L'amore che torna: romanzo - 25

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dell’equilibrio anche in questo. Era del resto inevitabile. Si torna
sempre. Tutta la vita è un ritorno verso quello che poteva essere,
mentre invece non fu. Che vuoi?... l’uomo è un bizzarro animale pieno di
controsensi! Del resto io non posso che invidiarti. Una deliziosa
creatura, un tipo diverso dal comune; poi, quella sensualità romana...
— Scusa, dove l’hai veduta?
— Non ti ricordi d’avermi una sera mostrato in teatro una signora, nel
terzo palco a destra, in seconda fila? Era vestita di velluto nero.
— Ah, sì! Ma tu arguisci troppo!...
— Ebbene, se mi sbaglio, pazienza!
Io lasciai cadere il discorso ed invece gli dissi:
— Mi sembri oggi un uomo soddisfatto; devi certo aver condotto a buon
termine gli affari che ti conducevano a Roma.
— Quali?
— Questo poi lo ignoro. Chi mai può sapere qualcosa di te? Gli affari
che ti premevano, insomma.
— Era una perlustrazione, credimi, e nulla più.
— Su che terreno?
— Oh, su tutti! Ogni terreno è buono per chi sappia scavare.
— A Roma poi gli scavi dànno sempre qualcosa...
— Già, dicono. Ma dovevo anche trovare due persone: una di queste ora è
assente; ma tornerà fra poco, ed anzi t’incaricherò di farle una
commissione.
— Volentieri; purchè non si tratti d’una commissione, come direi? troppo
delicata!
— Tutt’altro; sai che le indelicate non uso affidarle a te.
— D’accordo. E ora usciamo; sono pronto. Vedi come ho fatto presto?
— Un lampo! E sei tuttavia d’una eleganza irreprensibile. Hai quell’aria
«grand seigneur» tanto necessaria all’uomo che non lo è più. Non so
davvero perchè ti ostini a voler trascinare questa mediocre vita del
gentiluomo decaduto. È un lusso, mio caro! Il gentiluomo si fa quando se
ne hanno i mezzi.
— Via, buffone!
Scendemmo le scale chiacchierando. Stavamo per uscir dal portone, quando
una carrozza, che veniva impetuosa, si fermò di colpo, lo sportello
s’aperse e ne balzò fuori il Capuano, ansante, col viso terreo,
esterrefatto.
— Eh, non sai!... — mi gridò.
— No, cosa? — esclamai trasalendo.
— S’è ammazzato Piero De Luca!
Tutto il mio sangue si rimescolò.
— Ammazzato?... ma come? dove?...
— Oggi, a Torino, al Concorso Ippico. È caduto, è rimasto sul colpo. Lo
hanno telefonato or ora al Circolo perchè si avverta la moglie. Sono
corso a casa sua: non c’è. Giro da mezz’ora per cercarla, e non la
trovo... Che non glielo dicano in istrada, per l’amor di Dio! Sai dov’è?
— Non so, — balbettai, tutto agghiadato e fuor di me stesso.
— Via, non fare commedie! Se lo sai, dillo.
— Non lo so...
— Bene, va, cercala tu pure. Io corro di nuovo al palazzo.
Saltò nella vettura e scomparve.
Rimasi lì, sul marciapiedi, inebetito, intontito. Alcuni passanti,
all’udir quello scambio di parole, si erano fermati all’intorno, ed Elia
d’Hermòs, che non aveva compreso bene, mi prese per un braccio
domandandomi:
— Cos’è accaduto? Chi è quel tale che s’è ammazzato?
Mi passai le mani sugli occhi come per riprendere conoscenza, e
poggiandomi al suo braccio lo trassi via.
— Andiamo, andiamo...
La mia voce usciva in esclamazioni di maraviglia, confuse, interrotte.
— S’è ammazzato... capisci!... il marito... è caduto sotto il cavallo...
— Ma di chi?
— Di lei... di lei!... Oh, Dio santo, che notizia! Ma sì, ne parlavamo
poco fa, di sopra... non ti ricordi?...
— Ah... pazienza! E tutto lì? — egli fece candidamente. — Avevo paura
che fosse accaduta una disgrazia a te.
— Come, è tutto lì?... Ma tu non comprendi allora?...
— Ma sì comprendo benissimo! Anche troppo!
— Allora, senti, fammi un piacere: tu non partire questa sera; puoi?
— Oh, Dio... veramente non mi è comodo, ma insomma, se è per farti
piacere... se proprio hai bisogno di me?
— Sì, rimani, ti prego. Ed ora, ch’io la cerchi è inutile: rincaserà.
Prendiamo una vettura e corriamo al Circolo per aver notizie.
— È inteso: non parto e andiamo dove tu vuoi. Ma prima riméttiti un
poco, perchè mi hai l’aria d’un uomo bastonato, e con quel viso farai
molto ridere.
— Sì, hai ragione. Ma è stato un colpo sai!...
— Che colpo, ragazzo mio!... Sono cose che capitano a chi monta a
cavallo. N’ho vedute io d’assai peggiori nella mia vita. Fin che toccano
agli altri... pazienza! Che ci vuoi fare?
— Eh, via!... Tu scherzeresti anche dinanzi ad una bara!
— Caro Guelfo, sii giusto. Io non lo conosco nemmeno! Me ne duole, se
vuoi, ma non posso piangerne. A me questo caso provoca invece un’ordine
d’idee del tutto diverso, che mi sembra inutile spiegarti ora.
— Ma, sai, la cosa ha dell’inverosimile... Io non me ne capàcito! E dire
che oggi stesso, un’ora fa...
— La vita, mio caro!... E c’è chi la prende sul serio!
— Pover’uomo!... — balbettavo a me stesso; — cade da cavallo, s’ammazza
sul colpo... È una cosa orrenda! E lei? Ora certo partirà sùbito. Io
dovrei parlarle, vederla, scriverle almeno; ma come fare? S’è
ammazzato... non c’è più!... poveretto!... non c’è più... all’età sua!
— Scusa, — fece il d’Hermòs con una voce piena di candore, — ma non
riesco ad intendere bene se la cosa proprio ti addolori, o se invece, in
un certo qual modo...
— Via, non essere così cinico! M’indisponi. E vedo bene che lo fai
apposta. Capirai: ho qualche rimorso...
— Ma che colpa ne hai tu?
— Nessuna; questo però non toglie...
— Ah, baie! Tu sei nato con quattro camice indosso! Ecco quel che vedo
io.
Mi fermai di schianto:
— Perchè dici questo?
— Eh... perchè... lo so io il perchè! Inutile per ora dedurre troppe
conseguenze. Ma in fondo mi stupivo già che non capitasse qualcosa per
mettere la fortuna dalla tua.
— Su, via, sei pazzo! Prendiamo piuttosto una vettura e andiamo al
Circolo.
— Volentieri, ma fatti animo, perchè, ti ripeto, se vi entri a quel modo
farai ridere.
Salimmo in vettura; mi prese un senso di vertigine, sentii che nel petto
il cuore mi batteva con veemenza e più non potei disuggellare la bocca.
Dietro le palpebre, in una visione rossa, vedevo il corpo del barone
giacere a terra, esanime, sotto il suo cavallo; mi pareva che i suoi
occhi spenti si fissassero ancora ne’ miei.
Al Circolo v’era un tumulto insolito; si parlava concitatamente; stavano
tutti in piedi. Quando entrai, ammutolirono. Poi nacque un bisbiglio, e
tutti mi guardarono.
— Dunque che è stato? — domandai a’ primi che vidi.
— Il povero De Luca... — disse uno.
— Ma è vero?
— Eh, purtroppo! La notizia è confermata. Siamo stati al telefono
sinora.
— È proprio morto? — E mi lasciai cadere sopra una seggiola, non
riuscendo a vincere il mio turbamento.
— Morto immediatamente, senza dire una parola.
— E come fu?
Si fece innanzi Camillo Ainardi:
— Mah?... il destino! Montava _Califourchon_, quel magnifico saltatore,
ma caparbio. All’ultima altezza del muro gli si rifiutò tre volte. Sai
che bel cavaliere, intrepido, era il De Luca! Piuttosto che cedere
avrebbe stroncato il cavallo. _Califourchon_, quando si rifiuta, si
mette su le difese e ci vuol fegato per tenergli testa. Aveva saltato
splendidamente fino allora, ed erano rimasti nella gara in tre. A forza
di sproni, di braccia, lo buttò sotto l’ostacolo: il cavallo prese male
il salto, inciampò contro un sasso e rotolarono giù tutti e due: lui
sotto. Pare che abbia battuta la testa proprio su lo spigolo d’una
pietra, ed è rimasto lì, povero Piero!... a trent’anni... è una cosa
orrenda.
— Una vera fatalità! Me lo ha gridato il Capuano per istrada... Sono
rimasto come un ebete; poi ho sperato che non fosse così grave, e sono
corso qui.
Tacqui, perchè tutti mi osservavano con quello sguardo che pare un
sorriso, con quell’attenzione fredda e scrutatrice che vi si figge
addosso e vi penetra come una lama, quando c’è, fra molti amici, un
secreto ambiguo che non possa dirsi per rispetto a voi solo.
— Chissà la moglie!... — fece uno, vicino a me, malignamente.
Cosa fu risposto non so: vedevo sempre, dietro le palpebre, in una
visione rossa, il corpo del barone giacere a terra, esanime, sotto il
suo cavallo, e mi pareva che i suoi occhi spenti si fissassero ancora
ne’ miei.
Intorno seguitavano i commenti, le discussioni, le parole d’orrore dei
sopraggiunti, lo squillo d’altre telefonate; poi uno, credo il marchese
della Pergola, si fece avanti e parlò della corona da ordinarsi e di
quelli che sarebbero andati a Torino per portarla.
A me pareva che tutti nascostamente pensassero: «Proponiamo Guelfo!...
Sarebbe il più adatto!» — e sconciamente ne ridessero.
Mi premeva intanto saper qualcosa di Edoarda, sicchè, scelto il momento
opportuno, feci un segno ad Elia perchè mi seguisse, ed uscimmo.
— Debbo trovare un modo per sapere qualcosa di lei, — gli dissi quando
fummo in istrada. — Andiamo verso il palazzo; non è lontano.
— Frequentavi la sua casa? — egli domandò.
— No, ma vorrei almeno vedere il Capuano, sapere se parte stasera.
— Certamente sì.
— Ma vi sono ancora treni?... Ah sì!... c’è quello che dovevi prendere
tu.
— Fa dunque una cosa: trovati alla stazione.
— Alla stazione? Certo ve l’accompagneranno, e forse non potrò nemmeno
avvicinarmi a lei. Poi bisogna che sappia se parte proprio a quell’ora.
— Non v’è dubbio.
— Andiamo dunque fin là; forse qualcuno, uscendo, mi potrà informare.
— Credo che tu faccia male mostrandoti là intorno. Vi sarà certo un
grandissimo andirivieni di gente.
— Hai ragione, — dissi fermandomi. — Allora, senti, fa una cosa: vuoi
andar tu?
— Io?... Se non conosco nessuno?
— Che importa? Lascia il tuo nome, un biglietto da visita, o nulla, se
preferisci. Ma fingi di non saper bene la cosa e domanda notizie in
portineria, od in anticamera; informati se la signora è stata avvertita
interamente o solo in parte; se poi vedessi il Capuano, cerca di parlare
con lui.
Egli pensò un momento, poi disse:
— Va bene, ora vado. E tu?
— Io passeggio qui e t’aspetto. Prendi una vettura per far più presto. —
Gli diedi l’indirizzo ed egli andò.
Il turbine della mia mente a poco a poco si calmava; la mia vita, in
quel momento, per quel caso fortuito, si volgeva necessariamente verso
un altro destino. Quale? Non me lo chiedevo, non osavo chiederlo a me
stesso. E di quando in quando mi appariva la faccia pallida, supina su
le zolle arrossate, per fissarmi con i suoi occhi pieni di morte.
Era già quell’ora di requie nella vita febbrile delle grandi città,
quando i bottegai chiudono i negozi, e per le vie spopolate passano
carrozze vuote, giornalai ciarlieri, sartine che si lasciano inseguire
da corteggiatori insolenti, pedine che scodinzolano via, rosse di fresco
belletto, in cerca d’una cena. Fluttuava in alto una chiarità serena,
che orlava le lustre grondaie, riverberava su le finestre delle case,
traeva dai selciati balenanti una specie di aurora crepuscolare. In
quella luce ambigua, in quell’aria tepida, ventilata da qualche alito
intermittente, come soffi di primavera nell’estate, sotto il cielo ancor
rosso e tra la pallidezza dei lampioni, tutte le forme, tutti gli
avvenimenti mi si vestirono d’irrealità.
Poi, man mano, si fece buio; la vita serale ricominciò, gaia e rumorosa;
ricominciò la baraonda che mesce, travolge, disperde, confonde in un
solo turbine il frastuono della eterna spensieratezza umana, dell’eterno
passare, benchè ognuno singolarmente si affatichi a credersi qualcosa e
dia soverchio peso alle sue piccole tragedie da burattini.
Si vive, si muore; si va in basso, in alto; si vince, si perde; si ama,
non si ama più... Ebbene, tutto ciò che importa? Grotteschi ed effimeri
passiamo: con noi mille altri passano; dopo noi vengon altri mille, a
perpetuare la nostra mediocrità... E la folla irridente, insolente, ci
ascolta un momento curiosa, poi si volge altrove, piena di rumore,
trascinando con lievità e con fatica il peso delle sue mille catene.
Mi pareva d’esser caduto in mezzo ad un mondo d’automi, ove tutto fosse
imprecisione, fugacità, fantasma, sogno. Camminavo in su, in giù per il
popoloso marciapiede, sostando di tratto in tratto.
Ricordo che un vecchio lacero s’era fermato contro il muro ad accendere
la pipa, e le sue mani si movevano lente, quasichè sollevassero
invisibili pesi. Accese tre zolfanelli e tre volte l’aria li spense.
Alla luce della fiammella il suo volto rugoso e barbuto s’illuminava
d’un giallor di cartapecora, la pipa carica gli tremava tra i denti.
Passò un monello e prese a schernirlo; il vecchio borbottava,
minacciandolo con la mazza.
Più in là due bimbe mangiavano una mela, mordendone a volta a volta un
boccone ciascuna, e quand’ebbero solo il tòrsolo, se lo presero fra i
denti, ambedue, con le bocche vicine, mettendosi così a girare come
trottole intorno ad un perno.
Tutto questo io rammento con singolar precisione, quasi fosser memorie
intimamente confuse nell’angoscia di quella sera.
Finalmente il d’Hermòs arrivò. Tutto scomparve, la realtà riprese il
sopravvento.
— Ebbene, — domandai ansioso, mentr’egli pagava il vetturino, — hai
saputo nulla?
— Sì, ma non è stato così facile. Nessuno poteva comprendere il mio
italiano; poi c’era una tale confusione in quella casa!... La portineria
e l’anticamera sono assediate; finalmente trovai un maggiordomo dal
quale mi son potuto far intendere. Dunque: la signora sarebbe stata
informata esattamente della cosa dal Capuano, e parte alle otto e
quaranta, come si prevedeva.
— Grazie. Non hai potuto sapere altro?
— Null’altro. C’era troppa gente; le persone di casa parevano impazzite.
— Ed il Capuano?
— L’ho veduto passare in anticamera un momento; correva, tutto stravolto
in viso. L’ho chiamato, ma non rispose; non rispondeva a nessuno. Ho
inteso che andava a preparar la borsa perchè accompagna la signora.
— Grazie ancora, — risposi stringendogli la mano. E guardai l’orologio.
— Senti, Elia, sono quasi le otto; va tu a pranzare; io mi dirigo verso
la stazione.
— E perchè mai? Preferisco attendere il tuo ritorno.
— Dove m’aspetterai?
— Al Circolo, se poi vi pranzeremo.
— Questa sera è meglio di no, ti pare? Aspéttami al Colonne. Sai dov’è?
— Sì, press’a poco. Del resto ti accompagno qualche passo ancora, poi
prenderò una vettura.
— Dunque dicevi che v’era molta gente?
— Moltissima: ne arrivava ogni momento.
— E non ti fu possibile sapere come la moglie abbia ricevuta la notizia?
— Questo non ti saprei dire. L’ho anzi domandato al maggiordomo: egli mi
rispose due volte: — «Eh, capirà!... capirà!...» In tal modo non ho
capito niente.
Poi soggiunse, con un sorriso ambiguo:
— Ho teso l’orecchio per ascoltare se arrivassero gridi, ma nulla mi
giunse. Può darsi che fosse in una stanza lontana... Scendendo, vidi il
cocchiere attaccare i cavalli; sul portone intesi un giovinetto, che
usciva davanti a me, dire al compagno: — Chissà l’altro!... — L’altro
dovevi esser tu; ma il séguito mi è sfuggito.
— Questi chiacchieroni, per Dio! non rispettan nulla.
— Che vuoi? È involontario. Un’associazione d’idee, null’altro. Anch’io
penso a te.
— Cosa pensi, se è lecito?
— Oh, molte cose! Intanto che trovo splendido quell’antico palazzo...
— Via, finiscila dunque! A rivederci: prendo una vettura perchè voglio
giunger prima di lei. Ci rivedremo al Colonne.
— C’è un proverbio che dice: — «_Mors tua, vita mea_». Sai il latino? A
rivederci.
Giunto alla stazione, mi fermai davanti all’entrata per attender
Edoarda.
Lì, davanti a quella piazza folle di lumi, dove, nel fondo,
biancheggiava la fontana come uno straordinario fiore, mentre per l’aria
solcavano i fischi delle impazienti locomotive, e la gente frettolosa e
le vetture pigre si confondevano in una specie di affaccendata ridda, mi
rammentai tutte le partenze, tutti gli arrivi che per me si erano
variamente compiuti, lì, su quella piazza medesima, durante la mia così
diversa vita. Ricordai una mattina di sole, splendidissima, ed una sera
quasi tragica, nel chiarore dell’autunno, quando la città neroniana
esalava nell’aria pesante il lezzo della sua grave antichità, e la
patria mi suonava esilio, poichè avevo sacrificato per sempre ad una
donna straniera tutto ciò che nel mondo può essere poesia.
Mentre mi smarrivo in questi pensieri, d’un tratto vidi sbucar nella
piazza la pariglia dei De Luca, ed appena la carrozza fu giunta,
m’avvicinai, tenendomi rispettosamente a qualche passo dallo sportello.
Sùbito ne saltò fuori il Capuano, e dietro lui una cameriera già vestita
a lutto. Fabio dette qualche ordine alla donna, parlò rapidamente allo
sportello e mi passò davanti frettoloso, borbottando:
— Ah, sei qui?... Bravo! Ci rivedremo fra un paio di giorni... — E si
allontanò.
Mentre il domestico ed il facchino scaricavano le valige, la cameriera
si pose accanto allo sportello, mentre appoggiandosi al suo braccio
Edoarda ne uscì.
Era vestita di nero, con un velo di crespo su la faccia pallida. Il
cocchiere si scoverse il capo, e, curvatosi, le mormorò qualche sillaba,
cui ella rispose con un cenno. Forse il buon uomo le affidava un saluto
per il padrone morto.
Un po’ tremando, anch’io m’avvicinai; le tesi la mano: ella strinse le
mie dita, forte, forte, senza guardarmi, e sùbito ritrasse la mano,
quasi con paura. Non seppi cosa dirle, o troppe frasi, che non osai
profferire, mi vennero insieme alle labbra. Ella rimase perplessa un
attimo, poi si mise a camminare.
L’accompagnai fin nell’atrio della stazione; vidi allora, nella piena
luce, che il suo viso era straordinariamente bianco e negli occhi aridi
le sue pupille splendevano con una fissità quasi d’allucinata; i suoi
lineamenti eran fermi nella tensione di uno sforzo visibile; coi denti
si teneva l’orlo del labbro inferiore, quasi per frenarne il tremito.
Fabio, ad uno sportello, stava comperando i biglietti.
— Volevo almeno vederti... — le dissi piano. — Ora ti lascio.
— Sì, lasciami; è una cosa orrenda... — ella rispose con una voce priva
d’accento, senza quasi muovere le labbra. E chinando ancor più la fronte
soggiunse, in un modo appena intelligibile:
— Ti scriverò poi...
Mi strinse di nuovo la mano, a lungo, più forte... Un pensiero mi venne,
subitaneo, brutale: «Quella stessa mano, poche ore innanzi, mi aveva
prodigate le carezze più folli, e certo le sue labbra smorte sapevano
ancora de’ miei baci...» — Tutto nella vita è così: un’irrisione, un
gioco; ed il peccato, il dovere, la volontà, il ribrezzo, l’amore, la
morte, si mescon necessariamente insieme, come nell’intreccio di una
commedia imprevedibile.
A capo scoperto mi ritrassi, ed ella rimase nel mezzo della sala,
immobile come un’erma, sotto il velo nero.
Andai vicino a Fabio con un po’ di titubanza e gli dissi:
— Posso aiutarti a far qualcosa?
Egli aveva due biglietti fra i denti, un altro in mano, i guanti, il
portafogli ed una borsetta posati davanti allo sportello.
— No, no, grazie — rispose mordendo i biglietti; — faccio tutto da me. —
Dopo essersi bisticciato non so a qual proposito con l’impiegato, cacciò
tutto alla rinfusa in una tasca, e con la spolverina da viaggio aperta,
che gli sventolava intorno alle gambe, corse a spedire il bagaglio. Lo
seguii con una specie di obbediente umiltà.
Gridò al domestico, ai facchini:
— Su dunque, fate presto! portate qui la roba!
— Ma spedisce anche questo, il signore? — obbiettò il domestico,
mostrando una sacca di tela grezza.
— Sì, tutto si spedisce! Tutto, meno la borsa della signora. E tu, —
disse alla donna, — stalle vicino! Cosa fai qui?
Edoarda era sempre nella medesima positura, con la fronte china, la
borsetta che le pendeva dal polso, le mani congiunte, immobile. Alcune
persone, ferme, l’osservavano bisbigliando.
Quando il Capuano ebbe terminata la sua faccenda, si volse a me
rapidamente:
— Cosa ne dici dunque? Nulla, è vero? Sono i casi della vita. Bah!...
fammi un piacere: va tu dall’amministratore dei De Luca — sai,
l’Agostini — e digli che provveda per le partecipazioni sui giornali.
Combina tu stesso l’annunzio, ti prego. Me ne è mancato il tempo. Credo
che torneremo sùbito, portando il morto con noi. A rivederci.
E corse vicino a Edoarda, la prese dolcemente sotto braccio, come un
padre, parlandole piano. Io rimasi finchè il treno fischiò, e non ebbi
l’ardire di seguirli dentro la stazione.
Ma dovunque mi volgessi, m’appariva la faccia pallida, supina su le
zolle arrossate, che nell’ánsito estremo cercava di fissarmi con i suoi
occhi pieni di morte.


X

Questa è la lettera che m’inviò Edoarda, tre giorni dopo il suo ritorno,
quando già il corpo dell’infelice barone giaceva sotto la terra e su la
fossa recente si andavano sfogliando le corone appassite:
«È forse orrendo quello ch’io faccio — amore mio, — ma sei la sola
persona che me lo possa perdonare, la sola che possa guardarmi
nell’anima senza provarne un senso di paura. Metterò questa lettera in
buca nell’andare domattina, come ogni giorno, al cimitero... Vedi: è
atroce. Ma come fare altrimenti? Mi disprezzerai anche tu, Germano? Io,
dentro di me, ne son tutta rabbrividita. Non pensiamo, non pensiamo a
quello che è stato! Vi son coincidenze che atterriscono... Mi ripeto
senza requie: «Dov’ero, dov’ero mentr’egli moriva?...» E se credessi
molto in Dio ne dovrei temere una grande vendetta. Cerco invano di
persuadermi ad un cinismo che non sento, e mi dico: «Egli forse mi ha
sposata solamente per il mio denaro; forse non mi amava, nè in fondo gli
dovevo alcuna gratitudine...» Eppure, che vuoi?... queste incerte parole
non bastano; la coscienza, ribelle a tutte le vane parole, mi si lacera
dentro. Poi, non scompare così tragicamente un uomo, del quale si è pur
stata la moglie, senza che se ne provi un’angoscia viva, come se lo si
avesse veramente amato. Una voce interiore mi assilla di continui
rimproveri, e mi dice: «Anche tu l’hai sposato per opportunità,
perch’egli almeno ti rendesse una vita fittizia, quando l’altra, la
vera, te l’avevano spezzata.» E infatti è stato buono con me. Senza
darsi la pena di troppe indagini, forse per un naturale istinto, aveva
indovinato il mio cuore, aveva compreso che anima ero, cosa potevo
dargli ancora di me stessa, e per indifferenza o per bontà se n’era
contentato, studiandosi di rendermi la vita serena e dolce. Quindi a
lui, come uomo, non debbo che riconoscenza.
Per questo avrei voluto serbare intatto il suo nome, vivergli vicino
tranquilla, chiusa ne’ miei sogni, senz’amore ma senza inganno. Ti giuro
che, sposandolo, il mio proponimento era ben questo; e di te pensavo:
«Nemmeno se tornasse a ginocchi... mai! mai!...»
Pensavo così, e per rimanergli fedele ho lottato... sì, con tutte le mie
forze ho lottato! Ma, che vuoi?... mi avevi conosciuta fanciulla, sapevi
com’ero, mi avevi tanto fatto soffrire... per te dev’essere stato facile
riprendermi, facile, quanto era per me impossibile il non abbandonarmi.
Anzi, più lottavo, e più, con uno sguardo solo, annullavi tutta la mia
volontà. Ti vedevo tornare come una volta e mi pareva che in ogni cosa,
nel mio respiro medesimo, ci fosse una forza irresistibile che mi
trascinasse verso di te. Io son nata per volerti bene, per essere tua;
tutto il rimanente non fa che passare accanto alla mia anima.
E, vuoi che ti dica la verità? Sposandomi, oltre a quel proposito, avevo
anche un desiderio diverso: volevo rinnovarmi, vivere io pure una vita
rumorosa, rendermi vietata, invidiata... ma solo per piacere a te.
Credevo che la mia forza bastasse per godere questa intima vendetta
senza lasciarmi vincere da lei.
Perdonami dunque se ora cerco in te un rifugio contro il mio rimorso.
Ora egli è scomparso. Poich’era migliore di quanto supponessi, rimane in
fondo al mio cuore la memoria quasi d’un amico, ed il pensare a lui mi
fa profondamente male. Ma, quando me lo dissero, sùbito, come in un
baleno, senza potermelo impedire, il mio pensiero corse a te; fu quasi
uno sprazzo di luce nel buio che dentro mi stringeva — una visione
ch’ebbi vergogna di aver guardata...
La pietà mi vinse poi, e divenne affannosa quando lo vidi morto, su la
bara, con la testa fasciata e sfigurata, le mani chiuse, la bocca torta
in uno spasimo di dolore Oh, come ho pianto! E lo devi comprendere,
perchè, davanti a lui, mi sentivo infinitamente colpevole. Mi pareva
ch’egli avesse tutto sofferto per lasciarmi sgombra la via della
felicità.
Ora che ti scrivo è notte; non posso dormire; ho quasi paura; tuttavia
mi piace la notte perchè nessuno intorno a me cerca di scrutarmi
l’anima. Vorrei che l’alba non venisse mai. Lontano, laggiù, nei giorni
che non oso guardare, c’è tanto sole, tanto sole!... e cerco di aver più
paura, in questo silenzio, nel cuore della notte, perchè i miei occhi
non debban sorridere guardando il sole che laggiù brilla... Senti... e
poi no! mi devi comprendere senza che io lo dica. Noi dobbiamo avere
un’anima sola; e così, tutto quello ch’io sento, ch’io penso,
quand’anche fosse una colpa, resta come suggellato in me.
Sai? quell’idea mi ha perseguitato fin dal primo istante, per tutto il
viaggio, fin là... E più la cacciavo, più mi afferrava la mente, come
se, in mezzo alla tortura, mi sentissi crescere nel sangue un’ondata
infrenabile di gioia...
Volevo tacere, vorrei anche lacerare questa lettera, ne tremo come di un
delitto... ma ho tanto sofferto anch’io, che mi sembra quasi di poter
essere perdonata.
Fra qualche giorno partirò da Roma; andrò per intanto nella mia villa, e
forse, dopo, in un solitario villaggio di montagna. Mi dirai dove...
Addio.»


XI

Becchino che mi seppellirai, se tu sapessi che i morti parlano, avresti
certamente un senso di paura nel compiere il tuo lugubre mestiere.
In verità i morti parlano, ed io, quando verrai per seppellirmi,
comincerò con farti un lungo discorso e rettorico, del quale potrebbe
anche darsi che tu non intendessi una sillaba.
Ma questo che importa? È un bisogno bizzarro che i morti hanno di essere
una volta sinceri, quando più non li vigila nessuna prudenza umana,
quando più non li stringe alcuna vanagloria di sè stessi, e nel becchino
che li sdraia dentro la cassa di freddo rovere vedono quasi un ultimo
funzionario della società umana, che viene per buttarli nella fossa come
in un sacro immondezzaio; un funzionario alieno da metafisiche, immemore
d’essere a sua volta un cadavere imminente, quindi una persona di buon
senso, che valuta l’uomo e la sua spoglia con ammirevole semplicità.
Tu hai, becchino, l’abitudine della morte; non la temi non la veneri,
non la compiangi; con te si può dunque parlare.
Io non ti conosco di persona, ma t’immagino qual sei, anzi mi sembra
d’averti una volta incontrato, per istrada, o chissà dove, passando.
Poichè, di fatti, ogni vita finisce in polvere ed ogni uomo ha nel mondo
il suo becchino che l’aspetta. Qualche volta, uscendo fuor di casa, può
darsi che in lui ci s’imbatta viso a viso: ognuno prosegue per i fatti
suoi... ci s’incontrerà più tardi...
Più tardi. E mentre il mio becchino porta me al cimitero, avviene che il
suo proprio lo rasenti gomito a gomito, e passando gli getti un
mozzicone di sigaro fra i piedi. È singolare, ma non è forse neanche
triste. La vita, la morte: due diversi enigmi d’un fenomeno più grande,
che non conosciamo; due forze contrarie che si elidono, due potenze
nemiche ma inestricabili, che infuriano attraverso la materia, senza una
meta palese.
Ho scritto il libro della mia vita; vi manca una pagina: te la racconto,
becchino.
Dunque non ti conosco, eppure so come sei: un uomo robusto e ruvido,
qualcosa tra il facchino in livrea ed il sacerdote in abito civile. Sai
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