L'amore che torna: romanzo - 03

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Queste meditazioni confuse avvincevano il mio pensiero, mentre andavo
considerando meco stesso l’imminenza di un colloquio con Edoarda.
Allora, per quel senso d’improvvisa divinazione che mi ha sempre
soccorso in tante ore difficili della mia vita, quel senso figurativo,
che suscita negli occhi la visione scenica di un fatto imminente,
compresi tosto l’assurdità ed anche la ripugnanza d’una scena di
commiato, viso a viso, dicendo le parole necessarie, deciso a tutto.
Mi parve che avrei meglio potuto giungervi per una via trasversa, con
arte, senza vibrare una ferita brutale, ma infliggendole a poco a poco
la morte di questo amore, facendole intendere questa legge umana del
perpetuo dissolvimento, della perpetua fine. Mi parve che il far meno
soffrire fosse ancora una delicata pietà, e pensai di muovere nell’animo
suo quei sentimenti che sono la vera forza del dolore, poichè inducono a
misurare un desiderio di vendetta.
Pensai: «S’ella sapesse odiarmi!»
E l’idea che nelle deboli sue membra potesse ancora insorgere l’odio,
questa magnifica ribellione, me la fece improvvisamente apparir più
bella.
«Sì, odiarmi ella deve, con la violenza ch’ella seppe infondere
nell’amore; odiarmi per tutte le lacrime piante, per tutte le ore di
giovinezza lasciate sfiorire in silenzio. Questo solo è degno di
un’anima. Dopo avere amato io non saprei che odiare.»
Ma ecco, facendo questo pensiero, d’un tratto m’apparve la visione di
Elena, perduta per me, lontana, irridente con altri alle memorie di un
nostro lungo amore. Un senso di vertigine mi strinse, avrei voluto quasi
levarmi per correre a lei.... Compresi come non sia possibile odiare la
creatura che fu da noi supremamente amata, compresi quanto il mio
pensiero somigliasse ad un freddo egoismo, in cerca di placar la voce
del rimorso, e mi sconfortò la sofferenza che tremava nella stanchezza
di quegli occhi mansueti.
Ebbi ancora bisogno di essere dolce con lei, di rivolgerle una parola
buona. Le dissi piano:
— Tu non sai come soffro nel vederti così...
Su la sua povera bocca, ne’ suoi tristissimi occhi azzurri, brillò
rapidamente una luce che non parve sorriso, ma fu come un segno di
sconforto inutile, di rassegnazione stanca.
E soggiunsi più forte:
— Voi non mangiate nulla; perchè? Vi ammalerete, Edoarda.
La zia tentennò il capo, guardandola: trasse un lungo sospiro e mormorò:
— Benedetta ragazza! benedetta!
Edoarda non cessava tuttavia dal circondarmi di tante piccole premure.
Senza volerlo, come in forza d’una abitudine antica, il suo sguardo
ricorreva sempre alla mia persona, temendo che potessi avere un
desiderio qualsiasi, o che alcuna cosa non fosse abbastanza curata per
me. Faceva segno al domestico di versarmi vino se appena il mio calice
era vuoto; una volta, non avendo più pane, feci atto di domandarne:
rapida, ella mi diede il suo pane, intatto — e sorrise perchè le
sorrisi.
Mi salì nella mente una frase che un giorno le avevo scritta:
«La tua anima è come una lampada votiva: non si stanca mai di ardere,
tutelando la mia pace».
Questa immagine funeraria non mi era mai sembrata così vera come in quel
giorno.
Parlammo ancora, di cose non gravi. A poco a poco la zia, commossa dalle
mie gentilezze, dimenticava di essermi ostile, con la solita indulgenza
del suo carattere. Anche Edoarda pareva un poco sollevarsi dalla sua
prostrazione, e Whisky, accucciato su le mie ginocchia, di tanto in
tanto faceva capolino col musetto su l’orlo della tavola per lambirmi
l’orlo del piatto; se io ridendo lo battevo leggermente, allora mi
fissava con impertinenza e mi abbaiava contro, quasi maravigliandosi
della mia tracotanza.
Dall’insieme di questi e d’altri piccoli fatti compresi come un poco di
destrezza e di buon volere da parte mia sarebbero stati più che
sufficienti a riparare senz’altro l’accaduto. Ma questo pensiero mi
dispiacque, poichè vedevo per esso come tutti eran ancor lontani
dall’ammettere la possibilità della mia scomparsa da quella casa, ove,
allo spirare d’un lutto, avrei dovuto entrare, fra un’allegrezza di
sponsali, riaprendo a conviti e feste le sale da lunghi anni taciturne.
La colazione era finita. Edoarda si levò in silenzio, andò a prendere le
sigarette che amava comprarmi e scegliermi ella stessa; portò anche una
scatola in cui erano alcuni sigari prelibati: me li offerse tacitamente,
senza guardarmi, però mettendo una infinita cura nel toccare le cose che
per sua volontà mi appartenevano, cose che adoperavo io solo. Erano le
scatole mie: nessuno le doveva nemmeno aprire. Per gl’invitati ve
n’erano altre; anche il domestico lo sapeva, e guai se non ne avesse
tenuto conto! Così, quand’io venivo, Edoarda faceva ella stessa il
caffè, in una macchina di rame a filtro, e c’erano per lei e per me due
piccole chicchere uguali, d’una porcellana tenue come la madreperla.
Quelle servivano per noi, solo per noi.
La zia, siccome beveva troppo caffè, aveva una sua chicchera più grande.
E così fu pure quel giorno, per un tacito volere di Edoarda.
La zia poi tornava nella sala, fra le braccia della sua vasta poltrona,
e bisognava lasciarla tranquilla per qualche ora. Sorbiva con delizia un
bicchierino di liquore, due talvolta, poi pretendeva di leggere un
giornale, a diritto, a rovescio, finchè le scivolasse di mano, — e
s’addormentava.
C’erano, dopo il salone, due sale minori e contigue, di cui la prima
conteneva una rarissima collezione di statuette di Saxe e di bronzi
antichi, l’altra, secondo il volere di Edoarda, era la nostra —
esclusivamente nostra. Colà passavamo lunghe ore del giorno e della sera
durante i pisoli della zia, la quale talvolta, svegliandosi di
soprassalto, chiamava con voce grossa:
— Edoarda! non dormo, sai... Potreste anche venire di qua.
Ma era inutile muoversi, perchè avevo spiegato a Edoarda che si trattava
semplicemente di un sogno fatto ad alta voce, una frase che la zia per
abitudine aveva imparato a dire anche dormendo.
Quel giorno, quand’ella fu nella sua poltrona, fra le cuffie di lana per
«I Figli della Provvidenza», il suo bicchierino ed il giornale, noi
scendemmo a visitare il cavallo.
Whisky ci seguiva saltellando e scodinzolando.
Nella scuderia Edoarda staccò ella stessa il cavallo malato, poi lo
condusse fuori nella corte, ove il cocchiere lo prese a mano per farlo
muovere, al passo, al trotto, davanti a noi. Era un superbo irlandese,
dal mantello sauro focato, con le zampe calzate di altissime balzane.
— Povero Good Bye! Vedi come zoppica! — esclamò Edoarda.
Lo feci fermare, gli sollevai la zampa, esaminai lo zoccolo, feci
scorrere le dita, premendo lungo i tendini del garretto, e l’animale non
dava il più piccolo segno di dolore.
— Quando lo avete attaccato l’ultima volta? — domandai al cocchiere.
— Tre giorni fa, signor conte. Trottava magnificamente. Me ne accorsi la
mattina dopo nel farlo uscire di scuderia.
— Bisognava sferrarlo, — dissi.
— Ma il dolore dev’essere nella spalla.
— Non importa; va sferrato. — Mi detti a comprimere la spalla
dell’irlandese, cercando nelle muscolature di suscitargli un dolore.
Infatti, ad un certo punto, il cavallo si agitò sotto la pressione delle
dita, volgendo la groppa ed inarcando il collo.
— È una spallata, — dissi. — Forse avrà dato nel battifianco o si sarà
coricato male. Fategli una buona fregagione d’«_Embrocation_» e
mettetegli un po’ di creta. Sarà meglio chiamare il veterinario in ogni
modo.
— Povero Good Bye! — fece Edoarda battendo il palmo su la sua bella
narice bianca.
Il cavallo scomparve nella scuderia e rimanemmo soli, Edoarda ed io, nel
mezzo della corte, al sole.
— Dove andremo? — le domandai.
— Dove tu preferisci: nel giardino o sopra.
Quel pomeriggio, in sul morir dell’inverno, era quasi tepido come una
primavera; il giardino inverdiva di là dalla corte.
— Sopra, — io scelsi, pensando che le facesse piacere. E ci avviammo.
Per le scale volli prenderle un braccio, ma Edoarda eluse il mio gesto,
salendo più rapida sino al pianerottolo.
— Edoarda, che hai?
— Perchè cerchi di fingere? — mi rispose tristemente.
— Sei molto ingiusta con me!
Allora ella chiuse l’uscio dell’anticamera, in faccia a Whisky che
voleva entrare con noi, e passando piano per la stanza ove la zia
sonnecchiava entrammo nel salottino, dove ogni cosa poteva rievocarci
una sua particolare memoria.
Traverso le cortine il sole delineava una trama di vincoli floreali,
muovendo una palpitazione luminosa intorno alle pareti, ai mobili ed ai
cuscini, ch’erano foderati di una stoffa delicatissima, dal colore un
po’ languido della rosa di gruogo. Una striscia di polvere animata
fendeva obliquamente la stanza, traendo qualche bagliore dalle coppe
fiorentine, che traboccavano di bianco lilla e di lilla malvato; sopra
un tavolino, in un angolo, fra molti ninnoli graziosi, una scatola
d’argento si accendeva d’una raggiera insostenibile, ferita in pieno da
quel raggio di sole.
In silenzio Edoarda sedette sopra il divano, e come in forza
d’un’abitudine lasciò vuoto al suo fianco lo spazio dov’io sedevo di
consueto per prenderla fra le braccia. Ed ecco mi posi accanto a lei,
sul divano, senza guardarla, non osando interrompere il silenzio.
Di fronte v’era una piccola scrivania di legno roseo, intarsiato alla
foggia di Andrea Carlo Boule, un delizioso mobile del Settecento, con
incrostazioni di madreperla e di mosaico fino; più oltre, nella parete,
un caminetto con gli alari di bronzo, chiuso da una lamina d’ottone
istoriato, e così minuscolo da parere costrutto per i piedini di una
bambola di Norimberga.
— Germano, — ella prese a dire lentamente, con gli occhi semichiusi, le
palpebre sfiorate da un triste sorriso di evocazione, — ti ricordi
quanti sogni abbiamo fatti insieme, in questa piccola stanza nostra,
quando mi amavi ancora?
— Perchè dici così? Nulla è mutato.
— No, tu non rispondere... Taci, taci! Vedi bene che cerco di non
piangere... Ah! non voglio piangere!...
E scosse la testa. Una lacrima le cadde dalle ciglia, pianamente, senza
il desiderio d’essere asciugata.
— Ti ricordi? — ella ricominciò. — Dopo il pranzo tu mi dicevi: Non
verrà nessuno? — Nessuno. — Dormirà la zia? — Dormirà. — E allora mi
prendevi su le ginocchia, proprio qui, su questo medesimo divano, e mi
dicevi tante parole così dolci, così dolci... Qualche volta io ti
leggevo un libro, ma tutti i libri erano troppo noiosi e ci voleva
un’eternità prima di giungere alla fine. Verso le undici Pietro portava
il tè, con due tazze, ma noi se ne adoperava sempre una sola... ti
ricordi?
— Sciocchezze! — io dissi mentalmente. Ma ebbi quasi paura di averlo
pronunziato in modo intelligibile. Invece risposi, con la voce più mite
che potei:
— Sì, mi ricordo. Ma, vedi: non si può continuare tutta la vita a bere
il tè nella medesima tazza. Queste piccole cose hanno il loro pregio
appunto perchè si fanno una volta sola; continuandole diverrebbero
comuni.
— E come le piccole cose, anche le grandi, — ella rispose. — Tutto è
comune quello che non piace più. Vedi, Germano, anch’io darei non so
cosa per trovar sciocco e vuoto il migliore fra i nostri ricordi; ma,
che vuoi? è più forte di me, non posso! C’è qualcosa nel mio spirito che
mi fa trovare continuamente nuovo tutto quello che appartenne ad un
momento del nostro amore.
Poi, d’improvviso, dilatando gli occhi con una specie di smarrimento,
arrendendosi alla suprema evidenza di un pensiero:
— Dimmi, — esclamò, — come potremo continuare a vivere in questo modo?
E prima che potessi rispondere:
— Pensa ch’io t’amo ancora terribilmente! Non ho dimenticato, io!...
Vedi, mi consumo tutta, perchè ti perdo, e lo so!
— Senti, senti, non parlare così... — la supplicai. — Tu soffri per
colpa della tua immaginazione; sei fuori di strada, sei malata. Non è
come tu credi. Solamente, il carattere di un uomo subisce talvolta una
crisi... Allora le infantilità dell’amore passano, com’è naturale,
mentre il sentimento rimane. Che hai? Su, dimmi, che hai?
Ella scuoteva la testa con maggiore insistenza.
— No, non cercare d’illudermi: l’amore non è una cosa che si finge.
Meglio allora, mille volte meglio che tu non abbia questa inutile
compassione di me! Credi forse che io non lo sappia? Finora non mi avevi
mai fatto così male come oggi. Da che sei venuto qui, ogni tua parola,
ogni tuo movimento, è stato per me come una ferita più profonda, più
diritta nel cuore. Lo vedo: il tuo pensiero è altrove; io ti dò noia;
non aspetti che l’ora di potermi lasciare, perchè, oltre a non amarmi
più, adesso ne ami un’altra, lo so! lo so... e, guarda...
Di scatto sorse in piedi, con gli occhi un po’ folli; una sua mano fece
l’atto di volermi ghermire, ma invece, col braccio teso, ella descrisse
un piccolo cerchio su sè stessa, girando sui talloni, e ricadde sopra il
divano, sprofondandovi la faccia, balbettando:
— Ecco, mi farai morire!
— Ti esalti, Edoarda, ti esalti — le dissi, vinto da una dolorosa
commozione. — Per carità, non farmi queste scene terribili! Sai pure
quanto mi disperano!
Ed esagerando la mia sovraeccitazione, mi diedi a camminare per il
salottino senza contenere qualche gesto violento. In silenzio, come
intimorita, Edoarda si ritrasse contro la piccola scrivania, facendo uno
sforzo per nascondere le sue lagrime.
Allora le andai vicino, con dolcezza:
— Tu, purtroppo, rimarrai eternamente una bimba! Non puoi convincerti
che un uomo, il quale ha tanti pensieri fastidiosi per il capo, senta
qualche volta un altro desiderio che non sia quello di prendere la sua
donna fra le braccia e ripeterle quelle frasi appassionate che si dicono
a vent’anni, quando non si ha nulla di più serio nè di più grave nella
vita.
— Non avevi però vent’anni alcuni mesi or sono, — ella mi disse,
lasciandosi carezzare i capelli.
— È vero; ma sono mutato. È una cosa recente. Non so, non lo comprendo
neppur io.
— Dimmi, — ella fece, posandomi le due mani su le spalle, con un sorriso
in cui tremava il dolore del suo martirio; — dimmi, chi è questa donna
per la quale ti sei battuto?
— Ma non c’è! non esiste! — affermai, assolutamente incapace di farla
più oltre soffrire.
— Sì, che c’è! Raccòntami! — E dagli occhi fermi le scendevan lacrime su
la bocca sorridente.
— Cosa ti hanno detto, mio povero amore? — le domandai.
— Mi hanno detto... Ma no! voglio saperlo dalla tua bocca.
Orribile! orribile! Tutto era indegno, la finzione come la verità.
— Ebbene, vuoi sapere? Ecco: è un’antica amante, una forestiera
conosciuta in viaggio, prima di te. L’ho ritrovata qui a Roma, per
istrada; mi ha fermato, mi ha detto che l’andassi a trovare... Vi andai.
Ecco, già che vuoi sapere, ti dico la verità.
Improvvisavo le parole ad una ad una, prendendo fiato per cercarne
altre.
— Ma perchè vi sei andato? Le volevi bene ancora?
— Nemmeno per sogno! Vi sono andato, così, per capriccio, per fare
qualcosa... Tu non crederai, ma quando un uomo sta per ammogliarsi e
deve chiudere la sua vita galante, prova talora una specie di ritorno
sentimentale, o stupido, come vuoi, verso le amiche di una volta, ma
indistintamente verso tutte, per la semplice ragione che dopo non si
avranno più. Mi capisci?
— Sì, forse posso capire, fino qui... Ma poi?
— Poi, non c’è altro. Il resto, che so io, è stato un semplice caso...
— Eppure ti sei battuto per lei.
— Per lei? Ma chi te l’ha detto? Ci siamo battuti per una sciocchezza.
Intanto, quell’Albanese, non l’ho mai potuto soffrire. È un vanesio
antipatico e m’irrita. Poi forse credeva che quella donna fosse la mia
amante...
— Ma come poteva crederlo, se non era?
— Oh, Dio, si raccontano tante fiabe! Del resto mi aveva un giorno
incontrato per istrada mentre parlavo con lei. Dunque, lasciami
continuare... Venne al Circolo, e, seccatissimo di perdere, cominciò a
stuzzicarmi dicendo una quantità di scempiaggini, cioè che avevo fortuna
con le carte ma non con le donne, perchè lui conosceva questa signora,
le mandava fiori, la fermava ogni giorno... insomma che credeva di
potermela togliere quando volesse. Io gli ho risposto, per puntiglio,
che la sua pretesa era un po’ avventata, ma che gli stava bene il
soprannome di «Assillo», poichè infatti, con quelle sue millanterie, si
rendeva ridicolo. Insomma da una parola vivace all’altra, si venne ad un
battibecco. Naturalmente raccontarono poi che la causa ne fosse quella
donna... Vedi che dopo tutto la mia colpa non è tanto grave!
— Ed è così?... — fece, incredula.
— È così, Edoarda. Perchè ti dovrei mentire?
Il suo volto era passato per un’alternativa continua di sentimenti; ora
mi fissava, quasi per scrutarmi nel più recondito pensiero.
E intanto, come spesso avviene, mentre si elabora un’idea, dietro, nei
recessi della mente, un’altra nasce, luminosa, imprevista, per risolvere
la difficoltà contro la quale ci dibattiamo. Parlando, il mio pensiero
andò, non so come, verso le mie campagne di Terracina, su cui scadeva di
lì a poco una certa ipoteca dei Rossengo di laggiù; rimedio gravoso e
miserevole frapposto all’imminenza della mia rovina. Avrei dovuto
recarmi colà, in cerca di un ripiego qualsiasi, poichè non avevo il
denaro per estinguerla. Orbene, perchè non valermi di un tal pretesto
per abbandonar Roma con Elena, e di laggiù forse avere il coraggio
supremo che non avrei mai trovato davanti al suo dolore? Ecco: l’idea mi
parve semplice, piana, gioconda. Stupii di non averla immaginata prima,
e con tutte le mie forze m’apparecchiai a dimostrarle man mano questa
necessità.
— Non mi credi? — ripresi. — Non mi credi ancora? Ebbene, domandalo a
Fabio Capuano. Egli era presente. Credi a lui?
— Vorrei credere a te solo, se potessi.
— Ecco il male. Non c’è quasi amicizia fra noi. Purtroppo sei sempre
così piena di sospetti!
— Oh, non lo dire! Tu sai...
— Certo, certo, so che tu sei buona, infinitamente buona con me. Solo,
mi vuoi forse troppo bene per poter essere la mia amica. Quante volte ne
ho parlato con Fabio! Egli stesso, vedi, mi trova mutato; dice di non
più riconoscermi.
— Questo è vero, sai!
— Sì, è vero, pur troppo. Mi s’infiltra nelle vene talvolta una immensa
ed oscura tristezza... sento il bisogno di essere solo, di non amare più
nessuno, di allontanarmi da tutti... Che so? mi sembra una malattia.
Ci eravamo seduti, m’accarezzava le tempie, la faccia, con indulgenza,
con pietà.
— Povero amore, — sospirò, — vorrei tanto poterti guarire! Ma io... cosa
sono io per te?
— Sei anche tu, Edoarda, un piccolo cuore malato. Vedi: la nostra vita è
troppo dolorosa; tu mi comunichi la tua disperazione. Senti: cosa
faresti, per esempio, se non dovessi vedermi più?
Con uno scatto si volse tutta verso di me, spalancando gli occhi
atterriti.
— Perchè mi domandi questo? — mormorò, con un filo di voce tremula.
— Te lo domando astrattamente, — risposi, con uno sforzo per sembrarle
naturale. — Poi anche per la ragione che ora dovremo lasciarci
momentaneamente... Oh, non ti spaventare! un’assenza di pochi giorni.
— Ah, sì?... parti?... — ella domandò soffocatamente, serrando le mani
in croce sul petto per contenerne l’affanno.
— Non è una partenza, via! Dovrò solo andare per qualche giorno a Torre
Guelfa. Mi scade fra poco l’ipoteca triennale fatta con i Rossengo su le
terre di San Biagio. Non potendola pagare, debbo rinnovarla. Sto già
trattando per lettera, ma richiedono la mia presenza per appianare certe
questioni di forma.
— Dunque te ne vai... — disse con desolazione. — E quando?
— Non so ancora; uno di questi giorni. Sono talmente seccato!
— Ma io ti potrei forse...
— No, ti prego, non parlarne! Sai bene che non voglio. Del resto non
mancherò di trovare un ripiego.
Piangeva ora di nuovo, accasciata, curva, ritraendosi a poco a poco più
lontana da me, come se avesse paura.
— E quando ritornerai? — disse con la voce spenta.
— Al più presto possibile; non appena compiuto il rinnovo.
— Mi sembra che tu non debba ritornare mai più...
Si rovesciò su la spalliera del divano, un po’ rigida, con le braccia
inerti, gli occhi sperduti, e fece un lungo sogno...
— Mi scriverai da Torre Guelfa?
Le sue parole furon piane come un alito.
— Sì, ti scriverò tutte le sere prima di coricarmi, come una volta,
quand’eravamo lontani.
— Oh sì, come una volta... Che lettere dolci mi scrivevi una volta...
Un sorriso d’evocazione trasfigurò il suo pallore; le sue ciglia si
abbassarono; la sua faccia si compose in una specie di bellezza
immateriale.
Soltanto allora compresi che nella piccola stanza tutelare una grande
anima compiva la sua rinunzia suprema, e per un senso inesprimibile di
paura ebbi quasi bisogno d’inginocchiarmi, come davanti a tutte le cose
che si vedono morire.
Un sole giocondo invadeva ora la stanza, traeva uno scintillìo di colori
dalle coppe di cristallo, dalle cornici, dalle borchie dei mobili,
suscitando qualche onda lucida per le stoffe delle tappezzerie, che
avevano il colore indefinibile della rosa di gruogo. Allora finalmente
una lacrima inumidì le mie ciglia, e mi chinai su quella povera bocca,
su quella dolce anima ferita, per chiederle perdono con un bacio: — la
confessione più triste che vi sia.


VII

Quel brav’uomo pareva una botte in equilibrio sopra un cavalletto, e
faceva uno sforzo penoso nel sollevare il braccio fino all’altezza del
mento per carezzarsi un lungo neo ricciuto. Vestiva con panni di ruvida
stoffa, non senza una certa pretesa d’eleganza; gli correva sul
panciotto una catena d’oro, grossa d’un pòllice, con un pendaglio
enorme, ch’era di corniola incisa. Molti anelli ornavano le sue mani
villose, dalle unghie quadre, con i polpastrelli piatti. La sua faccia
era quella d’un campagnolo, mediatore di grosso bestiame; aveva la bocca
ignobile, sempre sorridente, con i baffi color tabacco, tagliati a
spazzola; due piccoli occhi assai vivaci, un’epidermide lucente, rasa
ogni giorno e screziata di reticole sanguigne. Per un’ironia della sorte
portava il nome d’un uomo celebre: si chiamava Pietro Capponi, e godeva
in Roma di una ben meritata notorietà, facendo l’usuraio.
Avevo l’onore di essere suo cliente già da molti anni, ed anzi mi
accordava qualche predilezione.
Gli avevo scritto ed era venuto; sedeva davanti alla mia tavola,
centellinando un bicchierino di vin Malaga, a sorsi brevi, da buon
intenditore. La sua risata grassa faceva risonare la stanza.
— Dunque, signor conte, — egli diceva, stropicciandosi le mani, — la
dama di picche ci ha traditi ancora una volta, a quanto pare!
— No, caro Capponi, questa volta non si tratta di dame, nè di picche nè
d’altro colore. Si tratta d’un mutuo che mi scade fra pochi giorni e che
vorrei liquidare sùbito.
— Uhm!... — fece l’uomo con una specie di grugnito; — in questi mesi è
un affare serio; tutti ingoiano quattrini con una furia che fa spavento,
e nessuno paga, quel ch’è peggio! Tengo un mucchio di cambiali.
— Via, Capponi, lasciamo le solite fiabe! Io vi propongo l’affare, voi
ci studiate sopra: se vi conviene lo fate, se non vi conviene... lo fate
lo stesso!
— Eh! eh! signor conte!... — esclamava egli, battendosi un pugno chiuso
nel palmo dell’altra mano. — Lei sa cosa m’è capitato col figlio
dell’Eccellenza?... Tamquam tabula rasa!
— Ma, insomma, tanto va la gatta... Ve l’avevo pur detto che suonava di
fesso. Intanto ci tengo a farvi notare che, per quanto mi riguarda, ho
sempre pagato regolarmente.
— Verissimo: quanto a lei, finora...
— Come «finora»?
— Eh, per modo di dire!
— Insomma, volete ascoltarmi?
— Ascoltiamo pure.
— Ecco qua. Voi conoscete la mia tenuta di Monte San Biagio, presso
Torre Guelfa?
— Di vista, signor conte.
— Sapete che c’è sopra un’ipoteca per garanzia di mutuo?
— Appunto, — egli disse, consultando un sudicio taccuino. — Ipoteca dei
Rossengo di Terracina, 28 gennaio 19...
— Ah, ne siete al corrente! — feci, un po’ meravigliato.
— Che vuole? sono i ferri del mestiere... — mi rispose con soavità.
— Io direi che sono le tenaglie del mestiere, mio bravo Capponi!
Insomma, ecco il punto: quel debito lo vorrei pagare alla scadenza, e se
voi mi provvederete il denaro, eviterò moltissime seccature.
— Impossibile, signor conte, — egli affermò sùbito. — Le ho già detto...
— Non facciamo chiacchiere inutili. Entro la settimana io partirò da
Roma per Torre Guelfa. Voi, prima di sabato, mi farete avere una
risposta. Va bene?
— Ma...
— Non parliamone più fino a sabato. Voi conoscete i miei affari meglio
di me: studiate quindi se ancora vi è possibile rendermi un servigio.
Non appena vi sarete deciso per il sì o per il no, mi darete una
risposta.
— Peuh! peuh! Se non si tratta che di una risposta... quantunque posso
anche darla sùbito.
— Grazie, non la voglio. Pensàteci. Ed ora vi mando via perchè debbo
uscire. Fumate questo sigaro e pensàteci bene. A rivederci, Capponi.
E lo condussi all’uscio, mentr’egli si grattava il cranio lucido e
masticava il sigaro fra i denti.
Stavo già indossando il soprabito, quando il campanello squillò, ed
aprendo io stesso la porta vidi entrare Fabio Capuano.
— Oh, buon giorno! Stavi uscendo?
— Non importa, vieni, vieni. Posso ritardare. Come va?
— Non c’è male, grazie.
— Mi pare che tu abbia la faccia scura.
— Io? Manco per sogno!
Entrammo nella biblioteca; egli cominciò a camminare in lungo ed in
largo, a passi nervosi, carezzandosi la barbetta brizzolata.
— Bene, — feci, stendendomi con pigrizia in una poltrona, — avevi
probabilmente qualcosa a dirmi?
Egli si fermò contro gli scaffali e prese a batterne i vetri con le
nocche irrequiete.
— Già, certo... avevo qualcosa a dirti.
— Coraggio! issa fuori! — esclamai, ridendo.
— Sai, mio caro, — prese a dire con risolutezza — che ho inteso parlare
di te in modo assai poco lusinghiero.
— Per bacco! — esclamai, rovesciandomi contro la spalliera; — non sarà
la prima volta.
Egli venne a sedermi di fronte, su la poltrona che Pietro Capponi aveva
sgombrata pochi minuti prima. Rimaneva tra noi la scrivania. Prese una
sigaretta, si tolse l’occhialetto, e facendolo ballare fra due dita
cominciò con dirmi:
— Devi sapere che a Roma non si parla d’altro: l’avventura di Guelfo, il
duello di Guelfo, e tutto il resto che puoi facilmente immaginare.
— Non me ne curo, — dissi con indifferenza.
— Hai torto. C’è di che farti riflettere. Alcuni commenti mi sono
spiaciuti per te.
— Allora è semplice: dimmi il nome di costoro e li inviterò a darmi
ragione dei loro commenti.
— Via, non fare lo spavaldo! Qui non si tratta di questo. Se te ne vengo
a parlare, vuol dire che ti convien pensare ai casi tuoi, ma seriamente.
— Cosa dicono, infine?
— Oh, Dio, te lo puoi figurare! Nessuno ignora il tuo fidanzamento con
Edoarda; molti ne sanno, o ne suppongono, anche di più... E per quanto
si bisbigliasse già che andavi cercando mille pretesti per procrastinare
le nozze, ora si dice apertamente che la tua condotta in questi ultimi
tempi non è quella... insomma, perdonami, non è quella di un gentiluomo!
— Eppure tu sai... — feci, smettendo la baldanza.
— So tutto, — egli rispose con un gesto di acquiescienza. — Ed è appunto
per questo che mi faccio un dovere di parlarti a cuore aperto. Hai molti
nemici, e nessuno ti risparmia. Colgono anzi l’occasione per commentare
la tua vita passata, presente, le tue condizioni finanziarie, le tue
abitudini, che non furono mai quelle di un francescano. C’è chi ti trova
sciocco, vedendoti compromettere un matrimonio invidiabile per un
capriccio, ed i più miti sono del parere che tu abbia perduta la testa.
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