L'amore che torna: romanzo - 18

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sembra un sogno!
Due gonfie lacrime le spuntarono su le ciglia; scivolarono giù, caddero.
— Domani sera mi condurrai alla stazione, e sarà l’ultimo bacio...
l’ultimo! Ci scambieremo dal finestrino un saluto rapido, come fanno
tutti quelli che vanno via, noi, che siamo stati un essere unico. E
ritornerai sola, ti guarderanno, diranno qualcosa dietro di te....
Bah!... questa è la vita. Non ci vedremo più, forse non mi scriverai
nemmeno più.
Ed anch’io piangevo, dolorosamente.
Bisognava godere tutto il supplizio di un’ora così definitiva.
— Guarda, — continuai; — le cose nostre avevano presa l’abitudine di
stare insieme; ora bisogna scegliere, bisogna dire: «Questo è mio —
questo è tuo.» E domani non troverai più le mie cravatte ne’ tuoi
cassetti, nè io qualche tuo fazzoletto fra i miei, qualche tuo nastro
nelle mie scatole per i guanti. Spesso ti lamentavi perchè lascio le
sigarette spente in ogni angolo. Non ne troverai più. La tua vita sarà
più semplice, più calma, più libera.
Ella barcollò un poco, non sapendo se lasciarsi cadere nelle mie braccia
o rovesciarsi all’indietro; volle ridere, piangere, poi un forte
singhiozzo le schiantò la gola, e scioltasi bruscamente dalle mie mani
andò via di corsa, nella sua camera, chiuse l’uscio a chiave, ed intesi
che si era lasciata cadere sul letto. I bauli rimasero aperti, le
biancherie sparse, io solo, senza poter comprendere, senza pensare.
Poi lentamente scomparve la striscia di sole; venne il crepuscolo; da
una finestra malchiusa entrò qualche alito d’aria fredda; nell’ora del
tramonto quella giovine primavera pareva un grigio inverno. In quella
penombra mi guardai d’attorno, come per raccogliere in me una memoria
d’ogni cosa. Non vidi che mobili vuoti, cassetti aperti, armadi
sguerniti, qualche involto su le seggiole, qualche lembo di giornale a
terra, e nel mezzo della camera i due bauli spalancati, che parevano
sbadigliar di noia, come pigre bestie che si destassero da un polveroso
letargo. Lentamente l’ombra cresceva, e con essa i pensieri si facevano
più foschi. Dicevo a me stesso:
«Tu non hai saputo essere felice; ora sappi non piangere». E dicevo a me
stesso: «Perchè ti disperi? Non hai tu stesso accettato e preparato
questo necessario abbandono? Tu, che non hai fatto nulla per il tuo
amore, null’altro che aspettarne la fine, perchè lo rimpiangi ora come
un grande bene che ti fosse ritolto? Perchè questa irresolutezza? Sii
forte! Non cedere alle commozioni che tu stesso ti elargisci. La tua
natura d’istrione ti soverchia l’anima. Tu l’ami l’amore ed ami il
dolore, ma in verità non ami e non soffri. Sei crudele anche; la tua
crudeltà non ha nome. Va! Ti aspetta un’altra vita, la sola che a te
convenga. Altre mani di donna, che hai già respinte, ti offriranno forse
ancora la coppa ricolma.... Va e bevi!»
Ma insieme con questi pensieri, qualcosa di vero e di grande, un
sentimento ancora ignoto, sorgeva; ed era finalmente l’amore, l’amore
triste, inguaribile, angoscioso, pieno di gelosie, di paure, che duole
come una ferita ed inebbria come un liquore.
Raffinato e perverso, questo amore mi piacque; mi piacque avere
nell’anima, per sempre, un flagello, in quest’anima su cui tutte le
passioni erano scivolate senza imprimervi un solco. Era il mio primo
amore: in quel momento avevo ancora vent’anni.
Più tardi ella s’affacciò all’uscio, per dirmi, come diceva sempre:
— Vieni, è l’ora del pranzo.
— Elena... — la chiamai, sollevandomi con il gomito sui guanciali.
Ma ella si ritrasse rapida e non rispose. Pranzammo vicini, tristemente,
per l’ultima volta. Ella vide che avevo pianto, io vidi gli occhi suoi
segnati all’intorno da una grande ombra.
— Perchè non mangi? — le domandai.
— Non ho fame. — Indi una pausa: — E tu?
— Nemmeno.
Presi una posata e l’esaminai: v’erano le mie cifre, la mia corona,
incise. La feci battere su la stoviglia e dissi:
— Ti ricordi quando abbiamo comperata quest’argenteria? Ella si
ristrinse nelle spalle, chiudendo gli occhi, abbassando il viso;
— Sì, mi ricordo.
Elena faceva ella stessa il caffè; quando l’ebbe versato nelle tazze,
trangugiò in fretta qualche sorso, poi fece atto di levarsi.
— Dove vai?
— Di là.
— Dove?
— Nella mia camera.
Detti in uno scoppio di riso acre:
— Ti annoia tanto la mia presenza? Domani non ci sarò più.
In silenzio ella tornò a sedere.
— Che male ti ho fatto perchè tu mi debba odiare? — soggiunsi. — Non hai
pietà veramente! Ora ti conosco bene.
— Chi di noi due non ha pietà? — ella chiese con la voce spenta,
illuminandosi d’un amaro sorriso. E continuò: — Cosa vuoi da me dunque?
che mi butti alle tue ginocchia e ti supplichi di non partire? Questo
no! Il mio carattere non lo consente. So che non possiamo più vivere
insieme; so che, lontano, puoi ritrovare la felicità, e mi sopprimo
assolutamente, scompaio, cerco di render facile quest’ora, che un’altra
si compiacerebbe forse di render tragica. Dimmi: cosa puoi chiedere di
più ad una donna, e sopra tutto ad un’amante?
Le andai vicino, e chinandomi su la sua bocca, poichè sentivo che non mi
avrebbe respinto:
— Cosa farai senza di me? — le chiesi.
— Non so! non so!... — rispose concitata. E scuoteva il capo, e serrava
le palpebre, come per sottrarsi ad ogni pensiero.
Le cinsi con un braccio la vita, e lievemente, con il timore delle prime
volte, la baciai.
Dalla veranda, che avevo aperta, soffiavano gli aliti della sera; un
profumo di tigli e di timi odorava da nascosti giardini. Uscimmo sul
terrazzo, ci appoggiammo a lato su la ringhiera: in alto scintillavano
le stelle infinite.
— Che farai senza di me? — le chiesi ancora. Giungeva dai Campi Elisei,
or forte, or tenue, sul vento, un frastuono di liete orchestre serali;
molti lumi tralucevano entro il nereggiare degli alberi,
ininterrottamente, dando a quel lembo di città l’aspetto d’una fiera
notturna, che brillasse nella confusa distanza.
— Che bella notte! — esclamai. — Che triste bellezza mandano tutte le
cose quando si deve partire!
Salivano canzoni di gioia, tra le folate d’aria.
— Non senti come tutti sono allegri?... Cantano, ridono, gli altri!...
Possono ridere, possono amare, mentre noi....
Dallo sbocco della strada, fra due lampioni quasi fosforescenti, si
vedevano passare carrozze, vetture, l’una dietro l’altra, senza tregua,
con la lentezza di un corteo.
Subitamente mi afferrò il desiderio di confondermi anch’io, di perdermi
anch’io, per l’ultima volta, con la donna che amavo, tra quella gente
spensierata, in mezzo a quella città di piacere che suscita implacabili
crudeltà e smoderate ambizioni.
— Usciamo, — le proposi. — Mettiti un cappello e vieni con me: qui si
muore!
— E là?... — diss’ella semplicemente.
— Là si canta, c’è molta luce, molto riso... Vieni, ho voglia di
stordirmi, di ridere anch’io!...
La strada fino ai Campi Elisei era quasi deserta; un profumo di tigli e
di timi olezzava da nascosti giardini.


XI

I facchini si caricarono i bauli su le spalle, con fatica, e li
portarono giù per le scale. Dalla finestra noi li vedemmo posare sul
carro, che mosse barcollando per la strada, fino allo svolto, e
scomparve. Stavamo stretti l’uno all’altro, percorsi da un freddo
brivido in ogni vena, senza poterci parlare, senza poterci guardare.
Avevamo negli occhi entrambi l’ardore della notte insonne, di cui mi
sovvenivano i baci e le lacrime come la memoria di una complicità
indistruttibile.
Tutto quel giorno contammo il tempo che passava, muti, gelidi, come se
in quel giorno finisse la vita. Poi s’intese l’orologio a pendolo nella
sala da pranzo battere cinque pesanti colpi, e ci guardammo nel viso
percossi dallo stesso pensiero.
«L’ultima, l’ultima ora...» La presi nelle braccia e la strinsi così
forte che le dovetti far male; con le labbra aride ci baciammo fino al
dolore, quasi per comunicarci nel respiro l’anima. Era stato ancora un
giorno di sole; ora, su l’imbrunire, vaste nubi scalavano l’orizzonte,
sfioccandosi per l’aria, tra un fresco odore d’acqua vicina.
Senza dirci nulla, entrambi andammo nella sua camera; ella si mise un
cappello nero guernito di rose, coprendosi la faccia con un velo fitto,
e s’appoggiò con il dosso alla specchiera dell’armadio per mettersi i
guanti. Una rosa che le pendeva giù dal cappello, su l’ala, da un lato,
si guardava nello specchio, tutta sbocciata e vasta, tremolando ad ogni
movimento che facevano le sue dita nell’abbottonare i guanti. Per aver
libere le mani, teneva un manicotto di lontra chiuso tra le ginocchia,
in un solco della gonna, e il brillare delle sue scarpine appariva di
sotto la balza, con un riflesso fermo.
La prima volta ch’era venuta nella mia casa di Roma, s’era messa così
contro il camino, ed anche allora portava un velo fitto perchè non la
riconoscessero per via.
La guardavo trasognato, credendo ancora, per una aberrazione ultima, che
un altro partisse, non io, che un’altra donna m’accompagnasse, non lei.
Venne Clara e mi portò il cappello, il soprabito, mi diede anche un
piccolo involto, forse un oggetto dimenticato. Presi ogni cosa
macchinalmente, guardai da una stanza nell’altra, come per raccogliere
di tutte la memoria ultima, guardai e vidi ogni cosa, tutte le più
piccole cose: mi sentii vacillare ad ogni passo, e giunsi con Elena fino
alla soglia di casa. Clara ci aveva seguiti, ma non osava parlare. Stavo
già sul pianerottolo, quand’ella mi disse timidamente:
— Buon viaggio, signore.
— Addio, — risposi senza volgermi, come se uscissi per una passeggiata.
Poi m’avvidi che partivo per sempre, tornai indietro, le strinsi la
mano, ben forte; vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime, ed anch’io,
sentendo che le mie ciglia s’inumidivano, rivolsi la faccia in fretta.
Ella rimase in alto e guardò giù dalla ringhiera. Mentre passavamo, il
portinaio venne a salutarmi.
— Parte il signore?
— Sì.
— Vogliono una vettura?
— No, grazie.
E ci trovammo fuori, sul marciapiede, fra molta gente che passava
rapida. Mi parve che la strada quel giorno, avesse una fisonomia del
tutto insolita. Elena teneva la faccia così china che non riuscivo a
guardarla negli occhi. La presi a braccio e camminammo rasente i muri,
angosciati, eppure insensibili. Tutte le cose circostanti attraevano il
mio pensiero, molto lontano, fuori dalla realtà.
Passava un cavallo, e pensavo la storia di quel cavallo, zoppicante sul
lastricato tutto il giorno; la storia del suo cocchiere, della sua
posta; pensavo ad altri cocchieri, li vedevo incrociarsi urlando,
facendo schioccar le fruste, rassegnati e grotteschi; mi parevano cose,
non uomini, — cose più miserevoli del loro cavallo. Passava un soldato,
e pensavo le caserme, le riviste, le uniformi, le osterie dove si
andavano ad ubbriacare, le case turpi ove trascinavano le lor sciabole
rumorose; passava una donna giovine, bella, e pensavo all’amante che
l’aspettava in una casa recondita, — una donna brutta, povera, e pensavo
alle camere buie, dove i bimbi strillavano, mentre il marito le
appestava l’aria con la sua pipa nera di acre tabacco....
E tutte queste visioni riddavano sopra uno sfondo di dolore immenso,
ch’era il mio stesso dolore. Di quando in quando una lucidezza terribile
mi feriva la mente, e sentivo tutti i miei nervi contorcersi fino allo
spasimo.
D’un tratto Elena si fermò, poggiandosi contro il mio braccio con
entrambe le mani, che si contrassero.
— Non posso più camminare... — mi disse con un alito. — Chiama una
vettura.
Ne passava una; la fermai; vi salimmo. Intorno, per la via popolosa, le
vetrine fiammeggiavano, imbiancando i marciapiedi; le carrozze lente, in
più file, ogni tanto sostavano per dare il varco alla gente.
Rincantucciati nella vettura buia, l’uno contro l’altra, tenendoci le
mani, ebbi voglia che il cavalluccio continuasse indefinitamente il suo
trotterello stanco, per non giungere mai, per non scendere più.
— Ti senti male? — domandai.
— No, è stato un momento... nulla. Ora passa... passerà. Le cinsi con un
braccio le spalle, delicatamente, come se il mio amore potesse guarirla.
Ella si rannicchiò al mio fianco, facendosi piccola, con un movimento
pieno di paura.
— Mi scriverai?
— Sì, amore.
— Ogni giorno?
— Se vuoi...
— E tutto mi scriverai?
— Tutto... sì, tutto.
— Fin quando?
Ella fece un vago segno, come per dire: — Chissà?
— Io lo so fin quando... — risposi.
— Lo sai?
— Sì.
E sorridevo; mi pareva d’intravvedere una felicità.
— Dillo.
— Fino al giorno in cui ti scriverò: «Domani ritorno.»
— Oh... — ella fece, con un gesto d’incredula rassegnazione.
— Ricordati una cosa, Elena; sarò capace di tutto per tornare a te.
Intendi bene: di tutto! — E v’era nella mia voce una fermezza così
certa, ch’ella si volse a guardarmi, poi si ristrinse di nuovo contro la
mia spalla, senza rispondere.
— Senti, — le dissi, — nel piccolo scrignetto ove tieni le tue gioie, ho
lasciato il denaro che avevo. Appena mi sarà possibile te ne manderò
altro da Roma.
— Oh, perchè hai fatto questo! — esclamò ritraendosi. — Te lo rispedirò
sùbito.
— Sarebbe offendermi, Elena; e spero che non lo farai. A Roma troverò
sùbito quanto mi occorre; tu invece potresti averne bisogno.
Prométtimi...
Leggermente mi strinse una mano, e, dopo un silenzio:
— Sei buono con me, — rispose.
— Dimmi ora una cosa... ora che vado via, — domandai sottovoce. — Mi hai
voluto bene? bene davvero? Non l’ho compreso mai.
Appoggiò i gomiti su le ginocchia e si prese la fronte fra le mani,
senza rispondere. Nel sollevarle il volto, sentii ch’era intriso di
lacrime.
— Non me lo vuoi dire?
— E tu? — fece con angoscia; — e tu?
— Io?... sei stata la sola cosa che abbia mai adorata nel mondo... la
sola; e non ti potrò dimenticare finchè vivo.
— Perchè mi lasci allora? — domandò con una voce sorda, — quasi
violenta.
— Sei tu che hai voluto, Elena. E poi...
Rise, rise forte, come se avesse nell’anima una ilarità crudele.
— Ah sì... sono io! sono io! — esclamò, crollando il capo con veemenza.
— Io sola!
E poichè la stazione appariva lontana, tra un chiarore nebbioso di
lampioni, ci abbracciammo con tutta la forza delle nostre braccia, con
tutto lo spasimo che torceva le nostre anime.
Scendemmo; andai a prendere il biglietto, a spedire il bagaglio; e le
mani ad ogni gesto mi tremavano come se una crescente febbre consumasse
le mie vene. Mancava una ventina di minuti alla partenza; nella sala
d’aspetto c’era un angolo semibuio; vi andammo a sedere.
Mi ricordo che un vecchio viaggiatore, con uno scialle indosso,
camminava avanti, indietro, ed i suoi passi facevano un rumore pesante
nel silenzio della sala.
C’era una monaca, dalla faccia pura e delicata fra i suoi lini bianchi,
la quale sedeva immobile sul divano di velluto, poco lontano da noi.
S’era spenta una lampadina elettrica ed un uomo, in camiciotto di tela,
salito sopra una tavola, stava cambiandola. Tutti, sonnacchiosi,
guardavano al suo lavoro.
— Oh, se tu potessi partire con me! — le dissi piano, all’orecchio. Non
piangeva; era muta, ferma, assiderata quasi da una specie
d’insensibilità. Aveva sollevato il velo a mezzo il volto, e questo velo
nero le s’increspava come il pizzo d’una maschera sopra la bocca smorta.
Ogni tanto rideva, di un riso atono, ed una contrazione interiore le
metteva un sussulto alla sommità del petto. Mi sentivo a poco a poco
vincere da una specie di oblìo, ch’era come la distruzione del dolore,
la sofferenza infinita, che non soffre più. L’avevo amata immensamente,
golosamente, dando a lei sola tutte le passioni ch’erano rimaste aride
nel mio passante cuore, a lei sola tutto il profumo che mi aveva profuso
nell’anima questo ritorno della primavera, e lo sapevo in quell’ora
ultima, senza rimedio e senza pace. Volevo dirle infinite cose: non
c’era più tempo, non c’erano più parole. Volevo cadere a ginocchi
davanti a lei, o prenderla con violenza fra le mie braccia, o gridare, o
farmi e farle del male; ma non sapevo in che modo vincere la fatica
dell’interiore mio silenzio, la paura che mi colmava le vene con un
senso di fragorosa vacuità, mentre i miei occhi la fissavano senza mai
abbandonarla, quasi per imprimere l’ultima bellezza del suo volto nella
profonda ombra del mio dolore che partiva.
Un impiegato s’affacciò alla porta e cantilenando si mise a ripetere gli
arrivi, le partenze dei treni. Ci levammo; nell’angolo semibuio, sotto
il velo umido, la baciai col mio dolore come non l’avevo ancor mai
baciata. Sentii che il peso leggero del suo corpo si abbandonava nelle
mie braccia, simile ad una cosa morta, e la sua bocca, e le sue mani, ed
anche il suo respiro, tutto era freddo in lei, come se non avesse più
sangue.
— Anima... anima mia... — le volli dire, o le dissi.
Ella si levò dalla cintura, di sotto il mantello, un mazzo di viole
fresche.
— Tieni, — balbettò; — non posso darti altro: le ho prese per te.
Baciai la sua bocca, le viole insieme; ravvolsi quel mazzo nella carta
velina che ne fasciava gli steli, e ci avviammo.
— Ritornerò, ritornerò... — mormoravo camminandole accanto. — Aspéttami,
Elena... tornerò súbito.
Ed il rumore de’ miei passi dolorosamente si ripercoteva nel mio
cervello sperduto.
Ci fermammo a piè del treno, davanti ad uno scompartimento aperto, nel
quale gettai tutto quanto portavo con me. Un uomo venne, mi domandò il
biglietto, lo diedi. E restammo vicini, con gli occhi fissi negli occhi,
pieni di stupore, in silenzio.
Gente passò, impiegati gridarono; per tutta la lunghezza del treno si
udiva uno sbattere di sportelli. Quando giunsero al mio, la strinsi fra
le braccia ancora, fin ch’ebbi fiato, poi salii nel treno, chiusero, e
m’affacciai.
Si era fermata un passo lontano, rigida come una statua, con le mani
congiunte sul grembo, un piede appena discosto dall’altro, un ginocchio
che le formava un piccolo rilievo su la gonna scura.
Intesi un crepitar di ruote, il treno si mosse con fatica, e mi parve
che la vedessi lontanare, già piccola, già perduta.
— Addio... addio... — le gridai, sporgendo il braccio.
Ella camminò come per seguirmi, e tese la mano senza giungere alla mia.
— Senti... — balbettò, — volevo dirti una cosa... Io...
Ma non disse nulla; di colpo si fermò con una specie d’urto, e rimase lì
a guardarmi, del tutto immobile, su l’orlo del marciapiede.
— Dimmi, dimmi?... — le gridai, mentre partivo. E súbito lo spazio fra
di noi divenne vasto, lontano, buio.
Ebbi un senso quasi di vertigine, che mi costrinse a ghermire le tende.
— Addio!... addio!... — gridava il cuore disperatamente, — amore...
anima... vita mia!...
Divenne piccola, incerta, come una cosa che va nella tenebra e nella
tenebra s’occulta... la notte si fece profonda, non la vidi più.


I

Il treno che mi portò verso Roma, quasi mi diede l’impressione di farmi
percorrere una terra sconosciuta.
Trasognato guardavo. E le strade bianche dall’Appennino selvoso mi
parevano strade ignote, ignote le città biancheggianti tra i primi
chiarori dell’alba, e la malsana Maremma e le fuggenti, popolose di
bufali, praterie della Campagna. Nell’aurora, mentre la primavera
laziale metteva sopra tutte le cose un colore indefinibile di eternità,
lontana e raggiante Roma mi apparve, Roma dalle cento basiliche, simile
a una grande isola, tutta bianca di palazzi, che stupendamente apparisse
fuor da un oceano di vapori.
Quando vi giunsi, eran le undici del mattino; l’aria limpida balenava
nella Fontana di Termini.
Oh, viaggio indimenticabile, dovess’io vivere mill’anni!
Scesi. I miei passi erano grevi come se nelle vene mi pesasse l’inerzia
d’una estenuante fatica; dentro il cervello stordito continuava il
rombar del treno come un’eco dolorosa. Una stupefazione grande attutiva
in me l’acutezza della mia pena e fui come lo straniero che dopo anni di
pellegrinaggio, faccia ritorno alla sua casa natale, ma più s’inoltri e
più tema, davanti al pensiero di trovarla deserta.
Mi sorprese il linguaggio che la gente parlava, mi sorpresero i lor
gesti e l’aspetto delle contrade note.
Ritornavo, ma non ero più che l’ombra di me stesso: anzi un estraneo
solamente, un triste caduto; ritornavo con l’anima inerte, fasciata in
un immenso dolore. Nella città ch’era stata mia, or m’attendevano
sguardi curiosi e cuori chiusi, nella città stessa ove il mio fasto mi
aveva data una effimera gloria e la mia vita era stata un esempio per
molti.
Non avevo avvertito alcuno del mio giungere, neanche Fabio perchè un
poco di solitudine mi sarebbe stata necessaria in quel primo ritorno. A
Ludovico, il mio domestico, non avevo potuto scrivere, ignorando se
avesse preso in quel frattempo un altro servizio; e così dovetti
scendere all’albergo. Le vetture da forestieri attendevano allineate;
mentre ne scorrevo le insegne, un conduttore mi si avvicinò, salutandomi
garbatamente:
— Ben tornato, signor conte. Mancava già da un pezzo!
Sul berretto, a cifre d’oro, portava il nome dell’albergo nel quale
aveva dimorato Elena durante il suo soggiorno a Roma.
— Oh, siete voi? — feci con una commozione subitanea. E mi parve di
ritrovare un amico.
— La signora non è tornata con lei? — mi domandò egli con premura.
— No, per ora no. Prendete la mia borsa e chiamatemi una vettura.
Le strade formicolavano di gente chiassosa, inoperosa. Guardavo intorno
con una curiosità stanca, rievocando memorie lontane, pensando alle
partenze ed ai ritorni che si fanno nella vita, pensando all’amore che
si dimentica per via, alla ricchezza che passa, all’invidia che segue da
presso quando si domina, ed allo scherno che assale da ogni parte
allorchè si precipita... Oh, commedie della vita... decadenza,
imbecillità!
Giunto all’albergo scrissi tosto un biglietto al portinaio di casa mia,
perchè facesse ricerche di Ludovico e, se fosse ancor libero, lo
mandasse da me. Lo pregavo insieme di farmi avere sollecitamente ogni
lettera, man mano giungesse. Indi salii nella mia camera e mi coricai.
Un sonno pesante, uno di que’ sonni esausti che seguono da presso le
grandi sciagure, mi dette per qualche ora l’oblio.
Pranzai all’albergo; la sera volli uscire in cerca del Capuano, ma il
mio cuore talmente si strinse non appena fui nella strada, che tornai
sùbito indietro, mi chiusi nella camera e scrissi ad Elena.
Rivedevo lei, nella nostra casa, nel suo letto insonne, al buio, che
volgeva gli occhi asciutti verso l’uscio della mia camera vuota. E
immaginavo di entrare piano piano, di sedermi su la sponda del suo
letto, e prenderla fra le braccia per non lasciarla mai più. Adesso mi
ricordavo e bene sapevo intendere tutto quanto mi era sembrato
incomprensibile nell’anima sua. Era una creatura dolce, paurosa di
amare, nascosta dietro un’apparenza d’insensibilità.
La vita le aveva insegnato a celarsi, ma il suo cuore fioriva come una
pianta odorosa, che sveli con la sua fragranza il nascondiglio.
Nell’amore la sua gran dolcezza era il silenzio.
C’erano in lei due diverse anime, che a volta a volta la facevano
apparire buona e crudele, sincera e mendace, amorosa e fredda, forte e
lieve. La sua bellezza non era tutta in lei, ma le viveva intorno come
una immateriale presenza; e le cose che le appartenevano, i luoghi per
dov’era passata, i pensieri che faceva nascere, le parole che aveva
dette, rimanevano belle. Nella mia vita randagia, fra i sentimenti e le
cose, avevo trovato infine un essere d’elezione, ma senza imparare a
conoscerlo se non nell’ora dell’abbandono. Perenne tormento, perenne
inutilità del mio cuore!
Mi sentii malato; una voglia sterile di baci tormentò le mie labbra
desiderose; e nell’età virile, quando già si comincia ad inaridire,
sentii che la vita in me tornava, che tornava l’amore, come una chiara
fontana dissuggellatasi all’improvviso.
Ero vissuto sprecando i giorni migliori, d’ogni cosa trastullandomi con
una virtuosità senza pari; m’ero sentito forte come pochi, giovine come
pochi e temerario contro la sorte; non avevo creduto possibile che un
amore, una donna, fermassero a mezzo il cammino questa inebbriante mia
fuga.
Di fatti ancora ne dubitavo. C’era nel più profondo dell’essere mio,
come ai confini d’un lago burrascoso, un tratto di palude morta, ove
tutte le ondate più alte andavano a finire senza urto, senza rumore,
imputridendo fra melmosi canneti. Là dentro affogava continuamente
quella parte di me stesso che pur sentiva il coraggio di vivere nella
bufera; là dentro c’erano i dubbi, la perplessità, l’indifferenza, e
quel senso dell’inutile universale, dell’ateismo infinito, che su tutto
gravava come un cielo basso e plumbeo. Maremma dell’anima, questa parte
di me stesso aveva continuamente soffocato la mia volontà, sopraffatto
in me i sogni, le speranze, i sentimenti, e mi pareva incredibile che
l’amore d’una donna sapesse infine vincere questo mio cuore in cui tutto
inaridiva. Mi rammentai la frase che avevo scritta nel libro d’ore della
dama romana:
«Passare, passare, passare... ineffabile vita!» E risi amaramente perchè
quei tempi eran lontani, l’anima mia profondamente mutata.
Il giorno dopo, mentre stavo ancora vestendomi, venne Ludovico, ed aveva
gli occhi umidi nel rivedermi. Strinsi con affetto la sua mano sincera,
gli domandai notizie della sua vita; egli mi raccontò ch’era in servizio
presso una famiglia borghese di via Nazionale, mercanti arricchiti,
buona gente, un po’ goffa, un po’ taccagna. Mentre, in forza di
un’abitudine antica, s’era messo tranquillamente a rassettare i miei
abiti, mi diceva ch’egli sarebbe tornato a servirmi con gioia se il mio
ritorno a Roma era definitivo.
— Ma come faresti con i tuoi nuovi padroni?
— Oh, signor conte, ho sempre detto loro che quando lei tornasse...
Tutt’al più ci vorranno gli otto giorni.
Senza sapere se sarei rimasto a Roma o no, per l’affetto che mi legava a
quel buon domestico e per avere accanto un uomo il quale mi rammentasse
i bei giorni passati, gli risposi ch’ero lieto assai di riprenderlo e
che, appena libero, andasse a riaprir la casa.
— Troverò modo di farlo súbito, signor conte! — esclamò l’uomo, e pareva
non tenere in sè dall’allegrezza.
— A proposito, Ludovico, sei stato a casa prima di venire qui?
— Sì, signore, vi sono stato; perchè non sapevo immaginare cosa volesse
da me il portinaio.
— E v’erano lettere?
— Oh... dimenticavo! Lettere no: un telegramma.
— Dammelo dunque! — lo esortai con impazienza.
Egli si cercò nelle tasche, in fretta, e mi porse la busta.
— Anzi, — mi disse mentre l’aprivo — c’era una sovratassa che ha pagata
il portinaio.
— Come dici? Ah sì va bene... — esclamai deluso. — È un telegramma
respintomi da Parigi.
Indugiai nel leggerlo; avevo sperato che fosse di Elena ed il cuore mi
batteva; invece portava la firma del Capuano. Ma, scorse le prime
parole, trasalii. Diceva: «Edoarda Laurenzano fidanzatasi ierlaltro De
Luca. Nozze fra un mese. Capuano»
E rimasi lì, come inebetito, a rileggere quelle parole, mentre mi pareva
che tutto girasse vertiginosamente.
Ludovico mi guardava perplesso, volendo forse domandarmi qualcosa e non
osando. Presi una sigaretta; egli m’accese lo zolfanello.
— Su, cercami le bretelle! — gli dissi, tornando a leggere il telegramma
per la terza volta.
— Ha ricevuta forse una cattiva notizia? — profferì timidamente.
— No... affatto, affatto! Un telegramma da Roma ch’è arrivato laggiù
dopo la mia partenza, — gli risposi alzando le spalle.
— Allora, se permette, io dovrei andare, per preparar tavola...
— Bene, Ludovico, va pure. Qua: dammi la mano, mio vecchio Ludovico. Ti
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