L'amore che torna: romanzo - 23

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— Ma io debbo ritornare, intendete? lo debbo! — insistette, come per
comandarlo a sè stessa. Poi soggiunse: — L’ascoltarvi più a lungo vi
darebbe diritto...
— Nessun diritto, nessun diritto... non parlate così! usatemi questo
riguardo almeno!
E messa la mano su la briglia della baietta, la costrinsi a camminarmi
di fianco, sella contro sella.
— Ma insomma voi profittate d’una condizione di cose...
— No, non è vero... oppure, sì, come volete! Ne profitto forse un poco,
e ve ne chiedo scusa. Ma ho bisogno di parlarvi, od almeno di sapere una
cosa, una sola, se pur mi vorrete rispondere.
— Oh, quale mai?
— Una domanda; una domanda insolente e sciocca, perchè certo non mi
direte la verità. Ma non importa. Vorrei sapere se amate veramente
vostro marito, o se...
— Ascoltátemi, Guelfo, — ella fece con un po’ di risentimento, — vi
siete abbastanza divertito alle mie spalle una volta perchè vi permetta
di farlo una seconda!
— Ma no, ma no...
— Lasciátemi dire. So a cosa tendono i vostri bei discorsi e quale sia
decisamente il vostro piano. Con molti giri viziosi venite a farmi
un’offerta esplicita, e naturalissima in fondo! Momentaneamente vi
piaccio di nuovo, per il semplice fatto che son divenuta la moglie d’un
altro, e venite a propormi, oh, con molta cautela!... d’essere la vostra
amante...
— No, no!
— ... a propormi d’essere la vostra amante. Ed io dovrei...
— Insomma, Edoarda, vi prego: non continuate!
— Amico mio, perchè metterci una maschera sul volto? Diciamo la verità:
non è questo?
— No! no! mille volte no! La mia domanda vi è parsa brutale, forse; lo
era infatti. Ma non credevo che si potesse tornare del tutto estranei
dopo un passato come il nostro, e contavo un poco su l’amicizia d’una
volta. Voi oggi ridete, prendete le mie parole in burla, vi piace
umiliarmi e vedermi soffrire; ma io v’ho fatta quella domanda per una
ragione ben diversa. Ecco, Edoarda: se fossi certo che amate un
altr’uomo, che vi siete sposata per amore di lui, scordandomi del tutto,
se avessi questa certezza, vi dico, sarebbe l’ultima volta che cercherei
d’avvicinarvi. Quindi non rispondetemi, perchè, se fosse così, varrebbe
meglio non saperlo.
Ella si chiuse un poco nelle spalle, guardò altrove, senza rispondere.
— Son mesi e mesi, — continuai, — che questo dubbio mi tortura, ed è
solo per questo che ho trovato il coraggio di venirvi a parlare.
— Oh, il coraggio in questi casi gli uomini lo trovano sempre!
Lontano, lontano, i corni da caccia squillavano a distesa nell’aria
piena di sole; veniva per la terra sonora un rumore di galoppi distanti.
Ella ebbe un leggero tremito:
— Vengono!... — esclamò.
— No, anzi si allontánano.
— Ma bisogna pure ch’io mi trovi al «meet».
— C’è tempo, c’è tempo! La caccia non finirà così presto.
— Insomma, Guelfo, abbiamo fatto... cioè, avete fatto molto male, molto
male!...
E la sua voce non era più nè irritata nè schernevole.
— Perchè?
Un po’ stanca, un po’ curva, ella si passò la mano su la fronte, fra i
capelli scomposti.
— Perchè?... — ripetei, stringendole un polso, uno di que’ polsi
fragili, che davano al contatto la sensazione di poterli spezzare.
L’attirai lentamente; le nostre spalle si toccarono, e, levando i suoi
grandi occhi, mansuetamente, come faceva una volta, vide
nell’alterazione del mio viso i segni dello smarrimento che mi turbava.
— Sei cambiata, — le mormorai; — ma per me sei ancora la stessa... e più
bella! Ti ricordi?...
Ella chiuse gli occhi e piegò il mento sul petto.
— Guàrdami... — la pregai, — guàrdami!...
Allora sollevò il viso, con le palpebre chiuse, la bocca ferma. Il sole,
battendole in faccia, dorava il suo pallore.
— Sei cambiata e sei la stessa, — ripetei. — Più bella, mille volte più
bella! Io non ho cessato mai di volerti bene. Ora lo sento. Eri nel mio
destino, e il destino torna... deve tornare! Dimmi... dimmi!... Anche
tu?
Ella scosse il capo con violenza, come per ribellarsi al bisogno di
rispondere «Sì!»
— Pensa che felicità sarebbe la nostra!... — le bisbigliai.
Vi sono momenti nuovi nel traboccar d’un’antica passione, in cui l’anima
viene su la bocca e parla da sè. Ora i cavalli andavano d’un passo
lento, strappando qua e là ciuffi d’erba; un vento lieve increspava le
criniere, fasciandomi il suo velo intorno al collo.
— Dimmi, — le domandai piano, stringendola tutta contro la mia spalla, —
dimmi la verità... la verità!... lo ami?
Con gli occhi semichiusi, la faccia un po’ convulsa, la fronte presso la
mia bocca, scosse il capo con impazienza, quasi con ira, mentre le sue
ciglia si bagnavano di lacrime mal frenate.
— Perchè vuoi farmi parlare! — esclamò.
Una stupenda gioia mi rise nell’anima, e d’improvviso mi sembrò che
tutto quanto, all’intorno, girasse, girasse, in una vertigine di sole...
— E, dimmi ancora... non lo hai amato mai?
— Ah, lásciami!... — comandò con ribellione, come se un nodo le
soffocasse la gola. E mi respinse.
— No! rispóndimi!... Mai?... in nessun modo?...
L’abbracciavo, la serravo imperiosamente. Ella di nuovo strinse le
labbra, e negò.
— Senti allora... e me?
— Tu?
Aperse gli occhi mi guardò, mi fissò profondamente, come per
riconoscermi. V’era in quegli occhi azzurri un’ombra che li faceva parer
cupi, e le sue labbra smorte mi si offersero con un bacio di tutta la
persona.
— Germano, Germano... — pregò, — andiamo via!...
Tutte le trombe lontane d’un tratto echeggiarono, percuotendo l’aria
come una staffilata sonora.


VI

La prima volta che una signora viene ad un appuntamento d’amore, viene
per solito con un mazzolino di fiori alla cintura; l’amante poi li mette
in cornice, li conserva nel cofano delle reliquie, per poterle dire più
tardi, esumandoli:
«Fu la prima volta... ti ricordi?»
E quest’odor di appassito è, nell’amore, un profumo che spesso prolunga
le agonìe.
La prima volta che una signora viene ad un appuntamento d’amore, di
solito viene in vettura chiusa, fingendo d’esser assai turbata, d’aver
avuta una immensa paura, cosa in fondo esageratissima, perchè le donne
al giorno d’oggi sono quanto mai esperte, ed i mariti han quasi perduto
il vizio preistorico di uccidere per gelosia. Fatto, sta che l’adulterio
s’è talmente radicato nella vita moderna da non parer cosa ormai
straordinaria nè difficile, e que’ famosi Otelli della vecchia maniera
sono andati a rifugiarsi nel repertorio dei teatri popolari, dove
talvolta fan ridere o fremere ancora. I nostri, oggi, lo sanno qualche
volta, ma non sorprendono quasi mai.
Un po’ di paura è tuttavia necessaria. Non si fa tutto questo per amarsi
tremando? Il pericolo non è forse un delicato piacere?
La prima volta che una signora viene ad un appuntamento d’amore, porta
l’abito che le avete ammirato, il cappello che vi piace di più: ha
paura, si sente male, ha fretta, deve andar via. Gira, si siede
irrequieta su tutte le poltrone; tocca ogni cosa, guarda i quadri, la
mobilia, le fotografie, se ve ne sono, poi vi dice: «Dio!... Chissà
quante sono venute qui!»
Naturalmente le assicurate ch’ella è la prima, però in modo da lasciarle
credere che ve ne furon altre, molte altre, assai più che non sia
vero... Allora le date un bacio su la bocca, traverso il velo; d’inverno
la veletta è umida; quell’umidore vi piace, sa di fresco e di buon
profumo.
È il primo bacio su la bocca nella casa del peccato, il primo sapore
della colpa, dopo quel bacio casto e compunto che le fu dato quando mise
il piede oltre la soglia, in segno di rispettosa ospitalità. Bisogna
conoscere le gradazioni. E sùbito ella se ne schermisce; tutto le sembra
nuovo e pericoloso; quel bacio la fa timida, quantunque molti altri ve
n’abbia già dati, nelle sale ove l’incontraste, ne’ corridoi, tra due
porte, fra due siepi, ai balli od in campagna, al mare o dovunque potè.
Ma quel giorno ha paura, sta male, ha fretta, deve andar via. Intanto vi
osserva: le pare strano di vedervi lì, nella casa vostra o non vostra,
diverso dagli altri giorni, svestito di quelle apparenze che imponeva la
mondanità; vi osserva con occhi attenti, senza dirvi nulla, e quello è
spesso il momento in cui si decide la simpatia o la diffidenza d’una
donna, la quale, sino a quel punto, non ebbe di voi che una semplice
curiosità. Non bisogna allora essere nè troppo timidi nè troppo audaci.
Credo che in quell’istante i sensi della donna si fascino quasi d’una
vigile inerzia, urtati da quel tanto di comune o di fittizio che non
manca mai ne’ primi convegni d’amore. Poichè, nonostante l’esperienza,
ci si trova sempre un po’ comici l’uno di fronte all’altra, ed il
pensiero di tutti quelli che hanno fatto e faranno la stessa cosa, in un
appartamentino press’a poco simile, ed alla medesima ora, con le stesse
precauzioni, con le stesse parole, riesce a smorzare d’improvviso la
trepida impazienza che ci ha condotti fino a quel punto. È, talvolta,
una cosa futilissima che salva, che piace, che dà un’improvvisa
freschezza, ed in ogni modo bisogna saper vincere quel torpore, ma
dolcemente, con persuasione.
Se può, ella vi dice allora una piccola sgarberia, con gioia, ridendo.
Ma è lo stato dell’animo suo che lo richiede; un poco forse la vergogna,
un poco il timore di piacervi meno che non vorrebbe.
Intanto, con l’ansia più distratta e più naturale del mondo, s’è
lasciata prendere il manicotto e l’ombrellino, il boa od il mantello, i
guanti, la borsetta, la veletta, ed affinchè voi possiate levarle
quest’ultima difesa del suo onore senza strapparle i capelli, (oh, gli
uomini, quanto sono maldestri!...) si va togliendo ad uno ad uno gli
spilloni dal cappello. Poi siede in un angolo, ed ha una immensa
vergogna subitanea, come se fosse in camicia.
Allora l’amante consumato e scaltro le s’inginocchia ai piedi per dirle
con voce commossa una frase dolce, persuadente, quasi lasciva... per
slacciarle una scarpina senza che se n’avveda o insinuar le dita fra gli
uncini della camicetta, che vela, senza nasconderla, una soave nudità...
Poi, quando per forza se ne deve accorgere, ecco vi dice: «Ma... che
fate?» oppure: «Che fai?» secondo i casi.
E se, tra gli uncini ed i pizzi v’impacciate un poco, allora esclama
sorridendo: «Oh! come non sai far nulla!» E li sgancia da sè. Ad un
certo punto finge di veder il pericolo e si alza bruscamente. Cammina,
apre un libro, vi domanda una sigaretta, carezza un fiore, si dà una
pettinata, o, se c’è il fuoco, va davanti al camino e si riscalda le
mani. Voi la prendete allora per le spalle, con un po’ di veemenza,
costringendola a lasciarsi baciare... Ella ride, rovescia il capo
all’indietro ed offre la bocca. C’è uno specchio, là di fronte, ove si
guarda. Ci si guarda entrambi; ella dice: «Dio, come sono rossa!...».
Fate, o cauti amanti, che le specchiere nella vostra casa d’amore siano
benevole, poichè la donna in quel momento ha bisogno di sentirsi bella.
Poi, fra le mille carezze, fra le insidie lente, si parla di cose
lontane; si dice:
«Pensa, amore mio, quando ci siamo conosciuti la prima sera... ed io ti
facevo già la corte, con gli occhi, da molti mesi... avresti mai pensato
che un giorno ci troveremmo qui, soli, nelle braccia l’una dell’altro...
del tutto soli... come ora?...» Ed ella risponderà:
«Oh, Dio buono... che pazzie che mi fai fare! Dimmi... non è forse
vero?... non è questa una pazzia?»
«Forse... ma così dolce!»
«No... sta fermo...»
«Làsciami fare. Voglio baciarti su la gola... solamente su la gola...
Oh, come hai la pelle bianca!»
La prima volta che una signora viene ad un appuntamento d’amore, viene
per lo più perchè s’annoia della sua vita giornaliera, e l’adulterio la
tenta; o per curiosità momentanea della vostra persona, o perchè potrete
giovarle in qualcosa, o perchè i sensi le fanno sperare da voi gioie che
non conosce ancora. Qualche volta viene per la buona ragione che le
avete fatta la corte, qualche volta per poterlo raccontare ad un’amica,
o perchè lo dicano ad un vostro predecessore, o perchè da voi non venga
un’altra in sua vece: per capriccio insomma, per calcolo, per istinto,
per gelosia, per frivolezza, e talora, infine, benchè assai di rado,
perchè vi ama.
Pure v’è una donna che a nessuna di queste assomiglia, che nessuno di
tali sentimenti a voi conduce: ed è la donna che torna dopo avervi
amato, quando fra voi passarono la lontananza e l’oblìo; la donna che
torna per ricominciare l’amore.
Queste cose pensavo confusamente, aspettando Edoarda in un
appartamentino situato nei quartieri eccentrici di Roma, durante un
pomeriggio del mese d’Aprile.
Le finestre erano aperte, un’aria tepida e profumata gonfiava le tende,
muovendo riverberi su gli specchi e suscitando qua e là un crepitìo
sommesso dai vecchi mobili gonfi di sole. Vedevo le sfere d’una pendola
di bronzo camminar lente sul quadrante acceso; il sole, picchiando sul
terso metallo, tutta la inquadrava d’un’aureola multicolore.
Mi sentivo un poco stordito; nell’allucinazione del mio sogno vedevo
passare continuamente sorrisi e fisionomie di donne che avevo altre
volte aspettate in una camera come quella, contando i minuti lenti e
sobbalzando ad improvvisi rumori.
Poi due grandi occhi m’apparvero, da tutti gli altri dissimili che nella
vita guardai, limpidi e pure incomprensibili, che avevano l’irrealità
delle cose lontane, e, leggeri come farfalle, mutando luogo, da
tutt’intorno mi guardavano, venivano fin vicino alla mia bocca,
socchiudendo le oscure palpebre, per lasciarsi baciare. E colei che mi
seguiva invisibile, dovunque andassi, quella ch’era nell’aria del mio
respiro e nel pane di cui mi nutrivo, quella ch’era chiusa nel mio cuore
come in un sepolcro suggellato, si venne a distendere in silenzio sul
vasto letto ricoperto, e disfece i suoi capelli color dell’oro e del
bronzo, mi guardò e mi sorrise, chiamandomi con la sua voce d’una volta,
la sua voce piena d’incanto, che suonava da una distanza irrevocabile.
Poi vicino mi passò la bionda immagine di una piccola creatura dal capo
ricciuto, con le innocenti labbra color de’ bòccioli, ma gli occhi già
profondi e consapevoli... Evelyn si chiamava la bimba: io sapevo il suo
nome, non ella il mio.
Allora, per cacciare que’ fantasmi, sorsi in piedi, feci nervosamente il
giro della camera, m’affacciai alla finestra, guardando fuori.
Di là dalla strada, dietro un muro alto di pochi metri, v’era un piccolo
giardino, tutto in fiore. Una bimba vestita di rosso, con i capelli
annodati in un gran ciuffo su la fronte, si dondolava sopra un’altalena
che pendeva da un grosso ramo ritorto. C’era per terra, vicino a lei, un
piccolo annaffiatoio rovesciato, e v’era una bambola con le vesti
all’aria, buttata sul margine del sentiero, che impigliava tra i fili
d’erba i suoi capelli di stoppa. Più in là, nel mezzo d’una corte,
briaco di sole di forza e di fatica, un fabbro scamiciato accanto alla
sua fucina picchiava e cantava con ira, levando il maglio formidabile
sopra il metallo rovente. E il cielo pieno di luminosità, curvo come la
volta di una basilica, si appoggiava con nuvole d’oro sui vertici delle
colline lontanissime.
D’un tratto, in fondo alla strada, su l’angolo del crocicchio, intesi
una vettura fermarsi, e, sporgendomi dal davanzale, ne vidi scendere una
signora, che guardatasi d’attorno sospettosa, pagò in fretta il
vetturino ed imboccò la strada, a viso basso, rasente il muro. Camminava
tenendosi la gonna raccolta contro un fianco, l’ombrellino serrato sotto
il braccio; portava un abito color di primavera, fra l’azzurro ed il
verde oltremarino, con una frangia di pizzi sul petto, un cappello a
fiori. Aveva una grossa catena d’oro girata intorno al collo, pendente a
collana, per reggere un piccolo ventaglio ed un grosso mazzo di
ciondoli, che in guisa d’una frivola bubboliera mandavan chiarori e
tintinni al ritmo frettoloso del passo. Anche le fibbie delle sue
scarpine luccicavano fuor dalla balza della gonna chiara.
Quando fu sotto la finestra da cui guardavo, si fermò impauritamente,
come per riconoscere la porta...
E la bimba si dondolava su l’altalena, ridendo con la bambola dei
capelli di stoppa; e il fabbro, nel pieno sole, con iraconda forza
picchiava, picchiava.


VII

Una mattina, verso la metà del mese di Maggio, Ludovico venne a destarmi
ad un’ora insolita. Ero tornato dal Circolo verso le sei e stavo
dormendo il primo sonno, con quello spossamento opaco ed esausto che
lascia in tutte le vene l’agitazione del gioco, il fumo addensatosi
nelle sale chiuse, verso l’alba, quando i carri degli erbivendoli già
percorrono con fragore le strade che si risvegliano.
— Che novità, Ludovico? — gli domandai, cercando di spalancare gli occhi
assonnati.
— C’è di là un signore che insiste per parlarle.
— Diavolo! a quest’ora?
— Sono quasi le dieci, signor conte.
— Bene, chi è? che vuole? Non gli hai detto che stavo ancora dormendo?
— L’ho detto, signore, ma insiste. È un forestiero; dice che ha bisogno
di vederla. Poi non lo comprendo bene, parla in un certo modo
l’italiano!
— Ti ha detto il suo nome almeno?
— M’ha dato il suo biglietto da visita.
— Accendi la luce e fammi vedere.
Accese una lampadina e sul biglietto lessi il nome di Elia d’Hermòs.
— Elia?... — borbottai. — A Roma? Che può volere? Su, Ludovico, apri la
finestra e fallo entrare.
Alcuni minuti dopo intesi dietro l’uscio la voce di Elia che mi diceva
giocondamente:
— Buon giorno! Ancora dormi? Con questo bel sole? Beato poltrone!
Venne presso il letto, mi tese la mano, si guardò intorno:
— Come stai? Come va? — esclamava. — Dio sa cosa pensi, vedendomi
capitare così alla sprovvista!
— Caro Elia, mi rallegro di rivederti! Sono sorpreso infatti, ma una
bella sorpresa! Vieni, siéditi.
Portava un soprabito da viaggio; nel suo volto simpatico era la consueta
espressione gaia, penetrante, ambigua.
— E comincio con domandarti scusa se ti ricevo qui, — proseguii. — Mi
sono coricato all’alba, dunque perdonami se sbadiglio.
— Lo sbadiglio è la conclusione logica di tutte le passioni umane, —
sentenziò Elia, sdraiandosi in una poltrona vicino al mio letto. — Solo
me lo comunichi, per Bacco! Ho viaggiato l’intera notte senza trovare
uno «sleeping»; lo scompartimento era pieno zeppo, cosicchè non ho
potuto chiuder occhio. Pazienza! Ora ti spiegherò lo scopo della mia
visita. Vorresti frattanto farmi dare una tazza di caffè? Sarà la terza,
stamattina.
— Ma certo, e con piacere! — Chiamai Ludovico, detti l’ordine.
— Hai una splendida casa. Mi pare che te la passi molto bene ora.
— Oh, non lasciarti illudere dalle apparenze! Sono i vestigi delle
glorie antiche. Va male, invece, molto male! Ho avuto un periodo
favorevole, ma ora il vento si è messo a fortunale. Questo non importa;
parliamo d’altro. Cosa fai a Roma, e dove sei stato, uomo
misteriosissimo, in tutto questo tempo?
— Sono spiegazioni che non si possono dare così rapidamente. A Roma
vengo per affari, ed anche un poco per rivederti, per Bacco! Quanto
all’itinerario ed allo scopo dei miei lunghi viaggi, te ne discorrerò
poi.
— Non arrivi da Parigi ora?
— Sì, da Parigi; ero tornato in Francia da circa due mesi. E quante
novità sul tuo conto!... Non volevo credere. Io, che pensavo di
ritrovarti, sereno e beato, con la tua superba Elena, e magari con un
piccolo erede maschio, al quale, per farmi piacere, avresti dato senza
dubbio il profetico nome di Elia!
— Mah!... che vuoi? la vita!... — feci con simulata indifferenza, pur
sentendomi rimescolare. — Sai bene... tutto passa!
— Già, è la canzonetta che lo dice. Le canzonette hanno sempre ragione.
— L’hai veduta?
— Sì, ma da lontano. So di non essere nelle sue buone grazie e l’ho
lasciata in pace. D’altronde ha finto di non riconoscermi... ed io son
uomo assai discreto. Poi, adesso è la sua grande ora. Ha avuto
ultimamente un trionfo nel _Drame d’autrefois_, la «pièce» che fa
furore.
— Ah, sì, ho letto infatti...
— Ed è sempre più bella!
— Più bella?... — Entrò Ludovico, portando sopra un vassoio due
chicchere fumanti.
— Ma tu devi aver sonno! — esclamò Elia, trangugiando il caffè. — Se
vuoi tornerò più tardi.
— No, rimani, rimani; ormai sono desto e fra poco mi leverò. Dimmi: a
che albergo sei sceso?
— Al _Quirinale_. Vado sempre lì.
— E ti trattieni a Roma?
— Una quindicina di giorni forse.
— Bravo, ne son contento. Potremo raccontarci molte cose. Anch’io ne ho
tante, che mi pesano sul cuore. Non con tutti gli amici si può essere
sinceri come con te, gentile e mansueta canaglia!
— Dio buono! Il sentire l’amicizia è forse la sola virtù che posseggo, e
ti giuro che, anche senza l’altre mie ragioni particolari, avrei fatto
un viaggio tre volte più lungo, solo per la gioia di rivederti. Che
vuoi? quanto più invecchio, tanto più m’avvedo che c’era in me, sotto il
mio cuore di nemico degli uomini, un vecchio babbeo sentimentale. Poi mi
prendono certe manìe... Per esempio questa: ora che sono a Roma, voglio
andare a farmi benedir dal Papa... E gli bacierò la pantofola, se
occorre.
— Buffone! Prendi una sigaretta e raccontami lo scopo vero della tua
visita.
— Ah, scusa... tutto quello che vuoi, ma il vostro tabacco italiano,
proprio non lo posso tollerare! Ho altre sigarette con me, ti ringrazio.
Ne accese una, ed appoggiando il gomito sul piumino trasse uno sbadiglio
enorme.
— Dunque, — riprese, — io son venuto in primo luogo per pagarti un
debito.
— Un debito? Non credo che tu ne abbia con me.
— Oh, oh!... sei un creditore molto smemorato, ma io son anche un
debitore molto scrupoloso... Tieni.
Si aperse la giacchetta, trasse dal portafogli una busta gonfia e me la
diede.
— Questo è denaro che ti spetta; non te l’ho mandato prima, sapendo che
sarei venuto a Roma. Son novemila franchi: la tua parte esattamente.
— Ma, scusa, non capisco... — risposi, girando e rigirando la busta in
ogni verso, senz’aprirla.
— Come non capisci? Hai scordato l’affare dell’ultima collana, a Londra?
Fu venduta circa un mese fa per centodiecimila lire; ne valeva un buon
terzo di più, ma non si è potuto far meglio.
— Ah, sì... Ora mi rammento. Però, senti: la parte che ho presa in
questo affare, se ti ricordi, è stata così piccola, così trascurabile,
che veramente una ricompensa mi parrebbe soverchia per la mia fatica...
Poi, vedi, a queste cose ormai ho rinunziato.
— Sarà benissimo, — egli fece stoicamente; — ma per questa volta fa il
sacrifizio di accettarli ancora, poichè ti appartengono. E se proprio ti
bruciano le dita, o se le tue condizioni sono così prospere da poterli
disprezzare... fa una cosa: dalli in beneficenza. Qualche volta bisogna
pensare anche all’anima! Io son divenuto un uomo pio e ti dò questo
consiglio.
Feci una bella risata, gettai la busta sopra un tavolino, con l’aria
dell’uomo che butta in un canto un vecchio avanzo della propria
coscienza.
— Insomma, grazie, grazie di cuore, — gli dissi tendendogli la mano. —
Accetto, e non li darò in beneficenza, ti assicuro, perchè sono ben
lontano da quella prosperità che mi attribuisci. Ho avuto un momento
favorevole ma, ora la Borsa va a rotoli, il giuoco peggio che mai, il
credito è quasi nullo... bah!... tristezze, tristezze, mio buon Elia!
— Se m’avessi dato retta! — egli osservò tranquillamente.
— In cosa?
— Oh, in molte cose, in qualsiasi cosa che tu avessi preferita. Partire
con me, per esempio, o almeno prendere una buona volta una risoluzione
decisiva. Ti consigliavo anche di ammogliarti; era la cosa più
ragionevole che tu potessi fare.
— Infatti m’ero alla fine risolto. Ma giunsi troppo tardi. Quella che
sai, s’era già fidanzata e stava per maritarsi.
— Ah sì? Qui a Roma?
— A Roma.
— E la vedi?
— Se la vedo?... Sì... qualche volta.
— Pazienza, mio caro! Ma non c’è poi quella sola. Le ragazze da marito
spuntano come i funghi. Solamente bisognerebbe che ti sbrigassi un
pochino, perchè anche tu cominci a non esser più tanto giovine.
— Non solo è vero quello che dici, ma mi sento ancora più vecchio della
mia età. Poi è troppo tardi in ogni modo, troppo tardi per mille
ragioni.
— Vedo, mio caro, che ti ha ripreso un’altra volta la ruggine. Bisogna
ch’io ti galvanizzi un poco lo spirito.
— Eh, mio buon Elia, temo che non sia soltanto ruggine!... Questa volta
ci dev’essere qualcosa che si è definitivamente spezzato.
— Oh, come sei tragico!
— Di’ piuttosto: rassegnato. Vedi, la vita non è tutta una burla; v’è
pur qualcosa che si deve scontare, o tosto o tardi, e temo di essere
proprio giunto a quel segno.
— Via! tu hai sonno adesso, e non v’è nulla che faccia considerare la
vita sotto un colore buio come l’aver dormito male. Riposa ora; più
tardi ne riparleremo. Io me ne vado.
— No, férmati ancora un poco; non ho più sonno, ti assicuro.
— Ma vorrei prendere un bagno, cambiarmi d’abiti.
— Bene: ancora un momento e te n’andrai. Per l’ora di colazione ti verrò
a prendere all’albergo.
— È inteso, — egli fece, tornando a sedere.
— Orsù, raccóntami qualcosa.
— Di che?
— Di Elena. Come vive? Cosa fa?
— Trionfa e splende. A Parigi non si parla che di lei; mena un lusso
iperbolico, la si vide qualche volta al Bosco, ha la sua carrozza, i
suoi domestici, uno splendido appartamento, «rue la Chaussèe d’Antin,
19», se t’interessa.
— E poi?
— E poi recita, e miete applausi, e sono in cento che si contendono i
suoi favori. Ah... dimenticavo! Ha una bellissima bimba: una cosina
piena di riccioli... Credevo che fosse tua, ma invece m’hanno assicurato
di no.
— Non è mia! non è mia! — esclamai con impeto; — ma vorrei sapere a chi
l’attribuiscono.
— Inutile che tu prenda quel tono geloso! Dev’essere un grande
mistero... E poi chi si occupa di questo? In apparenza ti è rimasta
fedele. Ha un amante, certo, ma non lo si conosce.
— Perchè «certo»? Come puoi affermarlo così?
— Oh, per Bacco! lo si comprende. In che altro modo si procurerebbe il
denaro per condurre la vita che fa?
— Se recita, può darsi che guadagni abbastanza...
— Eh sì! Ci vuol altro! I soli abiti che portava in quest’ultimo dramma
costavano più di quello che può guadagnare in sei mesi. Dunque fa i tuoi
conti. Ma è tardi ora, — soggiunse guardando l’orologio, — e bisogna che
ti lasci. Una buona doccia, e mi ritroverai fresco, nonostante
l’orribile viaggio. A rivederci, Guelfo.
— A rivederci, Elia!
Non appena fui solo, nascosi la faccia nelle coltri e disperatamente
piansi. Ma da quel giorno l’amore mio si ravvolse d’un velo funebre, si
addormentò nel mio cuore profondo come sotto la pietra tombale di un
sepolcro dimenticato.


VIII

Talvolta il denaro inatteso porta fortuna e vi son uomini che arrecano
con sè la buona ventura.
Giunto Elia, la sorte mutò improvvisamente. Come per incanto la Borsa mi
fece riacquistare il perduto, ed al giuoco mi assistette una fortuna
così tenace che il rubicondo e calvo marchese della Pergola, dondolando
la sua buona testa di vecchio fanciullone, perduto il colpo, non ristava
dall’esclamare: «Inutile! inutile! contro di te non si può spuntarla!
Sei tornato in pieno calore!»
Così la mia vita era tutta un’alternativa d’aurore e di tramonti;
nell’attimo stesso in cui stavo per cadere, una mano invisibile
scendeva, pronta, per soccorrermi ancora. Nasce in tal guisa una
spavalda sicurezza di sè stessi e quasi ci si rimprovera d’aver dubitato
della fortuna. In quei momenti d’auge, l’operoso, l’ape umana, par quasi
un piccolo insetto previdente e sciocco, poich’esso costruisce piano
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