L'amore che torna: romanzo - 24

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piano l’alveare, con stenti e con amore, sviscerandosi ogni giorno un
poco, mentre noi, nella nostra vita, ne facciamo e distruggiamo a
decine, alveari grandi e piccoli, con una facilità stupefacente.
La fortuna infatti è soltanto nemica dei pusillanimi; ai forti ed agli
avventurieri essa ritorna sempre.
Di questi ultimi Elia d’Hermòs era un esempio singolarissimo. Pochi
avevano la sua risolutezza e pochi fors’anche la sua bontà. Non potei
ben comprendere s’egli avesse ancora su me qualche intenzione occulta;
sapeva così ben nascondere i suoi disegni ch’egli rimaneva perpetuamente
un attraente ma incomprensibile enigma. Fin verso la metà del pomeriggio
non era lecito sapere ove andasse nè cosa facesse; alle mie domande
rispondeva sempre con una risata sibillina, poi diceva con intendimento:
— Bah... visito Roma! C’è sempre qualcosa di nuovo in questa città
inesauribile.
Io l’invitai al nostro Circolo e fu comicissimo l’incontro di lui con
Fabio Capuano. Fisicamente si rassomigliavano un poco, ed entrambi
avevano inteso parlare l’un dell’altro molto spesso da me. Si studiarono
ambedue con grande cautela, poi Fabio mi confidò in gran segreto:
— Sai: quel tuo buon amico di Parigi mi ha l’aria d’un birbante
matricolato.
— Ma cosa dici, Fabio? Tu hai le traveggole da qualche tempo! Vedi tutto
a rovescio.
L’altro si limitò a dirmi:
— Dev’essere un po’ bisbetico quella tua specie di tutore...
Agli altri amici Elia riuscì prontamente simpatico: era bizzarro e gaio,
conosceva il cuore dell’uomo. In quel tempo invece le relazioni mie con
il Capuano si erano alquanto inasprite. Credo che avesse intuita la
verità su quanto concerneva Edoarda, e, torturato dal dubbio, mi
circuiva di domande tendenziose o di scaltre inquisizioni, mentre, nel
medesimo tempo esercitava la stessa indagine sopra Edoarda.
Un giorno tutto questo era finito con una discussione piuttosto vivace,
durante la quale mi erano sfuggite contro di lui alcune parole acerbe.
Ma il brav’uomo, vedendo inutile ogni scaltrezza, s’era preso ad un
partito estremo e pedinava Edoarda o me continuamente, per venirne in
chiaro.
Verso mezzogiorno me lo vedevo capitare in casa, con mille pretesti
futili; voleva che si facesse colazione insieme, poi mi si metteva ai
fianchi, risoluto a non lasciarmi finchè l’ora di qualsiasi convegno
fosse necessariamente passata. Oppure appostava Edoarda all’uscir dal
suo palazzo, e, talvolta con la pretesa d’esserle utile non si scuciva
da’ suoi panni, tal’altra nascostamente inseguiva le sue tracce.
Così, non di rado, mancavamo per sua colpa i nostri convegni. Vi sono
purtroppo moltissime persone, le quali, anche senza vantare le ragioni
di Fabio, si assumono gratuitamente il delicato incarico di vegliare su
la fedeltà delle mogli altrui.
Allora dovetti sobbarcarmi ad una vita oltremodo incomoda per sfuggire
alle sue ricerche; uscir di casa prestissimo, simular escursioni fuori
di Roma, dare ogni giorno pretesti nuovi, e talvolta, invece di dormire
a casa mia, passar la notte nel quartierino, dove più tardi Edoarda
sarebbe venuta, se pure avesse potuto sfuggir di mano al suo tenace
inseguitore. Per non tradirci, dovevamo sottometterci a queste servitù.
Ma infine mi stancai. Una mattina ch’era venuto a sorprendermi appena
uscivo dal bagno, rassegnatamente lo feci assistere a tutta la mia
vestitura, cercando intanto, con livor nascosto, il mezzo d’imbastire
con lui qualche litigio.
— Bada, — cominciai, — che stamane non potremo far colazione insieme.
— Oh, perchè?
— Perchè sono invitato da Elia d’Hermòs.
— Ah?... quel tuo personaggio equivoco, il quale non sa parlare nessuna
lingua correttamente? Faresti assai meglio se gli dessi un po’ di lungo.
— Tu, mio caro, hai presa l’abitudine di criticare tutto quello ch’io
faccio, in un modo che finirà con esasperarmi. Credo avere un’età, nella
quale posso finalmente far a meno del precettore!
— Oh, non bisogna toccarti su questa corda! Tientelo ben stretto il tuo
caro d’Hermòs! Per conto mio ti ripeto che mi ha tutta l’aria d’un
personaggio equivoco.
— In ogni modo ti prego di non propalare al Circolo queste tue
impressioni affatto arbitrarie.
— Oh, quanto a questo, potevi anche tralasciare di presentarlo al
Circolo!
— Toh! per farti piacere forse? A Parigi, sappilo, è socio
dell’«Agricole» e della «Rue Royale».
— Tutte le canaglie fanno parte dei migliori circoli; questa è regola
corrente.
— Insomma, pensane quello che vuoi: è mio amico, e ti prego, almeno con
me, di evitare questi grossolani apprezzamenti.
— Se stamane sei di malumore, me ne vado.
— Oh... lo dici, ma tanto non lo fai! Da qualche tempo ti ha preso di me
un amore sviscerato; non mi abbandoni d’un passo! E non che mi secchi,
sai... tutt’altro! ma te lo faccio notare semplicemente.
— Per voler bene a te occorre una buona dose di rassegnazione! Tu, gli
amici, li tratti come tuoi servi.
— Allora ti dirò che gli amici li ho sempre coltivati ed amati; ma tu —
inutile nasconderlo! — per una bizzarrissima idea che ti sei fitta in
capo, mi fai da poliziotto, e questo annoierebbe chicchessia.
— Da poliziotto? Veh!... questa è nuova! Sei liberissimo di fare o
disfare quel che ti pare e piace. Anzi ti chiederò perdono se, dopo
quindici anni d’amicizia, mi sono talvolta permesso d’entrare in
argomenti, come direi?... troppo delicati.
— Ma se questi argomenti, — e te lo ripeto per la millesima volta! —
sono una tua pura e semplice invenzione?
— Bah... bah!... padronissimo di nascondere i fatti tuoi, ma non volermi
anche abbindolare, perchè questo non serve! Io, bada bene, per tanti
anni ho avuta la stoltezza di crederti un uomo di buon cuore, un animo
nobile, e mi son fatto paladino ad oltranza di tutte le tue
scapigliatezze; ma oggi, parola mia, se muovo un passo, non è più per
te; — è per lei, poverina, che mi fa pena. Tu scherzi con le anime come
un giocoliere coi bossoli, e, poichè mi dai del poliziotto, io te lo
dico recisamente: Se oggi Edoarda è di nuovo la tua amante, hai commessa
una vera indegnità!
— Ma sei pazzo! pazzo! — esclamai alzando le spalle, e chinandomi verso
la pettiniera, perchè non mi vedesse in faccia. — E poi mi secchi! e poi
mi tedii! e poi sono stanco di sopportare queste inverosimili accuse! —
aggiunsi vibratamente — -Non lo è! Non lo è! te lo affermo ancora una
volta! Non lo è stata, non lo sarà mai! Ti basta? E se poi lo fosse, —
mettiamo il caso come assurdo — se poi lo fosse, mi domando cosa può
importarne a te? In nome di Dio, questa è una persecuzione che non ha
senso comune! Forse che sei geloso di questa donna e vedi lucciole per
lanterne? Oppure te ne hanno affidata la custodia? Fa dunque una bella
cosa! Va dal marito, mettigli questa idea nel capo e sarai soddisfatto!
Se tu divieni bisbetico io non ne ho colpa! Toh!
— Bene, bene, cálmati, — egli rispose freddamente. — Le ingiurie che mi
lanci, le metto con le altre, in disparte; verrà il giorno in cui ne
riparleremo. Quanto al resto mi limito a darti un avvertimento, e cioè
che la custodia d’Edoarda non me l’ha confidata nessuno; ma io me
l’arrogo, nel senso che chiunque voglia tenderle un’insidia, prima che
con altri dovrà fare i conti con me. Siamo intesi? Ed ora, a rivederci.
E uscì senza tendermi la mano.
— A rivederci, Fabio! — gli gridai dietro ridendo. — E non fare troppo
il sostenuto perchè io non sono affatto in collera!...
Da quel giorno le persecuzioni cessarono, o per meglio dire si fecero
più discrete. Quanta maggiore libertà mi diede, tanta ne tolse a
Edoarda, sfogando sopra lei sola i malumori che adesso era costretto a
risparmiarmi.
Edoarda me lo raccontava con indulgenza, pregandomi di non volerne a
quel povero amico, geloso e fedele come un vecchio cane. Egli le aveva
fatte le medesime scene, in un modo più dolce ma non meno accanito.
Vivendole accanto quasi ogni giorno, egli aveva potuto studiare, più
sopra di lei che sopra di me, le alternative del nostro amore, fin dai
primissimi segni, ed era difficile ingannare quel cuore attento. La sua
certezza ormai era indiscussa, e ne soffriva profondamente, come d’una
propria sventura. Gli uomini, anche i migliori, hanno sempre una parte
del loro innato egoismo che non riescono del tutto a soffocare.
Fabio, il quale si era sentito capace di rinunziare alla sola donna che
avesse davvero amata, per ottenere la sua felicità dandomela in isposa,
Fabio ch’era stato il suo consolatore con la dolcezza di un fratello, e
che aveva sopportato quel matrimonio con il De Luca pur di saperla
finalmente accasata e tranquilla, Fabio, che nel seno della famiglia
nuova si era serbato il posto del consigliere, del confidente, come
colui che conosceva tutti i segreti antichi, ora non poteva rassegnarsi
a veder tornare verso di me, per la via del peccato, questa donna
intangibile, quest’anima pura ch’egli aveva collocata al di sopra d’ogni
altra, in un paradiso d’idealità.
Egli si ostinava sempre a rivedere in lei la fanciulla di un tempo,
quella soave incarnazione di sentimento e di fragilità, senz’accorgersi
che una donna era fiorita vicino all’altra, viva e trepida, piena di
desiderii forti e di sensualità nuove. E non perdonava nè a me nè a lei
quel passo che avevamo compiuto, senza chiedere — per così dire — il suo
consenso, mostrando invece che, dopo averlo tenuto per indispensabile,
ora lo consideravamo quasi per il nostro primo nemico. In fatti eravamo
forse un poco ingiusti: quell’anima buona era tanto vissuta per noi.
Senza volerlo, egli contribuì alle ciarle che di quest’avventura si
fecero, poichè purtroppo le precauzioni e le scaltrezze a ben poco
servono.
In Roma se ne parlò, anzi se ne parlò assai; ma c’è una specie di
solidarietà mondana che salva sempre i mariti dal conoscere queste cose.
I begli spiriti concludevano, — come in séguito mi venne riferito:
«È naturale: doveva inevitabilmente finire così!»
Infatti le cose illogiche paion sempre naturalissime al mondo. Edoarda
era un’amante squisita; pareva che fosse nata apposta per ingannare un
marito, e nessuno avrebbe mai potuto supporre che tanta scaltrezza si
annidasse in quella sua testolina di bimba delicata e sentimentale. Vi
sono molti fiori che, quando si aprono, sono assai diversi dal bòcciolo
che li nascose.
Ella sapeva eludere tutte le sorveglianze con una maestria veramente
ammirevole; aveva trovato vari modi per potermi scrivere quando non era
lecito vederci, e gli avvenimenti più disparati le offrivano il mezzo di
preparare un nostro incontro. Non le feci mai visita in casa, per un
certo rispetto verso noi stessi, ed anche verso il marito, il quale mi
usava moltissime cortesie. Ma non evitavo di andarli a trovare in palco
nè di sedere alla lor tavola, quando c’incontravamo ai tè del
pomeriggio. Il De Luca del resto non apparteneva punto alla stirpe dei
mariti bisbetici od importuni; subiva molto il fascino della moglie e
non avrebbe saputo concepire su di lei un benchè minimo sospetto. Fabio
ci dava più molestie assai. D’altra parte il barone passava le sue
giornate in mezzo ai cavalli e sui terreni d’allenamento; spesso
lasciava Roma per seguire le diverse riunioni ippiche. Quei giorni
d’assenza erano la nostra felicità.
Una volta, alla vigilia d’una di queste partenze, ricevetti da Edoarda
un biglietto, in cui m’avvertiva che il giorno dopo sarebbe stata libera
fin dal mattino, e voleva che si facesse una gita fuor di Roma, per
visitare una certa locanda di campagna dove ci eravamo incontrati una
volta, molti anni addietro. Mi dava tutte le indicazioni opportune;
dovevo prendere un treno del mattino, poi attenderla alla stazione
d’arrivo. Questa era certo una temerità, sebbene in vicinanza di quel
paesello vivesse un’amica sua, la stessa che ci aveva servito di
pretesto la prima volta.
D’altronde si era verso la metà di Giugno e pochi si sarebbero
avventurati a far escursioni per quella calura.
Una gioia fanciullesca empì le anime nostre quando c’incontrammo, ed a
noi parve di trovare le delizie insolite nelle cose più semplici, come
ad esempio quella di mangiar abbastanza male ad una tavola rusticamente
imbandita, e passeggiare sotto un sole di canicola cercando
affannosamente la frescura dei boschi e il refrigerio delle fontane,
andandoci poi a rinchiudere in una camera di locanda, ove c’era un
immenso letto di noce rôso dai tarli, con sopra, sulla parete, il quadro
della Vergine Addolorata, che aveva tutto il seno aperto per ostentare
un cuore d’inverosimile grandezza, cinto d’un’aureola e trafitto da una
spada. Era una camera linda, non senza un’ostentazione di lusso
campagnolo, vasta, con mobili grandi, e v’erano — cosa orribile! — sul
caminetto, ai lati d’una pendola ferma, due vasi di fiori modellati
nella cera e protetti da una polverosa campana di vetro.
C’era in quella camera l’odor indefinibile del disabitato, dell’antico,
l’odore dei quadri che ingialliscono su vecchi muri, dei mobili che
scricchiolano quando appena si cammina, delle tende che hanno lasciato
il lor colore ai venti di molte primavere, e quel silenzio che fa
pensare agli amori dei tempi andati, agli imeni celebratisi nelle
braccia di quel letto possente, — pensiero che potrebbe forse dar noia
se fosse cosa recente, ma sollecita ed esalta invece, come tutte le cose
che vengono da lontano. Poi avevamo portato grandi mazzi di fiori
selvatici, côlti nella foresta; Edoarda, buttandoli sul letto, rideva di
un riso fresco e giovine.
Portava un abito leggero come una sciarpa di velo, un’alta cintura di
pelle color dell’indaco, la gonna succinta, le calze traforate, le
scarpine bianche. Aveva le maniche della camicetta corte fino al gomito
ed un paio di guanti che le calzavan alto, inverditi nel palmo dall’umor
vegetale dei fiori strappati. Portava un cappello semplicissimo, ch’era
di paglia fiorentina, con le falde spioventi a mo’ di campana, ed un
largo nastro lo fasciava, colore anch’esso dell’indaco, facendole sopra
la fronte un bel nodo, a somiglianza di due grandi ali aperte. Le
scendeva sino a mezzo il petto una doppia fila di perle, ch’entravano a
nascondersi nell’abbottonatura, ed ogni tanto scintillavano, tra la sua
pelle ed i fori della camicetta. Era più fresca d’una fontana in quella
torrida estate.
Mi gettò le braccia intorno al collo, mi coverse di baci:
— Germano, ti ricordi? Fu qui! fu qui!...
La sua padronanza era sorprendente; aveva detto ella stessa
all’albergatrice:
— Conosco una camera della vostra locanda: voglio quella.
Si rammentava il numero, e lo disse.
— Ma, signora, — obbiettò la vecchietta — l’albergo adesso è rinnovato;
ve ne sono altre assai migliori.
— Non conta, non conta! Vogliamo quella.
E coi fiori sulle braccia, saltellando per le scale, vi andò con gioia.
Riconosceva il cammino.
Lenta lenta, la vecchietta, che cicalava noiosamente, cambiò l’acqua
nelle brocche, mostrò che i lenzuoli, un po’ ruvidi eran freschi di
bucato, aperse le finestre, calò una tendina, domandò se volessimo
caricar la pendola... poi scese. I suoi zoccoli facevano su
l’ammattonato un picchierellar distinto, che s’allontanava. Edoarda mi
scoccò su la bocca due forti baci, ridendo. Impaziente le circondai con
un braccio la vita, e, per attendere che la vecchierella tornasse,
andammo a guardar fuori dalla finestra, sul cortiletto che meriggiava.
Una gallina, tutta gonfia, si strofinava le ali contro un covone di
paglia; c’era un barroccio staccato, con le stanghe all’aria, davanti
alla stalla; le innamorate colombe tubavano con soavità, nascoste dentro
le celle dell’appaiatoio.
Poi la vecchierella tornò, portandoci due bicchieri di caffè ghiacciato
e un tale suo vinetto chiaro chiaro, che ad ogni costo voleva lo si
provasse.
E domandò se volessimo un bel vaso per i nostri fiori, e se fossimo
signori di Roma, e quando fossimo giunti, e se avesse da prepararci una
buona cena per l’imbrunire; e parlava e parlava, con la sua vocina
stridula come il gridìo delle cicale che là fuori strillavano, finchè
Edoarda si buttò sul letto e finse d’aver sonno, perchè la vecchierella
se n’andasse con Dio. Allora chiusi l’uscio a chiave, la strinsi nelle
mie braccia e scoppiammo a ridere di felicità, in un bacio che ad
entrambi gonfiava la gola.
Il calor del giorno le accendeva il sommo del viso; i suoi capelli
nerissimi luccicavano come un ebano polito.
Aveva un gesto suo, fin da quando era fanciulla: nel baciarmi, con una
mano mi copriva gli occhi; un gesto che poteva essere pudore nella
fanciulla ed era nella donna un desiderio di maggiore voluttà.
La svestii; nella sua camicia diafana pareva una rosa ravvolta in un
velo; serrava, tra le labbra aperte, i denti minuti; gli occhi desiosi
le brillavano al sommo delle guancie scolorate.
Ma fuori, che cantar di cicale, che tubar di colombe nascoste, che
incantamento! che pace!... Oh, amori nella calda estate, mentre il sole
avvampa l’arsa campagna e le cortine fan buia la camera, in un decrepito
letto, con un’amante giovine!...
————
Un po’ ebbra, scese dal letto e andò verso il canterano, a cercar
qualcosa fra gli anelli e la catene che vi aveva deposti confusamente.
Nella penombra i suoi piedi scalzi biancheggiavan sul tappeto senza
colore.
— Che fai?
— Nulla... — E tornò d’un balzo. Le sue braccia mi avviluppavan come
giunchi, eran forti e fragili, di una bianchezza straordinaria.
— Dammi la mano sinistra e non guardare, — mi disse. Le diedi la mano e
guardai.
— No, chiudi gli occhi!
E mi passò nel dito un anello.
— Che fai?
— Nulla: un capriccio mio. — E mi chiuse il pugno, nascondendolo contro
di sè. I suoi capelli sciolti ingombravano tutto il guanciale; aveva il
ventre polito come una tonda porcellana.
— Lasciami vedere... — le dissi; e nonostante il divieto, guardai. — Ah,
no, Edoarda! questo non voglio! sai bene che non voglio! — E feci per
togliermi l’anello che mi aveva dato. Ma ella, sollevatasi alquanto sul
gomito, mi serrò la mano e mi costrinse a piegare il dito. Era un
brillante nitidissimo, che nel buio risfavillava.
— Insomma, no! — esclamai.
— Silenzio!... — E con un bacio mi chiuse la bocca; poi soggiunse:
— Vuoi rendermi triste?
— No, ma vedi, non posso accettare tutti questi regali che mi fai...
— E tu, allora?
— Io?... Ma è tutt’altra cosa! Invece i tuoi regali mi offendono! Sii
buona; ripréndilo.
— Allora mi farai piangere... Una volta non facevi così.
— Una volta era cosa ben diversa, Edoarda.
— E perchè poi?
Risi e non volli rispondere.
— Dimmi dunque il perchè?
La sua pelle odorava di fresca Lavanda e forse d’una cipria tenuissima
che la copriva come un pòlline.
— Prima di tutto — risposi, — questi non sono regali che si possono
accettare. L’avrei rifiutato anche allora. Del resto, eravamo fidanzati;
e poi, una volta... ma Dio buono, perchè me lo vuoi far dire?... è una
sciocchezza!
— Bene, dilla.
— Una volta, insomma, ero più ricco! Adesso mi pare...
— Oh, come sei ruvido! Perchè dici queste cose? Vedi, sei tu che mi
offendi!
Lasciò cadere il gomito che la reggeva e nascose la fronte contro la mia
spalla. Dagli interstizi delle tendine filtravano lame di sole,
polverose.
— Sei sempre lo stesso! — continuò. — Chi pensa a queste cose facendo un
regalo? Certo non te l’avrei potuto comperare, perchè se ne sarebbero
forse avveduti; ma lo avevo; era un gioiello che tenevo caro, e per
questo appunto mi piace che lo abbi tu. Te l’ho fatto solamente
rilegare. Vedi, e sapevo bene la misura del tuo dito. Hai l’anulare
appena un poco più grosso del mio póllice... Senti: rimane mio, se vuoi,
ma pórtalo tu, sii buono!
E le sue labbra mi passavano sotto la gola, su la bocca, su la fronte,
con soavità. Una sottana di seta, su la spalliera d’una seggiola,
percossa da una freccia di sole mandava sprazzi irridescenti, come fosse
d’oro.
— Che bimba! che bimba! — esclamai, carezzandole i capelli.
— Ecco, — ella disse con voce addolorata, — invece di farti piacere, ti
ho reso triste... Che brutto carattere hai! Non si può dunque farti un
regalo? E sono certa che se domani, per esempio, tu avessi un fastidio
qualsiasi, andresti chissà da chi piuttosto che dirlo a me.
— Oh, questo poi è naturale! — esclamai ridendo.
— Ecco: è naturale!... Vedi come parli tu!
Mi ricinse con le braccia, si fece piccola piccola, vicina vicina, e mi
disse:
— Purtroppo tu non riesci a comprendere ch’io voglio confondere la mia
vita nella tua, quasi non esistesse fra noi alcuna differenza. Non devi
per me avere secreti! Tu ed io, io e te, fa lo stesso; nessuna paura ci
deve mai dividere. Qualsiasi cosa m’accada, io te la racconto, e te la
racconterò sempre; tu invece ti nascondi. Perchè? Certo perchè mi
consideri come tutte le altre amanti che hai avute; non come l’amante
unica, vera, quella che può sapere tutto.
Ed il sole era venuto fin sul letto, le dorava una gamba ignuda,
guizzando sul raso del copripiedi.
— Ma non ti nascondo nulla, — osservai. — Non mi è possibile amarti più
intensamente.
— Allora, poniamo un caso. Se tu, domani, avessi bisogno di denaro —
via, non irritarti, perchè ho detto poniamo un caso... — dunque, se
domani tu avessi bisogno di denaro, lo diresti a me? permetteresti a me
di aiutarti?... No, è vero?
— Certamente no, — feci con un sorriso.
— Ecco, ed invece io non voglio! Pretendo che tu me lo dica sùbito,
perchè, se domani, per esempio, ne avessi bisogno io, te lo direi
sùbito.
— Ma è un’altra cosa.
— Come un’altra? No, è la stessa, identicamente la stessa! Tu, vedi, non
arrivi a pensare come penso io, a volermi bene come te ne voglio io.
Tutto è lecito fra noi, perchè io sono la stessa cosa di te, tu di me...
comprendi?
— Sì, amore, però non bisogna che io dimentichi...
— Invece bisogna dimenticare tutto! Quello che gli altri fanno, o
pensano, è fuori di noi. Dobbiamo essere al di là da tutte le
convenzioni, e solo amandomi come ti amo lo potrai comprendere. La mia
gioia più grande è quella di poter indovinare un tuo desiderio: se me la
neghi mi fai male.
— Dunque non parliamone più! Tengo l’anello e vi farò incidere la data
di questo giorno.
— Sì, mio amore...
E si abbandonò sul letto, impudica ed innocente, nel tremore dei sensi
che riaccendeva la sua giovinezza.
Il copripiedi soffice, di bella seta chermisi, spiumava da invisibili
scuciture ad ogni moto che si facesse, e tanti piccoli fili, colore
della luce, lievi come una polvere di seta, navigavano via, piano piano,
salendo nel raggio di sole.
— Mi sento così felice... — mormorò, — troppo felice!... — Oh, se la
vita potesse tutta somigliare a queste ore che fuggono!...
— Forse non dipende che da noi, — le risposi.
— Da noi, e da troppe altre cose. Io, vedi, non ho ancora provata la
gioia di vivere con te un intero giorno, da un’alba fino all’altra. E
poi un giorno è poco! Un mese, vorrei, un anno... sempre! Come invidio
le donne che son libere, che possono darsi al proprio amore senza nessun
impedimento! Qualche volta sogno che tu potresti portarmi via, con te,
in un altro paese, dove nessuno riuscisse mai a ritrovarci... Dopo
tutto, che importa il resto? Non ho che te, amo te solo. E non puoi
credere com’io senta il bisogno di occupare tutta la tua vita,
d’investigare, di conoscere... Le cose meno importanti son quelle che
più mi fanno sentire questa mancanza di libertà. — Ed aggrappandosi a me
con un fervido impeto: — Rispóndimi dunque: mi vuoi bene davvero?
— Sì, amore lo sai.
— Molto?
— Infinitamente.
— Sino a quando?
— Fino a sempre.
— E, dimmi, dimmi una cosa! Non pensi più a... nessuno?
— Bambina che sei!... Penso a te, a te sola.
— Questo lo dicevi anche allora, poi...
— Ma è stata un’aberrazione, come ti ripeto ancora. I nervi e nulla più.
— Già... i nervi, tu li fai servire a tutto!
Sollevata sui gomiti, s’empì le mani de’ suoi capelli sciolti e mi
fasciò la gola.
— Scommetto, — prese a dire, fra scherzosa e titubante, — che vi pensi
ancora un poco...
— Nemmeno per sogno, mai.
— Qualche volta sì però... senza volerlo... Dimmi la verità!
— Ma no, amore: ho dimenticato assolutamente.
— Giùralo!... cioè è inutile, perchè i tuoi giuramenti non contano.
— Se vuoi, te lo giuro.
— E, dimmi: quando le volevi bene, le volevi bene più che a me?
— Non ho mai amato come ti amo.
— Ma era più bella, però...
— Era diversa.
— Cioè, come? bionda?
— Sì, bionda.
— Grande?
— Un poco più di te.
— Con gli occhi azzurri?
— Mi fai sempre le stesse domande!...
— Non importa, rispondi: che occhi aveva?
— Scuri.
— Allora ti piaceva più di me!
— Amore, mi fai ridere! Se mi fosse piaciuta sarei dunque rimasto con
lei.
— Non hai un suo ritratto?
— Me li hai fatti bruciare tu.
— Ma certo ne avrai altri, nascosti...
— No.
— Giùralo... cioè... bene: giura lo stesso.
— Te lo giuro.
— Ed io non ti credo! Bada!... Vorrei venire una volta nella tua casa...
Chissà quante cose nascoste vi sono!...
— Eh!... una quantità!
— Però lei ti scrive...
— Non una lettera, non una sola.
— Che fa?
— Lo ignoro.
Nella camera gonfia d’estate filtrava un pallor di crepuscolo, denso di
luminose ombre; le cicale a poco a poco affievolivano il loro canto; i
galli rumorosi empivano di chiacchierate il cortile. Un poco d’oscurità
le si raccolse nel viso affaticato; aveva i seni erti, la gola bianca, e
l’amavo.


IX

Tre giorni appresso, lasciata Edoarda poco dopo le cinque del
pomeriggio, m’affrettai verso casa, dove sapevo che il d’Hermòs sarebbe
venuto a salutarmi, dovendo egli nella serata ripartire per Milano e
Parigi. Lo trovai difatti che m’aspettava su la terrazza, fumando.
— Sono in ritardo; scusa. È molto che sei qui?
— Dieci minuti appena.
— E parti proprio stasera?
— Sì, alle otto e quaranta.
— Allora, senti: mi cambio in cinque minuti e vengo a pranzo con te.
— Non voglio che ti disturbi; tu non sei uso a pranzare così presto.
— Che importa? Ho quasi fame. Vieni di là, così non perdo tempo.
Ludovico mi aveva tutto apparecchiato, e mi spogliai rapidamente.
— Dunque, — disse il d’Hermòs, — prima che si parli d’altro, ricordati
che ho la tua promessa per la fine d’Agosto.
— Puoi contarvi. Nell’ultima settimana d’Agosto verrò ad incontrarti ove
sarai, e passeremo un mesetto insieme.
Edoarda in quel tempo sarebbe stata in viaggio col marito e, senza
dubbio, con il Capuano.
— Guai a te se manchi di parola!
— Se mancassi... al diavolo queste camìce stirate così male!... dunque,
se mancassi, ti do il diritto di venirmi a prendere con la forza.
Ludovico! Ludovico!
— Via! non ti affannare così. Abbiamo tutto il tempo necessario. E,
dimmi: per Elena nessuna commissione?
— Nulla, nulla! È cosa finita. La vedrai?
— Probabilmente, se non ha lasciato Parigi.
— Qualora tu le parlassi, non raccontarle nulla di me. Se poi ti
chiedesse mie notizie, — cosa improbabile, — dille semplicemente che
vivo una vita tranquilla.
— Era necessario che tu me ne avvertissi perchè le avrei detto proprio
il contrario, e cioè che impieghi molto bene il tuo tempo, — esclamò con
intendimento.
— Che vuoi dire? — obbiettai sorridendo.
— Eh, via! Posso ammirare il tuo riserbo senza lasciarmi però ingannare.
Poi, francamente, non ci vuole molta penetrazione; credo anche di sapere
con chi...
— Forse te l’ho lasciato supporre io stesso: ma tu, per fortuna, sei un
uomo discreto.
— E guai se non lo fossi! Hai cambiato colore: una bruna. C’è la legge
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