L'amore che torna: romanzo - 22

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in un teatro, portavo quel rubino. M’era pur rimasto, nella casa di
Roma, un gran mazzo di cravatte ch’ella mi aveva comperate, perchè a
quel tempo amava occuparsi d’ogni cosa mia. Ed allora, ogni mattina, per
andare in Piazza di Spagna, ne misi una: conoscevo la sua memoria
tenace, forse le avrebbe riconosciute. Facevo queste cose puerili e mi
pareva di non amarla; per lei non provavo che un senso di gelosa
inimicizia, una curiosità piena d’irritazione. La cercavo tuttavia, con
il pensiero assiduo, mentre il desiderio di rivederla diveniva per me un
bisogno assillante.
Pensavo: «Ella sa che ogni mattina l’attendo in Piazza di Spagna. Perchè
ogni mattina la rivedo? Perchè non sceglie un diverso cammino?»
E la lentezza di questa insidia mi tentava. Quando la primavera fu tutta
sbocciata, le fioraie scesero su la piazza con canestre riboccanti.
Allora, ogni giorno, ella si fermò a comperare qualche mazzo. Talora,
essendomi coricato all’alba, duravo gran fatica nel trarmi dalle coltri;
pur mi levavo, poichè ogni altra cosa mi sarebbe sembrata priva di uno
scopo, il giorno che tra quei fiori non l’avessi incontrata.
Veniva pure i giorni di pioggia, e le fioraie nascoste sotto grandi
ombrelli la salutavano al suo passare. Pensavo: «Come avvicinarla? come
dirle o scriverle una parola?» E mille infantilità, mille vecchie
astuzie da innamorati mi si affacciavano alla mente; ma sùbito le
respingevo, non volendo sciupare in un modo così comune la mia tortura
delicata.
Tutto di lei mi piaceva, e sommamente le cose che un tempo m’erano
dispiaciute; il mio desiderio s’inaspriva d’una torbida sensualità. Una
mattina, insensatamente, mentr’ella si era fermata per comprar fiori,
m’avvicinai. Ma quando le fui presso, e mi vide, si fece bianca più dei
mughetti che teneva in mano, e lasciandoli cadere s’allontanò rapida.
Non la rividi per tre giorni; poi tornò.
Giunse Paderewsky a Roma per dare tre concerti, e sapevo da Fabio
ch’ella vi sarebbe andata. Anzi egli aveva l’incarico di fissare i
posti, ch’erano assai contesi; uno per lei, l’altro per la viscontessa
d’Andrassy, moglie d’un segretario dell’Ambasciata Belga. Fabio mi disse
che il barone De Luca non amava la musica da camera. Accompagnai Fabio
per vedere quali posti prendesse, e tornatovi tosto, fissai per me una
poltrona dietro l’altre due, nella fila consecutiva.
Il giorno del primo concerto, quando entrai nella sala gremita, il
grande Paderewsky già suonava; la sua testa d’angelo, placida e pura,
sembrava sognasse le note che le sue mani andavano suscitando con un
prodigio di maestria. Per non disturbare gli ascoltatori attesi
l’intermezzo, appoggiandomi contro una colonna, quasi nascosto nella
penombra, e fissando Edoarda, che istintivamente si volse.
La settima sinfonia di Beethoven volava sopra l’uditorio, che la
commozione teneva sospeso in una specie di estatica immobilità; qualcosa
di magico e di possente sollevava gli spiriti, come fiaccole accese, in
una sfera paradisiaca di ebbrietà. E in quel momento, su l’ala delle
note volanti, nella religiosa paura che incutono le grandi rivelazioni,
quell’amore che non si dice, che fu, e poi morì, e poi risorse,
quell’amore che divien umile dopo esser stato violento e si appaga di
nulla dopo aver tutto sprezzato, si comunicò fra noi come una cosa
tangibile, divenne materia, bacio, carezze, parola e sospiro fra le
anime nostre, che ritornavano entrambe da un lontano esilio, portandosi
fiori di rimembranza e di poesia, primavere di sogno e di musica
dimenticata.
L’orchestra tacque; m’andai a sedere. La pelliccia di Edoarda,
rovesciata su la spalliera della poltrona, toccava quasi le mie
ginocchia, e, se mi fossi chinato in avanti, i suoi capelli m’avrebbero
sfiorata la fronte. Intesi ciò che diceva, intesi la sua voce ancora,
dopo tanti anni che più non la udivo. Il suo profumo mi veniva in
faccia, qualcosa di lei fasciava i miei sensi nascostamente. Nel
manicotto, semiappassiti, aveva i mughetti comperati la mattina in
Piazza di Spagna.
Mille volte mi venne la tentazione di toccarla, in un modo qualsiasi,
fuggevolmente; ma non osai. Solo, durante l’intermezzo, un amico il
quale sedeva due file più avanti, si volse, mi vide e prese a parlarmi.
Allora, per rispondergli, mi chinai un poco su la poltrona di Edoarda e
le fui così vicino che mi pareva quasi di toccarla. Certo la mia voce
dovette darle quel medesimo senso che a me dette la sua, perchè la vidi
trasalir leggermente. Quando ci levammo entrambi per uscire, ella mi
guardò in viso, pallidissima, piena d’un’estatica paura. Ed io, rimasto
solo, mi scossi, come per cacciar dalle vene il turbamento che vi
serpeggiava, e risi, e pensai a quella che aveva inaridito il mio cuore.
Mi trovai puerilmente perverso; non l’amavo, e, sopra tutto, non la
volevo amare.
Edoarda ritornò l’altre volte ai concerti, con la baronessa d’Andrassy,
ma sedeva lontana e fu solo negli intermezzi che, levandomi, la potei
vedere. Tutte le ambizioni della mia vita nuova convergevano in questa
sola: possedere la donna che avrei dovuto sposare, contro la quale m’ero
esasperato fin quasi all’odio. Un mio cuore fittizio mi faceva rivivere
ad uno ad uno tutti gli episodi del legame spezzato, e, come s’ella non
fosse più la stessa, mi tornavano alla mente i suoi gesti, i suoi baci,
le inflessioni della sua voce, i sorrisi e le lacrime che avevano
intessuta la storia del nostro lontano amore. Andavo per curiosità
rileggendo alcune sue lettere, che m’erano rimaste per caso, e pur
dicendomi che il tempo muta e travolge tutto, le somme felicità come i
più acerbi dolori, tuttavia non potevo riconoscere nella sua nova
bellezza di donna un poco altera, la timida fanciulla di un tempo,
ch’era stata, nelle mie mani, quasi un trastullo fragile. Quel mio cuore
fittizio la desiderava ora intensamente, la desiderava come un delicato
vizio che potesse ancora infondere un po’ di vita nella sua mortale
aridità.
A poco a poco scordai qualsiasi prudenza; mi recai nelle case ove
speravo di vederla, ed in una visita presso la contessa di Casciano
finalmente l’incontrai. V’era un numeroso crocchio di signore, qualche
uomo solamente; fra questi l’ambasciatore Palazzo, il contino Rainieri e
l’onorevole Albizzi-Cerda, amante allora della contessa di Casciano. Era
costei una signora più che trentenne, ancora piacente, per quanto non
fosse mai stata bella; suo marito, arditissimo esploratore, era morto di
febbre gialla durante un viaggio. Aveva due figlie cordialmente brutte,
ma educate a Londra, il che significa professare una libertà di costumi
a tutta oltranza dietro un’apparenza impeccabilmente puritana. Quando
entrai nella sala, gli occhi di tutti corsero involontariamente da
Edoarda a me, poi sùbito le conversazioni si spensero in uno di que’
bisbigli curiosi, che sono il commento subdolo del pubblico ai colpi di
scena così frequenti nella commedia mondana.
Alcune signore m’erano sconosciute; la padrona di casa mi presentò.
Giunti che fummo davanti alla poltrona ove sedeva Edoarda, fingendo di
conversare animatamente con una vecchia nobildonna ch’era mezzo sorda,
la contessa di Casciano con la più soave ingenuità:
— Tu, cara, — le disse — conosci, credo, il conte Guelfo...
Edoarda, confusa, piegò il capo come per dire di sì. Le feci un inchino,
rapido, e passai oltre. Ebbi la prudenza di non guardare nessuno, ma mi
sentivo addosso gli occhi di tutti, molesti e beffardi. Senonchè la
disinvoltura di Edoarda mi dette un grande stupore. Lungi dal cogliere
sùbito un pretesto per andar via, o dal mostrarsi punto in imbarazzo,
continuò a discorrere animatamente, come se nulla fosse accaduto,
mettendo nelle sue parole un sale, una briosità, che non le conoscevo
ancora. Di riflesso, mi trovai molto impacciato, e poichè la contessa di
Casciano, in tutto squisita, ci teneva a farmi parlare, studiandosi di
provocare il caso ch’io dovessi rispondere a Edoarda, o Edoarda a me,
durai gran pena a non smentire quella fama che avevo di gaio e facile
parlatore.
Dopo una ventina di minuti venne il Capuano. La sua faccia strabiliata,
quando ci vide, per poco non fece ridere anche me. Non appena gli fu
possibile avvicinarsi a me, che gli sfuggivo, mi trasse in disparte per
sibilarmi sottovoce:
— Che novità son queste? Sei pazzo ora?
Io feci con le labbra un atto d’indifferenza e risposi leggermente:
— Perchè mai?
Lo vidi poi che diceva qualcosa misteriosamente anche a Edoarda. Poco
dopo, cogliendo l’occasione che la nobildonna mezzo sorda se n’andava,
Edoarda pure si levò. Strinse la mano a tutte le signore, a noi uomini
fece solamente un cenno del capo.
Questa mia prodezza non ebbe che due conseguenze: la prima, che per una
settimana ella non passò più per Piazza di Spagna, e l’altra fu una gran
diatriba fattami dal Capuano.
La sera stessa me lo vidi giungere in casa, fuori di sè. Ancor prima di
togliersi il soprabito, e senza nemmeno darmi la buona sera, cominciò a
sciogliere i freni del suo sdegno.
— Insomma, insomma, io non capisco più in che mondo si vive! I
gentiluomini, o quelli che dovrebbero esser tali, mancano ai riguardi
più elementari dell’educazione! In verità!...
— Puoi dire, puoi dire!... Tanto, sai che non m’offendo.
— Ma vieni un po’ qui, ragazzo mio! Spiégami: cosa ti sei fitto in capo?
Forse di far la corte a Edoarda?
— Eh, via!... tu scherzi!
— Ti avverto che si comincia col dirlo in giro. E in fede mia tu fai
proprio tutto quello che ci vuole per lasciarlo credere.
Mi stavo infilando i pantaloni dell’abito da sera; egli camminava per la
stanza, con il suo gestire da caratterista.
— Sai, Fabio? Se tu avessi fatto il predicatore, chissà quanta gente
sarebbe accorsa per udire i tuoi quaresimali!
— Bah!... se vuoi scherzare è un altro conto.
— Insomma: ti manda lei, per caso, a farmi questa ambasceria?
— Ah, no! Ecco non devi credere questo! D’altronde non l’ho ancora
veduta.
— Ebbene, che colpa ne ho io, se, andando a visitare la contessa di
Casciano, v’incontrai Edoarda?
— Ma le smanie di società, di visite, di balli, di pranzi, ti son dunque
venute tutte in un colpo?
— M’annoio e cerco di svagarmi. Poi faccio il possibile per non perdere
il mio posto nell’Olimpo. Sai... a questi chiari di luna!
— Va bene. E le passeggiate in Piazza di Spagna? E la Trinità dei Monti?
E quel canocchiale che in teatro non abbassi un momento? Tutto questo è
sempre per l’Olimpo, è vero? Ma, già!... tu non ti curi di niente! In
fondo non hai mai avuto nè cuore nè senno; il tuo capriccio innanzi a
tutto, e il resto... al diavolo!
— Ah, bene, senti... ora vai oltre i limiti! Fammi un santo piacere:
parliamo d’altro!
Egli mi sogguardò con occhi obliqui, accese una sigaretta, si pose a
cavalcioni d’una sedia e non parlò più.
Io mi feci con somma cura il nodo della cravatta, chiamai Ludovico
perchè mi spazzolasse ben bene l’abito, misi un fiore all’occhiello,
profumai il fazzoletto e presi da un tavolino le chiavi di casa.
— Dunque vieni o resti? — gli domandai.
— Usciamo pure! — fece, tragicamente.
Quand’ebbimo camminato un po’ per la strada, visto ch’egli non parlava,
lo presi sottobraccio.
— Di’... non sarai mica offeso per caso?
Bastava una frase amichevole per rimetterlo di buon umore.
— Ci mancherebbe altro! — esclamò allegramente.
— Sai, — gli dissi, — che il tuo isterismo peggiora ogni giorno?
— E sai, — rispose con una perfidia sorridente, — che la tua
balordaggine è divenuta cronica? Sapevo che con questi occhi avrei
vedute ancora le cose più stravaganti, più inverosimili che possano
accadere al mondo; ma di vederti un’altra volta innamorato d’Edoarda...
questo poi no!
— Siamo da capo?
— Calma! Non ti voglio dire che una cosa sola. Non sei cattivo, tutte le
sciocchezze che fai si devono solamente alla tua gran leggerezza... Ma,
guarda: se ora ti figgessi nel capo di scompigliare un’altra volta la
vita di quella creatura, m’incuteresti un così grande ribrezzo, che
avrei per sempre vergogna di stringere la tua mano.
— Su, dammela quella mano, e vieni a pranzo con me!
— Grazie, non posso.
— Perchè? hai forse un altro invito? Vedo che infatti hai una stupenda
cravatta bianca.
— Sì, sono invitato.
— E dove, se è lecito?
— Dai De Luca, — egli convenne, quasi a malincuore.
— Ah... buon appetito!


V

Era giornata di caccia. Il master, don Antonino Feretra, ci aveva dato
convegno per le nove del mattino.
Fresco ed ilare, per quella giocondità della primavera laziale, ero
uscito di buon’ora montando per la prima volta Bluff, il mio nuovissimo
irlandese dal mantello sauro focato, con il muso e le balzane d’un color
candido come la neve.
Due mazzi di baccarà eccezionali mi avevano permesso di comperare questo
ammirevole cavallo, giunto fresco fresco dall’Irlanda e conteso con
sforzi eroici all’imberbe quanto milionario Stefanuccio Gola, che, non
essendosi ancora potuto liberare da una fastidiosa inabilitazione,
m’aveva dovuto cedere sul prezzo. Bluff era un superbo animale, dalla
criniera folta, le reni spaziose, il petto robusto, saltatore agilissimo
e galoppatore instancabile.
Stretto nella mia giubba rossa, recandomi di buon trotto al «meet», mi
pareva d’essere tornato il gentiluomo d’una volta, intrepido a tutte le
macerie, spavaldo in sella come se ci fossi nato. E la vita, quella
mattina, mi piaceva ancora.
Giunsi, mentre il master prendeva il galoppo seguito dai cani, facendo
squillare nitidamente il corno da caccia.
Il «meet» era frequentatissimo. Vidi Piero de Luca in sella d’un
puro-sangue irrequieto come una gazzella e intesi donna Maria Monsélice,
amazzone ammiratissima, dirgli con tono d’intenditrice:
— Long Tail non vi farà il percorso, barone, e voi rischiate di rompervi
il collo. Spero che girerete le macerie.
Il De Luca, sorridendo come un uomo indurito alle avventure della sella,
rispose:
— Tutt’altro! È una scommessa, Donna Maria, e sono ben sicuro di
vincere.
— Sarebbe veramente peccato rovinare questo bel puro-sangue in una
caccia.
— Long Tail ha un’andatura infernale, ma non rifiuta nessun ostacolo; se
permettete, vi seguirò da vicino, senza lasciargli prendere la mano.
— Andiamo! — diss’ella scudisciando il proprio cavallo. E volarono via.
Stavo intanto parlando con due cavalieri che ammiravano Bluff, quando,
fra un gruppo d’amazzoni che prendevano il galoppo, vidi o mi parve
riconoscere Edoarda, nel mezzo fra la contessa di Casciano e miss Emy
Ruffles, con altre che non ravvisai. Guidavano il gruppo Giorgio
Sannìzzaro ed un capitano di cavalleria. Difficilmente l’occhio poteva
trarmi in errore, ma, per il travestimento dell’amazzone, e sapendo che
a’ miei tempi ella non aveva mai preso parte ad alcuna caccia, dubitai
d’essermi ingannato.
Col cuore in tumulto misi Bluff di galoppo, spingendolo in direzione del
gruppo che già s’allontanava per la campagna. L’irlandese di buon
sangue, spiegando un’andatura meravigliosamente distesa, in breve li
accostò, e quando giunsi a pochi metri da loro durai gran fatica per
diminuirne l’impeto e non passar oltre.
Da vicino riconobbi Edoarda. Ella montava una cavalla baia, nervosa e
gentile; indossava un’amazzone di velluto color viola fosco, portando,
come una volta, i capelli annodati su la nuca. Un largo velo,
fasciandole il cappello due volte, lasciava ondeggiare i suoi lembi nel
vento del galoppo. Pensavo: «Egli le ha comunicate le sue passioni.
Questo nuovo amore del cavallo è un segno quasi di affinità con lui.» E
per tenermi dietro al gruppo dov’ella era, di continuo rompevo
l’appoggio del morso a Bluff, che generosamente li voleva sopravvanzare.
Tutta la campagna laziale, a perdita d’occhio, era inondata di sole; il
terreno mandava un luccicore insostenibile, rotto qua e là dall’ammasso
di un’antica maceria, dove le scaglie d’argilla balenavano come frantumi
di specchiere.
Davanti si parò una staccionata d’un metro circa, ed il gruppo, su due
file, saltò netto. Ma, sopravvenute una seconda, poi una terza, i
cavalli, animatisi ruppero un poco l’ordine, distanziandosi
gradatamente. Le braccia più non mi reggevano per lo sforzo di rimanere
in coda, e allora, piegando sul fianco, lasciai che l’irlandese
passasse. Rapidamente mandai loro un saluto.
Giorgio Sannìzzaro mi gridò dietro:
— Eh, eh! di volata, Guelfo!...
Ma Bluff, quand’ebbe lo spazio libero davanti, s’acquietò, e mi trovai
di paro con l’ufficiale, che durava la stessa fatica nel dominare il suo
polledro. Lo conoscevo, e questa ragione mi servì per unirmi al gruppo,
tenendone la testa ad una cinquantina di metri. Incontrammo una piccola
maceria; il capitano saltò furiosamente; il suo polledro lo portò via.
Bluff fece un salto al quale Sannìzzaro, dietro, applaudì, e volgendomi
li vidi saltare tutti facilmente, tranne il cavallo di Miss Ruffles che
fece uno scarto e, dopo aver ritentato, passò di fianco.
Il terreno cominciava ad essere malagevole. Da tutte le parti si
vedevano frotte di cavalieri correre a briglia sciolta, mettendo
nell’immensa campagna un formicolìo di giubbe rosse e d’amazzoni oscure,
con l’eco nell’aria degli eccitamenti dati ai cavalli e lo scrosciare
lungo di qualche nitrito. Un sordo rumore di terreno battuto si
propagava in tutte le direzioni, sollevando per la infinita campagna
quasi una oscillante sonorità.
Miss Ruffles era rimasta indietro; il Sannìzzaro aveva di molto
rallentata l’andatura per non lasciarla sola, ed io, volgendo il capo,
vidi a poca distanza dal mio cavallo Edoarda e la contessa di Casciano,
le quali galoppavano di paro. Bluff vide sorgere davanti a sè una
maceria larga ed ineguale; drizzando le orecchie vi si buttò sotto come
un fulmine, prese male il salto e la passò rasente rasente, in grazia
del colpo di reni che mi diede quando si sentì sopraffatto dall’altezza.
Una pietra toccata sbalzò fuori. Mi fermai dietro l’ostacolo per vedere
il salto delle due cavalcatrici.
La contessa di Casciano, che montava un saltatore da concorso, passò per
la prima, facilmente, sorridendo; invece la baietta di Edoarda,
spiccando il salto su le quattro zampe, scavalcò la maceria
scompostamente, levandosi di peso, come fanno le capre. Attesi che le
due signore passassero, e mi posi dietro loro, ad un galoppo misurato.
Una frotta di cavalieri ci attraversò la strada, lasciando nell’aria un
sibilo di voci e di scudisci.
Bluff, spumoso per l’impazienza di raggiungere i più lontani, andava
tutto a puntate, volate; per intorno l’alta erba, solcata in ogni senso,
mostrava le tracce delle varie cavalcate.
Vidi con gioia la baietta di Edoarda perdere terreno, mentre il bel
sauro della contessa di Casciano, indocilmente le forzava la mano
stanca. Finalmente, dopo aver saltato un’altro ostacolo, colei si volse,
disse qualcosa alla compagna, e filò via. Edoarda, rimasta sola, diresse
la cavalla verso un lieve pendio, poi, allentando le redini, si lasciò
condurre. Appariva stanca; erano forse le prime cacce, v’era in tutta la
sua persona una specie di rilassatezza.
Copersi allora la breve distanza che ci separava, e per qualche minuto
Bluff galoppò col muso vicino alla groppa della baietta. Lontano si
vedevano i cavalieri convergere tutti verso un lato, a sinistra, e
poichè i nostri cavalli v’andavano pure, d’un salto la sopravanzai,
diedi una spronata nei fianchi a Bluff, e, piegando su la destra, lo
lasciai galoppare.
Sapevo che nonostante ogni sforzo dell’amazzone la baietta m’avrebbe
seguito.
Curvo, senza volgermi, sentendola presso, respiravo con voluttà la
fragranza del vento primaverile; mi pareva di rapirla, di trarmela
dietro legata alla mia sella, senza scampo, come in una leggenda, verso
una solitudine di cielo e di luce. Una paura indefinibile mi tratteneva
dal volgermi, per guardarla in faccia, e nel fischio dell’aria celere
sentivo pur distintamente l’affanno del suo respiro.
Per una specie di crudeltà non mi volli fermare; i due cavalli
schiumavano, dopo venticinque minuti di galoppo serrato sopra un terreno
che le piogge avevano reso pesante; v’erano sassi e buche, ma quel
pericolo mi piaceva. Piantai di nuovo gli sproni nei fianchi di Bluff,
ed il buon generoso cavallo, raddoppiando di lena, a scatti, a volate,
galoppò così disteso, che l’erbe alte gli staffilavano il ventre. E la
baietta dietro, ansante, senza cedermi d’un passo.
Saltammo tre volte, come volando, l’ultima, intesi Edoarda dare un
piccolo grido: si era sentita forse cadere, perchè la baietta saltava
con troppo impeto.
Allora mi volsi. Pallida, con gli occhi semichiusi, il busto un po’
rovesciato all’indietro, pareva che quella corsa l’avesse del tutto
sopraffatta ed estenuata; vidi che non teneva quasi le redini, compresi
il pericolo, ed a forza di braccia rallentai. Pianamente ci mettemmo di
paro, ansanti entrambi come i nostri cavalli, senza guardarci, lontani
da tutti, nella solitudine, nel sole.
— Edoarda... — mormorai con paura, passando la mano su la criniera della
sua cavalla, tanto le stavo presso.
Il lembo del suo velo mi sventolava sopra una spalla, e poichè le parole
mancavano, eran tutte impari alla mia commozione, lasciai la criniera,
presi una sua mano, strinsi dolcemente quelle dita, e la briglia che
tenevano, insieme.
Ella bruscamente scosse il pugno, e la cavalla molestata fece un piccolo
salto.
— Mi perdonate? — le domandai. — Sono stato pazzo a condurvi qui, non è
vero?
Ella piegò la testa e sorrise; quel sorriso fu così pieno di gentilezza,
che ne provai quasi un rimorso.
— Non potevo più vivere a questo modo! — le dissi. — Bisognava pure che
vi parlassi.
— Sapete... — rispose con volubilità, guardandomi senz’alcuna
esitazione, — avete rischiato di farmi rompere il collo! Davvero,
all’ultimo salto, sono rimasta su per miracolo...
Non era più la stessa donna; la guardavo e l’ascoltavo con sorpresa.
— Non avevo altro modo per potervi parlare, — le dissi con dolcezza; — e
sono mesi che attendo...
— Oh, davvero?
Le presi la mano di nuovo:
— Perchè scherzate così? — Proprio non conto più nulla per voi?
Null’affatto?
Ella abbassò le palpebre con un sorriso pieno di sottile ironia.
— Spero non dimenticherete che ho un marito, mio caro conte! — E disse
quest’ultime due parole con uno scherno che mi ferì.
— Noi ci eravamo promessi una volta di rimanere l’uno per l’altra tutta
la vita, — le risposi con esitazione. — Ma, già, queste sono parole che
si dicono... almeno per voi!
— Già, si dicono pur troppo! Ma un gentiluomo che le abbia intese,
dovrebbe saper anche dimenticarle, vi pare?
I cavalli avevano preso il trotto, piano, piano.
Allora, tirando insieme la mia briglia e quella della baietta, li rimisi
di passo.
— Che fate ora? — domandò Edoarda sorridente. — Non mi vorrete far
perdere, spero? Lasciatemi ritornare, vi prego.
E raccolse la briglia abbandonata.
— No, ve ne supplico, Edoarda! — esclamai con una voce così commossa,
ch’ella visibilmente ne provò stupore.
— Poi, — soggiunsi, — bisogna che i cavalli riposino un momento.
— Insomma, — elle fece, dopo essersi guardata intorno, — cosa volete
ancora da me?
— Non lo sapete forse? Ebbene, ve lo dirò. Volevo riudire la vostra
voce, guardarvi da vicino, dirvi ancora una volta che non vi ho
dimenticata, che sono stato irragionevole quando v’abbandonai, ed ora da
voi sola dipende il salvare l’uomo che tuttavia è stato qualcosa nella
vostra vita, o vendicarvi del male che vi ho fatto, se pure ve ne feci,
ma in un modo mille volte più crudele. Volevo dirvi, Edoarda, che in
nessun momento della mia vita mi son sentito pazzo come ora, perchè
quello che sto facendo in questo momento è senza dubbio una pazzia...
Così le dissi, e fui sincero, tanto è pieno d’inganno quel sensuale
turbamento che noi chiamiamo l’amore.
— Si, è certo una pazzia, — Edoarda rispose, chinando la faccia
scolorata. Mi piegai sovra la sua spalla, fin quasi a toccarla, e dissi:
— Non vi ricordate più di me? più affatto?... mai?
— Mai! mai! — ella mormorò, chiudendo gli occhi.
Le stringevo il braccio, attirandola dolcemente.
— È possibile che tutto per voi sia finito, quando invece io, dopo la
prima volta che vi ho riveduta, non sono più capace di pensare ad altra
cosa che a voi? Quand’io vi desidero in un modo che non ha parola, e
passo il giorno, la notte, immaginando come vi potrei parlare?
— Tacete! tacete!... Torniamo indietro, — ella propose, cercando quasi
di nascondere un improvviso turbamento.
Con una specie di cocciutaggine ripresi:
— Io fui certo il più fedele, nonostante le mie stoltezze. A tempo, il
mio cuore, il mio spirito, erano malati, Edoarda; e dopo di allora sono
passate tante cose!...
Ella rise di un piccolo riso, breve, sarcastico.
— No, non schernitemi! Voi sapete bene che questa è la verità. Sono
anche tornato, una volta, per farmi perdonare; ma fu troppo tardi. Vi
eravate appunto fidanzata, e, quando me lo dissero, qualcosa mi passò
nel cervello, nel cuore... non so... fu come uno schiaffo datomi in
piena faccia, e compresi allora tutto l’amore, tutto l’amore profondo
che avevo per voi. Su, dítemi una parola... non continuate a ridere
così!
— Oh, vi conosco. Guelfo! Adesso vi conosco; allora no.
— Ebbene?
— Ebbene, la cosa è molto semplice. Vi è tornato forse un capriccio...
Ne avete avuti tanti altri, e gli spensierati come voi conoscono questi
ritorni. Anzi, dítemi una cosa: Dove avete lasciata la vostra amica?
E rise più forte. Questa domanda mi suonò come un insulto: ebbi voglia
per un momento di rispondere con la stessa ironia, e tacqui, mentre di
me stesso nasceva in me un amaro disprezzo, una commiserazione profonda.
— Volete burlarvi di me, — le dissi poi, gravemente. — È giusto: ne
avete anche il diritto. Ma tralasciate l’ironia; siate generosa. Cosa
volete di più? Quando un uomo vi domanda perdono...
— Io non vi devo perdonare nulla. Forse è stato meglio così. Non vi devo
perdonare assolutamente nulla. Solo mi sia lecito rivolgervi una
preghiera, dopo tanto tempo, e visto che vogliamo parlare seriamente. In
questi mesi ultimi vi siete spesso dimenticato che ho un marito ed un
nome da rispettare, o meglio da far rispettare. Vi sarei grata se
voleste risparmiarmi le vostre persecuzioni continue, tanto più che, una
volta o l’altra, potrei averne qualche noia.
— È tutto quello che avevate a dirmi? — osservai freddamente.
— Mah... è tutto!
E andammo a lato, in silenzio, per qualche centinaio di metri, io
guardando sopra il collo della mia cavalcatura la bella campagna che si
stendeva sino al confuso inazzurrare dei monti ed il sole felice che a
perdita d’occhio vi scintillava, ella, di tratto in tratto, sollevando
il viso di sotto il velo, come per osservarmi di sfuggita.
Poi mi disse repentinamente, con un tono tra il serio ed il faceto:
— Avete un po’ cambiato fisionomia, da quel tempo...
— Vi pare? Sono forse invecchiato. Ho molti capelli bianchi ora.
— Volevo dire una diversità di espressione; avete l’aria più cattiva;
sembrate un uomo che viva in uno stato anormale, ruminando chissà mai
quale idea pericolosa.
— Nessuna, tranne quella che voi sapete.
— Poi, e perdonatemi la mia franchezza, non sembrate più così spavaldo
come una volta. Vi dev’essere capitato qualcosa di grave.
— Credo, Edoarda, che non mi vediate più con gli stessi occhi.
— Forse.
Poi trattenne la cavalla e mi disse con risolutezza:
— Torniamo.
— No, Edoarda, non ancora, ve ne prego! Non siatemi avara di questi
brevi momenti che mi sono procacciato con tanta pazienza, e che forse
non si ripeteranno mai più. Ancora debbo dirvi molte cose, che il
turbamento mi ha fatte dimenticare. Tanto, siamo al sicuro qui; la
caccia è lontana.
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