per
gl'Imperiali, massime quando avessero voluto fare uno sbarco dalla
Dalmazia nell'Italia centrale. E per questa ragione il generale
Giovanni, uomo ardito ed ambizioso, che assai bene conosceva l'Italia
ed i Goti, si decise, non ostante gli ordini avuti in contrario, a
muoversi dalla Dalmazia per tentar di liberare quella città dalla parte
del mare. Messosi quindi d'accordo con Valeriano, che era a Ravenna,
riunirono i loro navigli, e nelle acque di Sinigaglia s'affrontarono
con la flotta dei Goti, i quali sul mare non avevano potuto mai
tener testa ai Bizantini, e la distrussero affatto, rimanendo padroni
dell'Adriatico, che liberamente poterono percorrere. I Goti allora,
levato l'assedio da Ancona, si ritirarono in Osimo, e Totila s'indusse
a far nuove proposte di pace, dichiarandosi pronto a lasciare la
Dalmazia e la Sicilia all'Impero, cui avrebbe anche pagato un tributo,
riconoscendone la superiore autorità. In questo modo, egli diceva, si
sarebbe impedito che tutto finisse a vantaggio dei Franchi, i quali
occupavano sempre parecchi punti importanti nell'alta Italia. Ma ormai
ogni discussione era vana, perchè Giustiniano aveva già nominato il
nuovo generale in capo nella persona di Narsete (551).
Questo celebre eunuco aveva allora circa settantatrè anni, era
curvo e piccolo della persona. Fino a sessant'anni era stato sempre
nell'amministrazione, acquistando in essa gran nome e grande perizia.
Estremamente accorto ed ambizioso, era cattolico ardente, ed aveva la
reputazione d'essere sotto la diretta protezione della Vergine, per
la quale professava un culto speciale. Giustiniano, col suo istinto
divinatore, lo aveva nominato generale la prima volta, quando era
già arrivato a sessant'anni, senza aver mai avuto occasione di dare
una prova qualunque delle grandi qualità militari che poi mostrò di
possedere, e delle quali nessun altro s'era fino allora accorto.
Mandato in Italia quando v'era sempre Belisario, non aveva potuto
allora far conoscere il suo valore, perchè, venuto subito in urto col
comandante in capo, aveva più che altro recato danno all'esito della
guerra. Pure dimostrò un singolare ascendente non solo sui soldati,
ma anche sui generali suoi compagni d'arme. Questo valse sempre più a
confermar l'Imperatore nella grande opinione che di lui s'era come per
istinto formata. E perciò lo mandava ora nuovamente in Italia, generale
in capo, a rialzare le sorti della guerra e dell'Impero. Narsete, che
era anch'egli ricchissimo, e sapeva come cavar danari dall'Impero,
pensò innanzi tutto di porre insieme un grosso esercito, non parendogli
punto sufficiente quello che era stato già riunito in Dalmazia. Fece
quindi leva di uomini a Costantinopoli, nella Tracia, nell'Illirico.
Raccolse anche 2500 Longobardi, i quali menaron seco altri 3000 armati,
ed erano comandati da Audoino, padre di quell'Alboino, che sedici
anni più tardi occupò coi suoi l'Italia; raccolse 3000 Eruli; ebbe
a suo comando Gepidi, Unni, perfino Persiani. E con queste genti si
recò nella Dalmazia, per unirsi a coloro che già v'erano, ordinarli,
organizzarli tutti, e partire poi per l'Italia.
Sebbene gl'Imperiali fossero ora padroni dell'Adriatico, pure non
avevano naviglio capace di trasportare un grosso esercito. In ogni caso
dava pensiero il pericolo d'una possibile tempesta o d'un improvviso
assalto dei nemici contro navi da trasporto, cariche d'uomini e di
materiale da guerra. Narsete decise quindi d'avanzarsi per terra, lungo
la costa, accompagnato per mare da navi con vettovaglie, e di esse si
giovò anche per traversare i grossi fiumi come il Tagliamento, l'Isonzo
e la Brenta. Continuando il suo cammino, evitò i luoghi fortificati, e
le terre occupate dai Franchi. Verona, che era tenuta dai Goti, sotto
il comando del valoroso generale Teja, si trovava assai lontana. E così
gl'Imperiali poterono arrivare sicuri fino a Ravenna, poi a Rimini,
ove, disfatta una parte della guarnigione che uscì a sfidarli, ucciso
il generale che la comandava, continuarono verso il sud per la via
Flaminia. L'abbandonarono però nel punto in cui essa, allontanandosi
dal mare, ripiega verso l'Appennino, che traversa al passo detto del
Furlo o di Pietra Pertusa. È questo una specie di tunnel naturale,
fortificato e tenuto allora dai Goti, difficilissimo quindi a
sforzarlo. Narsete lo evitò, proseguendo la sua marcia lungo il mare, e
volgendo poi a destra, raggiunse di nuovo la via Flaminia. Passato che
ebbe l'Appennino, pose il campo là dove si distende una vasta pianura,
tra Scheggia e Todino, che distano fra loro circa quindici miglia: ivi
dette la sua prima grande battaglia.
Totila si trovava allora presso Roma, aspettando che le genti di Teja
lo raggiungessero. Ed arrivata che fu la più parte di queste genti,
s'avanzarono insieme contro gl'Imperiali, sebbene li sapessero in
forze preponderanti. Narsete, esaminato il luogo, mise un manipolo
di 50 uomini sopra un piccolo colle da lui riconosciuto come il punto
strategico del campo. Quei pochi militi, durante una giornata intera,
difesero il colle con un valore, con un eroismo degno degli antichi
Romani, respingendo i ripetuti assalti della cavalleria gota. Narsete
aveva messo nel centro i barbari, dei quali poco si fidava, ordinando
che, scesi da cavallo, combattessero a piedi, acciò più difficilmente,
per paura o tradimento, potessero darsi alla fuga. A sinistra ed a
destra erano i Romani, ed in ciascuna delle due ali si trovavano 4000
arcieri che, contro l'uso adottato da Belisario, combattevano anch'essi
a piedi. Cinquecento cavalieri erano a sostegno dell'ala sinistra,
distendendosi verso il colle, che abbiam visto già occupato come punto
strategico del campo. Mille altri cavalieri eran tenuti in riserva,
pronti ad ogni evento.
Il concetto di Narsete era: attendere l'assalto del nemico, il quale,
trovando più debole il centro, avrebbe contro di questo diretto
lo sforzo maggiore, e così, avanzandosi, sarebbe stato facilmente
circondato dalle due ali. Totila che aveva allora indugiato, per
aspettare altri aiuti da Teja, giunti che furono gli ultimi 2000
uomini, cominciò la battaglia. Gli arcieri imperiali fecero grande
strage dei Goti. I Longobardi e gli Eruli, dopo un momento di
esitazione, assalirono anch'essi con gran vigore il nemico, che volse
le spalle. E la cavalleria gota, su cui Totila aveva fatto il maggiore
assegnamento, si dette a così precipitosa fuga, che molti dei fanti
morirono calpestati dai cavalli. Egli stesso, ferito gravemente, si
dovè ritirare dal campo, e morì nella capanna d'un villaggio, detto
allora _Caprae_, ora Caprara, a quindici miglia dal luogo della
battaglia, fra Gubbio e Tadino (552).
I barbari dell'esercito imperiale, sopra tutto i Longobardi,
insofferenti della disciplina, si dettero ad ogni eccesso,
saccheggiando, bruciando le capanne dei contadini, violando le donne,
suscitando un tale malcontento, che Narsete, il quale non era di certo
nè mite, nè pietoso, si dovette decidere a disfarsi dei Longobardi.
Mediante buona somma di danaro li indusse quindi a tornarsene a
casa, col loro seguito, per la via delle Alpi Giulie, accompagnati
da Valeriano. Questi voleva nel ritorno assediare Verona; ma vi si
opposero i Franchi, che occupavano molte terre nella parte orientale
della regione transpadana, e che agl'Imperiali preferivano i Goti, più
deboli assai ed aspramente combattuti ora nell'Italia meridionale.
Oltre di che, avendo i Goti appunto consentito che i Franchi
occupassero le terre che ora tenevano in Italia, poteva a questi
sembrare atto di buona e leale politica il favorirli, ben inteso,
fino a quando il proprio interesse non avesse consigliato altrimenti.
Valeriano perciò, non volendo suscitare una seconda guerra, quando
non era anche finita la prima, si fermò, cercando solo d'impedire
che i Goti, i quali s'andavano raccogliendo sempre più numerosi nel
nord, andassero verso Roma a rinforzare i loro compagni d'arme ora
che nuovi scontri parevano inevitabili al sud. Dopo la disfatta e la
morte di Totila, essi s'erano andati adunando a Pavia, la quale sin
da quando perdettero Ravenna, era divenuta una delle loro principali
città, e colà elessero a loro re il valoroso Teja, che venne accettato
con favore universale. Questi cercò subito d'assicurarsi la sempre
incerta amicizia dei Franchi; ma riuscì solo ad ottenere che restassero
neutrali, ed anche ciò l'ottenne abbandonando ad essi il tesoro dai re
Goti raccolto a Pavia. Certo ai Franchi metteva conto di starsene ora
a guardare, aspettando che i due rivali si consumassero a vicenda, per
dar poi addosso al vincitore.
Intanto le città dell'Italia centrale e meridionale s'arrendevano
rapidamente ai Bizantini. Così fecero Narni, Spoleto, Perugia, così
fece anche la guarnigione di Pietra Pertusa. Narsete già camminava
verso Roma, occupata dai Goti, i quali s'erano concentrati presso la
Mole Adriana, che Totila aveva fortificata. Essi non erano in numero
tale da poter difendere le mura della città, ma gl'Imperiali non
erano sufficienti a circondarla. Si venne perciò da capo ad una serie
d'assalti e difese alla spicciolata, fino a che uno dei capitani di
Narsete, essendo riuscito a scalar le mura in un punto dimenticato,
potè aprire le porte ai suoi, che entrarono rapidamente. I Goti si
dettero allora alla fuga, e quelli che erano chiusi nella Mole Adriana,
poco dopo s'arresero. Così furono di nuovo mandate a Giustiniano le
chiavi di quella Roma invitta, che cinque volte, sotto questo solo
imperatore, era stata presa e ripresa.
Ne seguì un periodo di nuove stragi. Molti dei Senatori ancora
prigionieri nell'Italia meridionale, furono uccisi. E Teja macchiò la
sua fama di valoroso, facendo trucidare anche 300 giovanetti romani,
che erano stati scelti come paggi, ma che in realtà erano tenuti in
ostaggio. Il fatto è che i Goti, omai pochi e dispersi, erano come
inferociti per la disperazione; e così le più selvagge passioni si
scatenarono sulla misera Italia, di cui pareva s'avvicinasse la fine.
Alcuni di essi da Pavia andarono ad unirsi coi Franchi nel nord; altri
nel sud, sotto il comando di Aligerno fratello di Teja, si chiusero
in Cuma, dove era un'altra parte del tesoro nazionale. E Narsete vi
mandò subito un drappello de' suoi, per tentare d'impadronirsene dopo
aver preso la città. Ne mandò altri in Toscana, ad impedire che Teja,
avanzandosi di là, s'unisse col fratello e cogli altri compagni nel
sud. Ma quel valoroso riuscì ad evadere ogni ostacolo, e traversato
l'Appennino, andò oltre verso il sud, ove da capo i Goti erano in gran
numero. Una nuova battaglia era quindi inevitabile. Narsete perciò si
mosse ad incontrare Teja prima che riuscisse ad unirsi al fratello; e
lo raggiunse presso Napoli, a Nocera, sul fiume Sarno. Colà il re goto
s'era fermato, avendo alle spalle il Monte S. Angelo, e ricevendo dalle
sue navi aiuto continuo di vettovaglie. Ma queste navi lo tradirono ad
un tratto, passando ai Bizantini; ed allora egli retrocesse alquanto
fra le balze del Monte Lettere (_Lactarius_), che è parte del Monte S.
Angelo. Colà egli non poteva, per mancanza di vettovaglie, restare a
lungo; dette perciò l'ordine di attaccare. I suoi allora si spinsero
con irresistibile impeto contro il nemico, che non ebbe neppure il
tempo d'ordinarsi: si dovette perciò combattere alla spicciolata. Teja
si condusse eroicamente, alla testa de' suoi. Gl'Imperiali miravano
tutti a lui, e le loro frecce restavano infisse nel suo scudo. Di
tanto in tanto, non potendo pel grave peso più reggerlo, lo dava ad un
soldato, che glielo mutava con un altro. Ed in uno di questi momenti,
il suo petto essendo rimasto scoperto, egli venne mortalmente ferito. I
nemici allora gli tagliarono la testa, e sopra una lancia la portarono
in giro pel campo, dinanzi ai due eserciti. I Goti combatterono
ancora due giorni, ma poi s'arresero, salva la vita, con facoltà di
portar via i loro beni mobili, con l'obbligo però di non continuare
a combattere contro l'Impero. Così molti di loro passarono le Alpi,
andando a confondersi con altre genti; non pochi si sparsero per le
terre d'Italia, con la speranza di farsi dimenticare. Nè mancarono
quelli che, non avendo accettato i patti, s'andarono ad unire coi
Franchi, cercando d'indurli ad attaccare i Bizantini, i quali, essi
dicevano, dopo aver disfatto i Goti, avrebbero certamente voluto
disfare e cacciar via dalla Penisola anche i Franchi. Altri finalmente
preferirono chiudersi e difendersi, per proprio conto, in alcune città
fortificate. Così fecero quelli che erano in Crema, così un migliaio
che si rifugiarono a Pavia, così altri in altre città; ma furon tutti
prima o poi costretti ad arrendersi anch'essi. Il regno dei Goti ormai
più non esiste in Italia; colla morte eroica di Teja esso è finito.
Dopo aver fatto ancora in più punti una debole resistenza, scomparisce
affatto dalla storia.


CAPITOLO X
Morte di Giustiniano e di Belisario — Nuove difficoltà in cui si trova
l'Impero — Narsete, richiamato a Costantinopoli, non obbedisce

Questo era il momento in cui i Franchi potevano avanzarsi dalla Gallia
in Italia; ma il loro re Teudebaldo non era uomo da imprese ardite.
Consentì solo che due fratelli alamanni, i quali erano grandi del
suo regno, s'avventurassero, per proprio conto, a passare le Alpi
con un esercito di 75,000 uomini. Se vincevano, l'Italia avrebbe
fatto parte del suo regno; se perdevano, egli avrebbe respinto da sè
ogni responsabilità. I due fratelli s'avanzarono baldanzosi, perchè
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