Le invasioni barbariche in Italia - 15

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disciplina da lui imposta, e pensarono d'avvelenarlo. Liberato che fu
miracolosamente da questo nuovo pericolo, si ritirò sdegnato nella
solitudine. Ma anche colà la gente, attirata dalla fama della sua
bontà, accorse numerosissima, e così tra il 500 ed il 520 si formarono
intorno a Subiaco 12 monasteri, con capi da lui eletti. Egli se ne
stava ritirato nel sacro speco, con pochi de' suoi, presso Subiaco, al
di sopra della sua antica grotta. Nonostante però questa sua riserva,
questo gran seguito, la gelosia di quelli che facevan parte del clero
regolare non lo lasciava in pace. Ed uno di essi fece andar donne di
mala vita a tentarlo, cosa di cui S. Benedetto fu così disgustato, che
se ne andò via a Monte Cassino. Ivi trovò la statua d'Apollo con un
altare, e li fece subito demolire, fondando sullo stesso luogo il suo
principale convento, nel quale risiedette quattordici anni (529-543).
Colà venne a visitarlo Totila re dei Goti (542), prostrandosi ai
suoi piedi; ed il Santo gli rimproverò i mali recati all'Italia,
annunziandogli vicina la morte. Un anno dopo questa visita morì anche
lo stesso S. Benedetto. Poco prima era morta la sorella Scolastica, che
lo aveva seguito a Subiaco ed a Monte Cassino, menando anch'essa vita
religiosa, non molto lungi da lui, che andava a visitarla una volta
l'anno, e che volle essere sepolto vicino a lei, là dove era stato
l'altare di Apollo.
Una prova che l'opera di S. Benedetto era la creazione d'un uomo di
genio, e rispondeva ad un vero bisogno dei tempi, noi l'abbiamo nella
grande e rapida diffusione che essa ebbe, nel fatto assai notevole
che, quasi nello stesso tempo e indipendentemente da lui, Cassiodoro,
il quale aveva passato tutta la sua lunga vita negli affari politici,
iniziò anch'egli qualche cosa di simile nel suo paese nativo. A tempo
di Vitige, quando già da un pezzo Imperiali e Goti erano violentemente
venuti a conflitto fra loro, egli s'era dovuto accorgere che il
concetto di Teodorico, al quale anch'egli così lungamente aveva
dedicato tutte le forze, di fondere cioè in uno Italiani e Goti, era
un sogno contradetto dalla realtà. Essendo adunque pervenuto all'età
di 60 anni, quando aveva già raccolto le sue lettere e scritto il suo
Trattato sull'anima, si ritirò nel paese nativo, dove fondò vicino a
Squillace due conventi. Uno di essi era un semplice eremitaggio sul
colle, per chi voleva assoluta solitudine; l'altro, il vero e proprio
Convento, venne istituito poco più lungi, a _Vivarium_, presso il fiume
Pellena (539). E come S. Benedetto, nel fondare i suoi monasteri, aveva
voluto unire il lavoro manuale alla contemplazione, così Cassiodoro
unì a questa il lavoro intellettuale, dandone egli stesso l'esempio.
Infatti colà scrisse molte delle sue opere, fra le quali il comento
ai _Salmi_, e quello alle _Epistole degli Apostoli_; la _Historia
tripartita_, la quale è un compendio di tre storie della Chiesa,
che per sua commissione Epifanio tradusse dal greco. Scrisse ancora
alcune regole del ben vivere, ed il suo libro _De ortographia_, in cui
sono precetti sull'arte del comporre. Cassiodoro era di certo più un
letterato ed un retore, che un santo; non aveva le qualità d'un vero
fondatore di Ordini religiosi. Pure il suo concetto d'introdurre nei
monasteri il lavoro intellettuale, rispondeva, come quello del lavoro
manuale imposto da S. Benedetto, talmente ad un bisogno dei tempi, che
venne anch'esso accolto dai Benedettini. E così questi trascrissero
molte delle più preziose opere antiche, le quali per opera loro
vennero salvate dalla distruzione, cui sarebbero altrimenti andate
incontro. Monte Cassino divenne come un faro di civiltà, la cui luce,
riflettendosi in tutti quanti i conventi benedettini, potè in mezzo
alla oscura notte del Medio Evo rischiarare la via ad un migliore
avvenire.


CAPITOLO VIII
Totila re dei Goti — Belisario torna in Italia, ed occupa Roma — Suo
ritorno a Costantinopoli e sua morte

L'anno 540 in cui i Persiani presero Antiochia, Belisario arrivava a
Costantinopoli alla testa di 7000 uomini della sua guardia, menando
seco il tesoro dei Goti, con Vitige e gli altri prigionieri. Era il
secondo re barbarico che egli conduceva nella capitale orientale. Aveva
allora 36 anni; era quindi nel pieno vigore della sua forza, come era
nel colmo della fortuna e della gloria. Ma pur troppo si cominciavano
a vedere i non lontani prodromi di quelle sventure che dovevano
lacerargli il cuore, avvelenarne l'esistenza, invecchiandolo prima del
tempo. Non gli fu concesso un trionfo ufficiale, come quello avuto al
ritorno dall'Africa, sebbene il popolo lo accogliesse di fatto come
un vero trionfatore, quale egli era certamente. La sua prima sventura
fu il sospetto della infedeltà della moglie, la quale amareggiò molto
la sua esistenza. Partendo per la guerra persiana, con quest'atroce
tormento nell'animo, perseguitato da Teodora, che proteggeva Antonina,
non potè concludere gran cosa. Tornato a Costantinopoli, e non
essendogli possibile avere più dubbi sulla sua domestica sventura, dovè
decidersi ad imprigionare la moglie infedele, che pure amava. Ma il
peggio era, che Antonina aveva saputo con grandissima arte guadagnarsi
l'animo di Teodora, secondandola ne' suoi intrighi, aiutandola a
perseguitare i suoi nemici.
Da un pezzo era nella Corte divenuto potentissimo Giovanni di
Cappadocia, uomo dato a tutti i vizi, divorato dall'ambizione, ma
attissimo a riscuotere tasse, ricorrendo per esse anche ai tormenti
più crudeli: dicevasi che per evitarli, qualcuno si fosse perfino
impiccato. Giustiniano lo proteggeva, quale strumento utilissimo ad
aumentare le entrate dello Stato, e Teodora invece l'odiava per la
sua ambiziosa prepotenza. Antonina, che voleva conquistare sempre
più il favore dell'Imperatrice, riuscì, con singolare accorgimento, a
fargli confessare i suoi ambiziosi disegni, le sue mire segrete contro
lo stesso Imperatore. In conseguenza di che, Giovanni fu mandato in
esilio, ridotto alla miseria, costretto a vestir l'abito ecclesiastico,
ad andare limosinando. Pare anzi, come osserva l'Hodgkin, che questa
sua fine infelice desse origine alla leggenda che fece poi attribuire
a Belisario una fine non molto diversa. Certo è che Teodora sempre più
grata ad Antonina, sempre più avversa a Belisario, l'obbligò a liberare
la moglie infida ed a riconciliarsi con essa, nè si stancò mai di
tormentarlo e di umiliarlo.
Intanto, dopo la partenza di Belisario dall'Italia, donde aveva menato
seco la sua guardia ed i migliori capitani, le cose andavano nella
Penisola di male in peggio. Non v'era un capo autorevole che potesse
comandare, non s'era ancora ordinata una nuova amministrazione. Tutto
rimaneva affidato a capitani militari, sparsi coi loro soldati, in
diverse città, ed ai riscuotitori delle imposte. Le entrate andavano
rapidamente diminuendo, nè si poteva sperare danaro da Costantinopoli,
dove bisognava provvedere alla guerra persiana, ed a mantenere,
con sussidi continui, tranquille le vicine e minacciose popolazioni
barbariche. Si ricorreva quindi in Italia ad ogni più misera e meschina
arte per risparmiare. Si tosavano le monete; si ritardavano le paghe
e le promozioni dei soldati; si vendevano gli uffici; si lasciavano
in abbandono le opere pubbliche più necessarie, come gli acquedotti;
si trascuravano per tutto le più urgenti riparazioni. Lo scontento era
quindi divenuto grandissimo nei soldati, che cominciavano a disertare,
o cercavano rifarsi sulle popolazioni, che avevano assai contribuito al
trionfo delle armi imperiali. Ridotte ora all'estremo d'ogni miseria,
esse finivano col rimpiangere i tempi in cui erano state sotto il
dominio dei Goti, la fortuna dei quali cominciava perciò rapidamente a
risorgere.
Ildibaldo infatti, che era rimasto con soli 1000 uomini, vide a un
tratto accrescere il suo esercito, e fu padrone di quasi tutta l'Italia
settentrionale. Ma neppur tra i Goti le cose procedevano senza gravi
disordini. Essi, che non avevano mai potuto formare in Italia una
vera e propria nazione, apparivano sempre più come un esercito di
ventura, sotto il comando di capitani che non andavan d'accordo fra
di loro. Tra la moglie di Uraias, il quale aveva ricusato il comando
supremo, e quella d'Ildibaldo, che lo aveva accettato, la gelosia
era divenuta tale che si comunicò ai mariti. In conseguenza di che il
primo venne ucciso dal secondo, e questi fu poi, a sua volta, ucciso
nella primavera del 541. Insieme coi Goti erano in Italia venuti
parecchi Rugi, i quali non s'erano potuti mai interamente amalgamare
coi loro compagni; ed ora innalzarono sugli scudi Erarico, che fu
dai Goti accettato. Ma questi non seppe far altro che trattare con
Costantinopoli, tentando di costituirsi un piccolo Stato nell'Italia
settentrionale, tra i Franchi ed i Bizantini, ponendosi alla mercè
dell'Imperatore, tradendo così tutte le speranze de' suoi soldati, i
quali, dopo cinque mesi d'inglorioso governo, lo uccisero, avendo prima
offerto la corona a Baduila, noto nella storia col nome di Totila.
Questi era parente d'Ildibaldo, ed accettò a condizione che levassero
di mezzo Erarico, il che essi fecero.
Totila rialzò il destino dei Goti, alla testa dei quali si trovò
per undici anni, combattendo sempre gloriosamente. Egli fu il più
nobile fiore del valore ostrogoto, dimostrandosi costantemente
capitano non solo assai coraggioso, ma ancora di molta capacità
strategica e politica. Mentre infatti i Bizantini, per sostenersi
in Italia, taglieggiavano, saccheggiavano le popolazioni, favorendo
così i latifondisti, che formavano il loro sostegno, sebbene poi
scontentassero anche questi colle continue tasse, Totila invece
s'appoggiava sul popolo, sui contadini e coloni, trattandoli meglio
che poteva, accogliendo nel suo esercito gran numero anche di schiavi.
«Ai contadini, dice Procopio, egli in tutta Italia non recò alcuna
molestia; ma invitolli a lavorare liberamente la terra, secondo
il consueto, pagando a lui i tributi, che già prima solevano dare
all'erario ed ai proprietari» (III, 13). Aggravava invece la mano sui
latifondisti, che spesso espropriava; s'impadroniva delle loro rendite,
ed anche di quelle della Chiesa, che era già fin d'allora uno dei
principali latifondisti, e che perciò fu a lui doppiamente avversa,
essendo i Goti di religione ariana.
I generali imperiali, radunati a Ravenna, decisero d'avanzarsi
con 12,000 uomini per assalire Verona e Pavia; ma dopo un primo
fortunato successo, dovettero retrocedere a Faenza. Totila, che
aveva potuto raccogliere già 5000 uomini, prese allora l'offensiva,
passando il Po, e con abile strategìa riuscì ad infligger loro una
vera disfatta, obbligandoli a ricoverarsi nella città. Dopo di che
traversò risolutamente l'Appennino, con l'intendimento d'impadronirsi
dell'Italia meridionale, dove poteva sperare maggiore facilità di
trovar vettovaglie, aiutato anche dalla vicinanza della Sicilia. Di
là avrebbe potuto minacciare Roma, costringendo il nemico a dividere
le sue forze. Ma intanto un primo tentativo d'assediare Firenze con
parte dei suoi, fallì, perchè i Bizantini, avuto soccorso da Ravenna,
uscirono dalle mura e lo respinsero. Furono però poco dopo disfatti, e
così Totila potè procedere sicuro fino a Napoli (542). Gl'Imperiali si
trovavano allora padroni solamente di Firenze, Spoleto, Perugia, Roma,
Ravenna e Napoli. La presa di quest'ultima città avrebbe avuto pei
Goti una grandissima importanza, sia perchè era una delle principali
dell'Italia meridionale, ed in relazione colla Sicilia, sia perchè di
là potevano facilmente cominciare le operazioni contro Roma. Totila
portò quindi presso Napoli il suo quartier generale, inviando nello
stesso tempo alcuni de' suoi verso le Puglie, la Basilicata e le
Calabrie. Napoli aveva solo una guarnigione di 1000 fanti; e però
Giustiniano, riconoscendone l'importanza strategica, vi spedì alcune
navi con soccorso di uomini e di vettovaglie. Totila però seppe
tener testa a tutto, e favorito da una tempesta, che ritardò l'arrivo
d'una parte dei soccorsi, sconfisse il nemico e costrinse la città ad
arrendersi (543). La guarnigione fu lasciata libera, e nulla soffrirono
gli abitanti, avendo egli, con ordini severissimi, mantenuta la più
stretta disciplina fra i suoi Goti, coi quali si apparecchiava ora
all'assedio di Roma.
A Totila pareva d'esser vicino ad impadronirsi di tutta Italia,
giacchè i Bizantini possedevano ora solo alcune poche città, i loro
generali non andavano d'accordo, e già scrivevano a Costantinopoli,
come se lo stato delle cose fosse disperato. Egli invece, pieno di
fiducia, scriveva al Senato e spargeva ovunque proclami, invitando le
popolazioni a fare con lui causa comune. Tutto ciò finì col decidere
Giustiniano a rimandar di nuovo in Italia Belisario (544), che non era
però più quello d'una volta: infinite erano state le sue traversie,
le ingiuste persecuzioni da lui sofferte. Affranto dai dolori e dalla
più nera ingratitudine, costretto ad umiliarsi dinanzi alla moglie che
lo aveva tradito, accusato d'aver rubato parte del tesoro goto, per
sopperire alle sue spese eccessive, era stato richiamato dall'Oriente,
dove, oppresso da tanti dolori, non gli aveva arriso la fortuna della
guerra. Oltre di ciò la sua guardia era stata disciolta, ed egli
privato d'ogni ufficio, d'ogni emolumento. Era vietato agli amici
d'avvicinarlo; e quindi, abbandonato da tutti, si vedeva girar solo
e pensoso per le strade di Costantinopoli, col sospetto di potere da
un momento all'altro essere assassinato. Ed ora che la peste aveva
desolato l'Impero, che lo stesso Imperatore ne era stato colpito,
ed a fatica era scampato dalla morte; ora che tutto anche in Italia
pareva andasse a rovina, bisognò di nuovo ricorrere a lui, restituirgli
parte della sua fortuna, ridargli il comando supremo delle forze nella
Penisola. Non potè però riavere la sua guardia, che era stata già
disciolta; non gli si potè costituire un nuovo esercito, nè dar danari:
doveva a tutto provvedere da sè; la guerra doveva alimentare la guerra.
Ciò nonostante, dimenticando ogni cosa, si rimise con ardore all'opera,
e raccolse a sue spese nella Tracia un corpo di 4000 Illirici, che
condusse subito nella Dalmazia, dove li organizzò ed esercitò. Di là
riuscì a far pervenire qualche soccorso di uomini e vettovaglie alla
guarnigione assediata e pericolante in Otranto, per avere in sue mani
un punto da cui ricominciare la conquista dell'Italia meridionale.
Ed infatti i Goti che assediavano la terra, quando videro che di
mezzo alle loro file erano potuti passare i soccorsi, si ritirarono
per andarsi a ricongiungere con Totila. Questi s'era intanto avviato
verso Roma; aveva preso Tivoli, facendo strage della popolazione, e
poteva di là impedire che pel Tevere scendessero vettovaglie nella
Città eterna. Belisario avrebbe dovuto e voluto soccorrerla subito,
se avesse avuto il danaro e gli uomini, che invece gli mancavano
affatto. S'avviò quindi verso Ravenna, con la speranza di raccogliere
colà i veterani sbandati; ma l'antico entusiasmo e l'antica disciplina
più non esistevano. Impadronitosi infatti di Bologna, invano aspettò
che i veterani tornassero sotto le sue bandiere. E i nuovi soldati
illirici, che seco aveva e che intanto non ricevevano le paghe,
avuta notizia d'un assalto che gli Unni movevano al loro paese, se ne
partirono senz'altro. Totila allora, avanzandosi per la Via Flaminia,
prese parecchie delle città rimaste ancora ai Bizantini (545); e la
guarnigione di Spoleto non solo s'arrese, ma si unì a lui. Egli così
potè impedire al nemico ogni comunicazione fra Ravenna e Roma, che fu
subito da lui assediata. Belisario, convinto della estrema necessità
di rialzare le sorti della guerra, ardeva del desiderio di tentare un
colpo ardito, per liberare l'antica capitale del mondo; ma non aveva
modo. Con grande insistenza chiese a Costantinopoli aiuto d'uomini e
danaro; domandò sopra tutto d'avere la sua guardia, esponendo lo stato
disperato delle cose in Italia, dove non c'era da aspettar più nulla
dalle popolazioni esauste e disgustate. Corse poi con pochi de' suoi
a Durazzo in Dalmazia, per andare incontro ai soccorsi che dovevano
finalmente arrivare da Costantinopoli.
Erano passati già dodici mesi, nei quali egli nulla assolutamente
aveva potuto concludere. Roma era assediata dai Goti, che occupavano
da padroni il paese circostante, riscuotendo le imposte, raccogliendo
il prodotto delle terre. Dentro le mura la guarnigione imperiale
assai debole cominciava a mancare d'ogni cosa; la fame si faceva
già crudelmente sentire; e quello che era anche peggio, alcuni dei
capitani, specialmente il comandante Bessa, avendo raccolto grano
per l'esercito, ne vendevano ai privati, facendovi lauti guadagni,
e cercavano perciò di mandare le cose in lungo. Molti, esausti dalla
fame, si trascinavano a fatica, come spettri, per le vie della Città.
Fu quindi necessario mandar fuori delle mura i non combattenti, che
spesso venivano uccisi dai nemici, quando li vedevano lentamente
traversar la Campagna.
Non è perciò da maravigliarsi se appena arrivati da Costantinopoli gli
aiuti così lungamente attesi, Belisario che già ardeva del desiderio
d'andare a soccorrere Roma, si mosse senza indugio. Ma di nuovo trovò
ostacolo grandissimo in quella mancanza di disciplina, che pareva omai
divenuta epidemica. Il generale Giovanni, che per la sua parentela
aveva potenti relazioni nella Corte, era stato sempre nemico di
Belisario, che per avere gli aiuti necessari aveva dovuto pur decidersi
a mandar lui a Costantinopoli. E Giovanni adesso voleva dalla Dalmazia
avanzarsi coi suoi nell'Italia meridionale, per combattere i Goti,
i quali erano colà sparsi e deboli. Dopo averli vinti, egli diceva,
sarebbe stato più facile ottener vittoria sotto le mura di Roma, dove
egli e Belisario avrebbero nello stesso tempo potuto assalire il nemico
da due lati, cooperando all'impresa comune anche la guarnigione con
una vigorosa sortita. Ma Belisario, che riteneva invece non doversi
metter tempo in mezzo, voleva recarsi direttamente per mare alla bocca
del Tevere, e risalendolo, avanzarsi senz'altro a soccorrere Roma
d'intesa con Bessa. Non essendo stato possibile mettersi d'accordo con
Giovanni, si dovette finire al solito coll'appigliarsi al peggiore dei
partiti: operare cioè ognuno per conto proprio. Così egli andò per mare
a Porto, e Giovanni sbarcò a Brindisi, entrandovi dopo aver battuto i
Goti, sottoponendo poi l'antica Calabria (Terra d'Otranto), le Puglie
e la Lucania. Di là, invece di pensare a raggiungere Belisario, s'avviò
nel paese dei Bruzi (Calabria), ed occupò Reggio, sbaragliando i pochi
Goti che v'erano, favorito dai latifondisti coi loro contadini. Così fu
padrone dello Stretto di Messina, e potè annunziare a Costantinopoli,
che aveva riconquistato l'Italia meridionale. Quanto ad avanzarsi verso
il nord, come voleva Belisario, pare che non ci pensasse neppure. E
quindi i pochi Goti, mandati da Totila nella Campania, erano più che
sufficienti a tenerlo d'occhio.
Belisario intanto si trovava con poche genti a Porto, invano dolendosi
d'esser lasciato solo. Ad Ostia, che egli poteva quasi toccar con mano,
erano sempre i Goti, e per mancanza di uomini, non poteva cacciarli,
sebbene anch'essi fossero colà in assai piccolo numero. A quattro
miglia di distanza, là dove il Tevere è più stretto, Totila aveva
potuto chiudere il fiume, mediante una catena ed un ponte galleggiante,
difeso da due torri di legno, costruite sulle opposte rive. Pure
Belisario era deciso a soccorrere Roma, sperando di farvi entrare le
vettovaglie, e di penetrarvi poi egli stesso, giacchè neppure dopo
tanti disinganni il valoroso capitano s'era perduto d'animo. Mandò
quindi due finti disertori a misurare l'altezza delle torri; e poi,
congiunte due barche con tavole, su di esse costruì una torre di
legno, sulla quale pose una piccola barca con materie infiammabili,
che erano una mescolanza di zolfo, di pece, di resina, qualche cosa di
simile a ciò che più tardi fu chiamato fuoco greco. Alle due barche che
lentamente s'avanzavano, teneva dietro una piccola flottiglia carica di
grano, con uomini armati, accompagnata da altri a piedi ed a cavallo,
i quali s'avanzavano sulle due rive, in compagnia di coloro, che colle
corde su pel fiume tiravano le navi.
Prima di partire, Belisario aveva lasciato Isaace d'Armenia a guardia
di Porto, con ordine espresso di non abbandonar mai quel posto, neppure
per soccorrere lui stesso, quando si fosse trovato in pericolo. Avvertì
dei suoi movimenti Bessa, invitandolo ad uscir dalle mura in tempo,
per potere ambedue contemporaneamente assalire i Goti, di fronte
ed alle spalle. Ma Bessa, occupato più che altro de' suoi propri
guadagni, non dette segno di muoversi, ed i Goti poterono liberamente
andar contro Belisario, che sembrava avanzarsi con buona fortuna. Era
infatti riuscito a levare la catena, ad incendiare una delle due torri,
quando sopraggiunsero i Goti, coi quali venne subito a battaglia, e
li respinse dopo averne uccisi 200. Il ponte galleggiante era rotto,
il fiume pareva ormai libero al passaggio delle vettovaglie, quando
a un tratto la ruota della fortuna girò a suo danno. Nè Bessa, nè
Isaace d'Armenia, sebbene per diverse ragioni, avevano obbedito agli
ordini ricevuti, e questo fu causa della rovina dell'impresa nel
momento stesso in cui Belisario pareva che avesse già in pugno la
vittoria. Giunta a Porto la notizia, che i Bizantini s'avanzavano
vittoriosi verso Roma, Isaace non potè più stare alle mosse, e con
100 cavalieri traversò l'Isola Sacra, che divide Porto da Ostia, la
quale egli prese senza difficoltà. Ma sopraggiunsero allora i Goti, che
poteron facilmente disfare i 100 cavalieri, uccidendone la più parte,
e facendo prigioniero Isaace, che li comandava in persona. La notizia
assai esagerata di tutto ciò, arrivò a Belisario, come un fulmine a
ciel sereno, nel momento appunto in cui egli si credeva decisamente
vittorioso. E fu questa la prima volta in sua vita, che perdè veramente
la testa. S'immaginò che Porto fosse stato occupato dal nemico, che
sua moglie, la quale pur sempre amava, fosse prigioniera, che i nemici
potessero attaccarlo alle spalle e di fronte; ordinò quindi senz'altro
la ritirata. Ma quando giunse a Porto, e vide come stavano veramente le
cose, fu pel dolore della perduta vittoria, preso da una febbre che per
qualche tempo lo rese affatto inabile a proseguire la guerra.
Bessa se ne stava intanto tranquillo in Roma, pensando a guadagnare
sulla fame che aveva ridotto all'estremo i cittadini, irritatissimi
perciò nel momento in cui l'opera loro era più che mai necessaria
alla difesa delle mura. I soldati erano assai pochi ed anch'essi
scontentissimi per essere trascurati affatto dal loro capo, che
li lasciava senza paghe e senza vettovaglie. La conseguenza fu che
quattro Isaurici, messi a guardia di Porta Asinaria, la tradirono al
nemico. E così il 17 dicembre 546 i Goti entrarono nella Città, che i
Bizantini abbandonarono, uscendo nello stesso tempo da un'altra porta
in tal fretta, che Bessa dovè lasciare tutto il danaro da lui così
disonestamente guadagnato. Vi fu allora come una fuga generale da Roma,
dove, secondo Procopio, sarebbero rimaste appena 500 persone, che si
ricoverarono nelle chiese, temendo la crudeltà dei Goti. Questi infatti
cominciarono subito la strage; ma quando ebbero ucciso 26 soldati e 60
cittadini, furono con ordini severissimi fermati da Totila, il quale
venne indotto alla clemenza anche dalle preghiere del diacono Pelagio,
che in Roma faceva ora le veci di papa Vigilio, il quale trovavasi
nella Sicilia in via per Costantinopoli.
Totila, che era vittorioso, e si sentiva sicuro del fatto suo, disse
allora alle sue genti queste notevoli parole: — In principio della
guerra 200,000 Goti furono vinti da 7000 Bizantini; ma oggi invece
20,000 Bizantini, che tanti se ne trovano sparsi in Italia, furono
vinti dai deboli e disprezzati avanzi dei Goti. Ciò è avvenuto, perchè
allora i Goti si condussero ingiustamente verso i Bizantini, e vennero
puniti; ma ora che abbiamo invece osservato la giustizia, siamo stati
da Dio remunerati colla vittoria. — Entrato poi in Senato, rimproverò
ai Romani la loro condotta favorevole agl'Imperiali, che li avevano
spogliati di tutto. — Che male, egli esclamò, vi hanno mai fatto i
Goti? — Mandò poi a Costantinopoli il diacono Pelagio, per concludere
una pace definitiva. «Io, egli scriveva a Giustiniano, ti rispetto
come un figlio deve il padre, e sarò sempre tuo fido alleato. Ma se tu
non accetti la pace, distruggerò Roma, perchè da essa non possa venir
nuovo danno ai Goti.» E Giustiniano a tali minacce non si degnò neppur
di rispondere, rimettendosi in tutto e per tutto a Belisario, il che
voleva dire alla sorte delle armi. Non c'era quindi da far altro, che
apparecchiarsi a continuare la guerra.
Totila si vedeva ora costretto a recarsi nell'Italia meridionale,
dove i Bizantini in buon numero occupavano molte terre, e rendevano
sempre più difficile il fornire Roma di vettovaglie. Partendo, egli non
poteva, per mancanza di uomini, lasciarvi una guarnigione sufficiente;
cominciò quindi a demolirne le mura, con animo di distruggere
addirittura la Città. Ma quando procedeva in quest'opera nefasta e di
vera barbarie, ricevette una lettera di Belisario, che gli fece una
profonda impressione. «Non sai tu dunque, questi gli scriveva, che
le ingiurie fatte a Roma, sono ingiurie ai trapassati, ai posteri;
sono una vera profanazione? Vuoi tu rimanere nella storia come il
distruttore, piuttosto che come il preservatore della più grande e
magnifica città del mondo?» Totila, secondo Procopio, restò da tali
parole siffattamente colpito, che smise la mal cominciata demolizione,
e parti senz'altro pel Mezzogiorno, menando seco in ostaggio i
Senatori, ordinando che tutti abbandonassero Roma, che, secondo lo
stesso scrittore, rimase davvero per qualche tempo deserta. Lasciò
sui monti Albani una piccola guarnigione, come a guardar da lontano la
desolata Città, in cui sperava di tornare ben presto, dopo aver vinto
i Bizantini. Questo racconto può sembrare una leggenda; è certo però
che da una parte Totila non aveva modo di tenere occupata la Città
eterna, e da un'altra il fascino grandissimo che essa esercitava ancora
sui barbari era sempre tale, che le dava ai loro occhi qualche cosa di
sacro e d'inviolabile: il distruggerla doveva quindi parere a tutti un
delitto contro gli uomini e contro Dio. Si aggiungeva poi che Totila
non voleva romperla addirittura coll'Impero, e chiudersi così ogni
possibilità di nuove trattative.
Comunque sia, Roma si trovò ora per sei settimane affatto abbandonata,
restando, così almeno si narra, addirittura deserta. E Belisario,
lasciata una piccola guarnigione in Porto, respinti i pochi Goti che,
scesi dai monti Albani, gli vennero incontro, entrò dentro le mura e
si pose subito a restaurarle. Molti tornarono allora dalla Campagna,
ed insieme coi soldati s'adoperarono a tutt'uomo per riparare i guasti
portati ad esse. Mancavano però gli operai capaci di rimettere a posto
gli usci delle porte, che erano stati abbattuti. Si provvide quindi
alla meglio, chiudendole in fretta, essendosi saputo che Totila, avuta
notizia dell'entrata di Belisario, tornava indietro a gran passi. Tre
volte infatti diede l'assalto; ma fu sempre respinto ed inseguito, fino
a che si ritirò a Tivoli. E Belisario allora potè trovar modo di far
rimettere gli usci alle porte della Città, di cui mandò le chiavi a
Costantinopoli. Correva l'anno 547, dodicesimo della guerra bizantina,
terzo della seconda campagna.
I Goti erano sempre assai potenti in Italia. Padroni nel Settentrione,
dove si trovavano ancora i Franchi venuti in loro aiuto, essi
occupavano la Venezia, e s'erano avanzati nell'Italia centrale, che
tenevano quasi tutta, ad eccezione di Ravenna, Perugia, Ancona, Roma e
Spoleto. Nel Mezzogiorno invece dominavano i Bizantini, sebbene anche
colà non mancassero Goti, disseminati in diversi punti, qualcuno dei
quali strategicamente importante. Certo per gl'Imperiali riusciva di
grande vantaggio morale e materiale il possesso delle due capitali,
Roma e Ravenna. Ma l'opera di Belisario era paralizzata dal disaccordo
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