L'amore che torna: romanzo - 15

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— Non capisco le tue parole, — dissi duramente.
— Via!... sono certo che le comprendi benissimo. Non occorre per ciò una
grande immaginazione. Ma, se desideri che si parli con maggior
chiarezza, lo farò volentieri. Senti, Guelfo, lasciamo le vie trasverse:
tu potresti essermi utile, come potrei a mia volta esserlo per te; lo
abbiamo compreso entrambi, e si deve, tra uomini, decidere apertamente:
o sì, o no.
— Ricòrdati anzitutto, — gli dissi — che finora io sono sempre stato un
uomo onesto.
— Ne sei ben certo? — egli fece ambiguamente.
— Non m’importa che tu lo creda; faccio questa premessa perchè mi sembra
opportuna.
— Ebbene, se a te pare un gran merito, ammettiamolo pure. Tu sei dunque
un onest’uomo: questo però non vuol dire che io mi creda un briccone, o
che, nella sua ragione filosofica, la mia morale valga meno della tua.
Ma non si tratta per ora di mettere il nostro io sovra una bilancia.
Senti, mio buon amico, tu mi sembri oggi un re senza terre il quale
cerchi di riafferrare disperatamente il suo dominio perduto; ma, da
solo, ti affermo, è impossibile che tu riesca. Non nasconderti più a’
miei occhi; è inutile. Conosco troppo gli uomini e troppi ne ho veduti
giungere al tuo segno. Quello che tu sei oggi, sono stato più volte io
stesso, nella mia vita: ma non avevo i pregiudizi e per questo mi
risollevai sempre.
— Cosa chiami tu un pregiudizio? — feci, per un desiderio di laconismo.
— Chiamo pregiudizio tutto quello che l’uomo non fa per timore
dell’opinione altrui, ma che farebbe, quando avesse la certezza della
impunità. Da questo immagina quanto la serie dei pregiudizi è grande.
Io, vedi, li ho tutti esclusi: vi sono passato sopra, calpestandoli come
fango; ciò nonostante — e forse ne stupirai — la coscienza non mi
rimorde per nessuna fra le azioni che ho compiute in vita mia.
— Si vede, — osservai ridendo — che nella tua casa la coscienza è
un’inquilina poco importuna!
— Non ho ancor fatto visita alla tua, però mi augurerei di trovarla così
ben educata com’è la mia.
— Dunque veniamo al fatto.
— Piano, mio caro tu precipiti! Ho molte cose che debbo dirti prima.
Intanto permettimi ch’io ti faccia un ritratto morale.
— Volentieri, ma un’istantanea, ti prego, perchè odio la posa.
— Oh, ti fermo sùbito alla tua prima dichiarazione! Tu non odii la posa,
no, perchè anzi non v’è nulla di spontaneo, di naturale in te. L’abito
che ti sei fatto è una maschera, simpatica se vuoi, di ottimo gusto se
vuoi, ma una maschera in ogni modo. Senza questo atteggiamento la tua
vita non avrebbe avuta una ragion d’essere. Con esso ti sei dato un
carattere, una tua fisionomia.
— E quale di grazia?
— Petronius arbiter elegantiarum aveva meno tradizione, ma più tempra di
te. Egli era un intellettuale ed un sensuale; tu non sei in fondo che un
uomo profondamente corrotto. Egli era un amabile cinico, tu sei un
cinico per svogliatezza. Egli sarebbe stato «l’arbiter» anche in una
provincia barbara, o nel circo, tra gli schiavi, o nelle bettole della
Suburra, perchè la sua professione di eleganza era in lui, più che
un’abitudine oziosa, una convinzione, un bisogno, una bella e continua
familiarità. Egli chiuse la sua vita con un gesto magnifico, e morì
com’era vissuto, insegnando la sua serena indifferenza. Tu sei stato un
arbitro finchè il denaro ti è bastato ad esserlo; ma oggi ti sprofondi
nella mediocrità, e, tu per primo, ti riconosci un vinto.
— Oh, insomma, che c’entro io con Petronio! Che c’entra Petronio con
quello che mi devi dire?
— Bene, se hai fretta, concludiamo. Io sono verboso; non è colpa mia. Il
Padre Eterno, raccontano, con la parola creò la luce.
— E tu?
— Ed io ti dico: Caro Guelfo, mio buon amico, tu stai per andartene a
picco. Sei, ti ripeto, un re senza terre, che s’incammina verso
l’esilio. Ora, mentre da solo non hai l’audacia nè la forza di
risorgere, un uomo ti si avvicina, e quest’uomo son io, il quale ti
dice: «Vuoi ritentare la prova? Io possiedo per te qualche arma fatata.»
Vediamo; cosa rispondi a quest’uomo?
Lo guardai nel viso, a lungo, prima di parlare; poi dissi:
— Gli domando anzitutto perchè m’aiuta. La sua generosità non mi è
chiara.
— Quello che a te serve, serve a me pure. Si tratta di un bene
reciproco.
— Allora domanderò a quest’uomo, — seguitai sorridendo, — quali siano le
armi che possiede, o se non parli per caso di armi proibite, perchè io
non vorrei ferirmi per voler ferire.
— Dio sia lodato! — esclamò con sospiro. — Finalmente parli chiaro!
Ecco, ti rispondo sùbito; armi sicure, precise, caute, al maneggio delle
quali bisogna senza dubbio esser nati.
— Allora comprenderai anche, — lo interruppi con una voce fredda, — come
questi tornei sorpassino la mia destrezza e, se permetti, la mia
coscienza.
Egli, si accarezzò la barba con un gesto lento, guardandomi fisso, e mi
rispose accentuando le parole:
— Certo sorpassano la tua destrezza, ma credo insieme che la tua
coscienza vi si potrebbe adattare senza troppe difficoltà. Ad ogni modo
non ho mai pensato di mettere queste armi nelle tue mani.
— Cos’hai pensato allora? — feci sorpreso.
— Ecco ti spiego. È certo più facile trovare mille uomini disonesti, che
un sol uomo il quale abbia il coraggio della propria disonestà. Uso
questa parola, perchè non mi soccorre alcun sinonimo più adatto ad
esprimere la mia idea. Spesso mi ricordo di due compari, che insieme
concertavano e compivano ogni sorta di bricconate, ma l’un d’essi era
così ameno che dava in ismanie terribili quando l’altro, per aizzarlo a
fatti compiuti, lo trattava di ladro e di furfante. Questo è l’uomo,
amico mio... la bestia più illogica della creazione!
— Grazie, feci ossequiosamente. — Grazie di tutto cuore, perchè mi
avvedo che la tua gentile parabola, è un modo prolisso e garbato per
darmi del furfante.
— Oh, figurati!... Se mi hai compreso, basta. Sappi solo che queste armi
non ti sarebbero date in mano, ed anzi non le dovresti nemmeno
conoscere; ciò per prudenza e perchè la tua coscienza possa dormire in
pace.
— Insomma, veniamo agli esempi. Cosa dovrei fare io?
— Questa volta un viaggio, se vuoi. Oh, comodo, breve, nei treni
direttissimi...
— Un viaggio?
— Sì, guarda.
Aperse un piccolo forziere e trasse da uno scrignetto una collana di
perle orientali, che le sue mani esperte giravano e rigiravano
adattandole al più propizio riflettersi della luce.
— Vedi questi perle? — mi disse pacatamente. — Sono magnifiche, ti pare?
La collana vale duecentocinquanta mila lire almeno. Guardale
attentamente.
Presi la collana, l’osservai.
— Belle, molto belle: una rarità.
— Credi che possano valere quel prezzo?
— Senza dubbio; forse più.
— Bene: siccome non mi servono, le vorrei vendere, — disse
tranquillamente, con un sorriso arguto. — Le vorrei vendere, ma via da
Parigi; a Londra per esempio; e vorrei che in luogo mio ci andassi tu,
come se fossero tue.
— Oh, grazie del pensiero gentile! Conosco!... grazie! conosco!...
— Tu non conosci nulla, mio buon Guelfo! — egli esclamò con indulgenza.
— No, nessuna molestia, di nessun genere, nè ora, nè mai. Diversamente
sarebbero armi triviali, mentre le mie, ti ho detto, son caute, sicure
precise... Solo bisognerà darmi retta ciecamente, avere fiducia nel mio
senno.
— Ma quale sicurezza puoi darmi rispetto alla... come direi?...
legittimità di questa vendita?
— Nessuna, evidentemente, fuorchè la certezza morale che, se vi fosse un
pericolo, io stesso non lo affronterei, nè, credimi, lo farei affrontare
a te. Prima di tutto perchè ti voglio bene, in secondo luogo perchè non
mi conviene. Fìdati, Guelfo; io non ho mai fatto male a nessuno in vita
mia.
Tacevo, perplesso, confuso.
— Vedi: la collana vale molto, è un gioiello da principessa. Un conte di
Materdomini la può vendere meglio di chicchessia. Tu non devi portarmi
che duecentoventi mila lire: la differenza è tua.
Fece una pausa poi disse ancora:
— La cosa ti va?
— Guardai perplesso il mio tentatore, mentre sentivo in tutte le mie
vene il sangue battere con una violenza mai sofferta. Le perle infatti
erano meravigliose...
— Insomma, vedremo, — dissi.
Ed egli rispose tranquillamente:
— Va bene.


VII

Nella settimana stessa partii per Londra, e seguendo le istruzioni di
Elia vendetti sùbito la collana ricavandone il prezzo di
duecentocinquantamila lire. Per spiegare ad Elena il mio viaggio avevo
dovuto escogitare mille pretesti, raccontandole una parte sola della
verità, ossia quella che si poteva dire. Ma non mi dilungherò a narrare
queste piccole bassezze nè le innumerevoli sofferenze morali che dovetti
conoscere durante quella estate calamitosa. Il mio delicato maestro
aveva l’abilità somma di mai farmi compiere un’azione la qual fosse
troppo temeraria per la mia pusillanime coscienza. Passammo l’estate nei
luoghi frivoli ed ameni ove la signoria moderna riposa in bucolici ozî
dalle sue cittadine fatiche. Ed Elena mi seguiva, taciturna sovente,
quasi avesse nel suo vigile spirito un presagio del mio nuovo
decadimento. Si può ingannare l’amico, il fratello, il compagno, si può
ingannare perfino il complice, ma non la donna che al nostro fianco è
partecipe della continua vita; e s’ella tace, se non rimprovera, se non
consiglia, ma solamente guarda con occhi pieni di taciturno dolore, il
suo silenzio è allora più terribile di una condanna duramente
profferita. E nella mia vergogna v’era una riconoscenza indicibile per
la soavità di quel perdono.
Sul principiare dell’autunno ritornammo a Parigi, nella medesima casa,
più tristemente. Fu per Elena un tempo di ansietà febbrile e di lavoro
indefesso; per me invece un tempo d’angoscia e d’umiliazione. Mi
trasformai; divenni sospettoso, irascibile, taciturno; anche il nostro
amore ne sofferse; tutte le calamità pesarono su l’anima mia.
Un giorno Elena mi disse:
— Fra qualche mese diverrò attrice: è stato il sogno maggiore della mia
vita, ed ora che sta per compiersi non mi dà più alcuna gioia. Che fatto
strano!
E rise d’un riso amarissimo, pieno di malinconia.
— Non ami più il teatro? — le domandai, pur sapendo quanto il suo
pensiero fosse diverso. Ella rovesciò il capo all’indietro, con un moto
rapido, come per scacciarne una torma di pensieri tristi, e rispose,
continuando a sorridere:
— Mi dicono che sarò una grande attrice, mi ripetono che ho «l’anima
lirica...» È la frase della mia maestra. In poco tempo ho percorso il
cammino di molti anni. Il direttore dell’Athénée m’ha intesa ieri e
sùbito m’ha proposto di farmi debuttare nel suo teatro. Penso che
accetterò.
— Fece una pausa e mi volse nel viso gli occhi profondi, troppo
intensamente lucidi; soggiunse:
— Chissà se il giorno della mia prima recita mi verrai a sentire?
— Oh, Elena, che bizzarrie dici! Come puoi dubitarne?
Ella scosse il capo ripetutamente, con ostinatezza.
— Forse non ci sarai più... ma non importa! Sono sempre stata sola,
ritornerò sola.
— Ma Elena!...
— Cosa vuoi rispondermi? cosa? È inutile! Ho sempre taciuto, ma vedo
chiaramente la fine. Ora studio una parte in cui v’è questa frase: «Il
nostro amore cammina sopra un filo di spada... ma la spada è breve.»
Questa frase è fatta per noi.
— Elena, — dissi, — le tue parole mi sorprendono, quantunque non sia la
prima volta che mi fai queste nere predizioni. Non ti ho mai voluto bene
come ora.
Ed anch’io, Germano, anch’io... — profferì con le lagrime agli occhi. —
Ma tutto questo è inutile: c’è per noi un destino.
La strinsi nelle mie braccia e volli ancora parlare; ma ella con la
bocca mi suggellò fortemente la bocca. Non so perchè mi sentii nascere
nell’anima una infinita, irreparabile tristezza, ed in quell’ora, per la
prima volta, dopo essermi trastullato con tutte le cose che nel cuore
umano hanno il valore d’un sentimento, compresi che l’amore poteva
essere una piaga insanabile, un martirio di tutte le ore. A lungo le
nostre bocche rimasero congiunte, in silenzio; molte cose volevo dirle,
ma una specie di paura vaga le seppelliva dentro il mio cuore; molte
cose anch’ella mi taceva, trattenuta forse dalla medesima paura.
In quel tempo le lettere di Fabio Capuano si erano fatte più frequenti;
la prima che ricevetti, dopo il mio ritorno a Parigi, fu questa:
_Caro Germano_,
Ti ho scritto a Vichy ed a Pau, ma poichè non ebbi risposta, penso che
le mie lettere abbiano sbagliato itinerario. Poco male, non ti
raccontavo nulla che valesse la pena d’esser letto. Mi rallegro tuttavia
nel vedere che le molte angustie delle quali ti lagni non ti fanno
perdere in ogni caso le abitudine gaie del buon tempo andato.
Io villeggio a Rimini, e villeggio per modo di dire, perchè a Rimini,
come ti ricorderai, c’è il mare; un mare, anzi, di questi giorni
splendidamente azzurro. Io, che di solito non faccio nulla, in questo
momento mi riposo; cioè godo con maggior intensità la delizia del far
niente.
Su la spiaggia qualche dama romana ed una bolognese, che dal tempo tuo
si è molto ingrassata e nulla ravveduta, si ricordano qualchevolta con
una voce deliziosamente languida la tua «_Bucentaura_», lo yacht a vela,
in cui spesso le conducevi a respirare l’aria delle solitudini marine.
Ora si contentano di andarvi sopra un veliero da noleggio, con il barone
Pietro de Luca, e con un marinaio, perch’egli non conosce la manovra
delle vele. Ma ne conosce ben altre, non meno difficili, come ti dirò in
séguito. Sai: Pietro de Luca, l’ex ufficiale di cavalleria ed ex-amante
della marchesa Maggiorani, che si è stancata, pare, di pagare i suoi
debiti. Pare, dico, perchè si mormora che ora la buona marchesa vada
facendo la stessa cosa con Lodovico Nardi, l’ineffabile Vigetto che tu
sai. Ma questi è più borghese, più economo, più robusto, e le costa
meno. Piero de Luca tenta un’altra via.... Poveretto! non è colpa sua se
i cavalli da corsa gli mangiano molta biada e se il giuoco gli va sempre
male. Perdonami la parentesi e pensa che dimenticavo di star scrivendo
ad un amico, il quale, secondo la tua frase, «non gode, non pensa, non
vive, non è più nulla per sè stesso nè per altri». Faceva con te i
pettegolezzi che scrivo alle mie buone amiche romane, le quali vogliono
trovare nelle mie lettere tutta la cronaca sentimentale e galante della
tarda estate riminese. Dunque, Germano mio, quale consiglio ti potrei
suggerire? Se dovessi parlarti seriamente, certo ti annoierei; se
volessi farti qualche rimprovero, mi troveresti uggioso, e se infine
cercassi di concludere che la condizione in cui versi non è altro che il
frutto inevitabile de’ tuoi malanni, potresti a buon diritto rispondermi
che non ho fatta una scoperta straordinaria.
Tu non sei fra quegli uomini ai quali una passione basta per colmare la
vita, e siccome ti conoscevo per tale, diffidavo assai de’ tuoi primi
ardori. Non dubito affatto che ormai, su la pagina più lirica del vostro
amore, sia per sempre caduta la cenere della parola: Fine. Le tue
lettere anzi me lo nascondono a mala pena. Ed ora insorgono contr’esso,
come contro tutte le poesie, quelle infinite inezie, quelle innumerevoli
angustie, che sono il pane quotidiano delle umili famiglie borghesi.
Non mediti, Germano, all’avvenire? Mi sembra che non sarebbe degno della
tua signorilità l’arrivare un giorno a Roma, spennato e contrito,
chiedendo a qualche grosso mercante il favore d’un impieguccio, o forse
mendicando a qualche dicastero la grazia d’un salario burocratico. E
nemmeno sarebbe da uomo la bassezza di comprarti una rivoltella con
l’ultimo denaro, come fanno i poveri di spirito. Quindi non vedo bene
per qual via t’incammini, ed ogni volta che penso a te mi sento
stringere il cuore sbigottitamente Eri fra quei privilegiati che la
fortuna si diverte a proteggere, oserei dire per partito preso; in un
momento che per te poteva sembrare difficile, questa fortuna, ecco,
aveva provveduto a spingerti sottomano una tavola di salvezza. Ma tu non
hai voluto, e l’hai respinta, preferendo conoscere la voluttà del
naufragio. Forse, quando avrai l’acqua alla gola, comprenderai la tua
stoltezza. Ma certo sarà troppo tardi. Vi sono molti che si affannano
per giungere a quella salvezza che ti è parsa indegna.
Il barone biondiccio e disinvolto, che ha saputo guidare le donne con la
stessa impareggiabile maestria con la quale guida le pariglie al Pincio
e conduce al traguardo i suoi cavalli negli ippodromi, il baroncino cui
non schifano le marchese mature, ma che parla con brio, s’insinua con
scaltrezza ed assedia con eleganza — in fede mia non perde il suo tempo.
Egli ha fatta una corte serrata a Edoarda Laurenzano, inseguendola per
tutta l’estate. Come già ti scrissi, Edoarda s’è riavuta un poco dal
terribile colpo, e, forse per puntiglio, forse perchè il tempo è un
medico infallibile, si è forzata di parer fra la gente assai più guarita
che forse non sia.
Villeggia ora nella sua villa d’Albano; mi scrive sovente, senza
parlarmi di te. Presto l’andrò a vedere.
Tu la chiamavi una creatura fragile, ed io stesso non sospettavo in lei
quella forza d’animo che ha saputo mostrare. Le ragazze passano qualche
volta una crisi, chissà se mai d’isterismo, di romanticismo o di
suggestione: poi ne guariscono. Edoarda era molto malata nell’anima; la
sua convalescenza sarà lunga e penosa, ma non mi stupirebbe affatto se
fra qualche tempo si risolvesse ad accettare la corte di uno fra i molti
che le ronzano intorno. Perchè, naturalmente, ogni donna deve un giorno
arrivare a farsi una famiglia, o con quello di cui fu innamorata, o con
un altro qualsiasi che le sembri almeno accettabile. Che altro può fare
la donna? Edoarda poi rimarrebbe sola, quando la sua vecchia zia (e non
andrà molto) le venisse a mancare. Dunque: De Luca od un altro, per
fierezza se non per amore, per opportunità se non per desiderio... ma è
certo che anch’ella finirà con piegarsi al matrimonio. Dimmi, e sii però
sincero: in questo lungo tempo non ti è venuto mai una volta il
rammarico di non averla sposata? Quella casa dove andavi, dov’eri già il
signore, non ti è risalita mai nella memoria? Quella casa e tutte le
abitudini che appartenevano alla vostra vita, e la bontà di quell’anima,
ed anche il suo viso pallido... perchè in fondo è bella, è così bella
come tu stesso non puoi ricordare, tu che la vedevi con altri occhi! Una
di quelle bellezze spirituali, che non stancano mai. Ora è ingrassata un
poco ed ha il colorito più fresco. Insomma, io voglio domandarti: non ti
è balenata mai l’idea che tutto potrebbe rimediarsi ancora?
E basta per oggi, finchè tu mi risponda.
Questo tuo vecchio amico diventa orribilmente grigio; può darsi che sia
effetto dell’acqua di mare. Ho notate varie cose, antipaticissime, ne’
miei rispetti con il sesso gentile. Le signore mi dànno il braccio
volentieri, senza farsi pregare, anche la sera su la spiaggia, al chiaro
di luna. Parlandomi, osano mettere una mano confidenzialmente su la mia
spalla: questo vuol dire che non mi credono più sensibile a certi
contatti lievi... Altre parlano con me di tutti i libri sconci che si
trastullano a leggere; una perfino mi ha confidato i suoi falli!...
Questo mi fa comprendere che son entrato nel numero di quegli uomini a
cui le donne si affidano volentieri, perchè non temono d’incendiarli
troppo e nemmeno di trovarli del tutto spenti. È l’estate di San
Martino... Addio!
_Fabio_.»
Questa lettera mi lasciò indifferente; pensai che il Capuano fosse un
maniaco e giudicai del tutto sprecata questa caparbia insistenza. Le sue
parole mi sembravano artifizi facili a scoprirsi, poichè non potevo
credere alla rassegnazione di Edoarda nè alla verisimiglianza dei fatti
ch’egli mi raccontava. Come supporre infatti ch’ella sopportasse di
lasciarsi corteggiare da un barone Piero de Luca, uno sfaccendato senza
levatura, un cinico senza signorilità? La figura di costui cominciò a
sedermi nella mente con una ostinazione fastidiosa, e rividi la sua
bocca fatua, con quel sorriso leggermente ambiguo, coi baffi biondi e
morbidi, che il vento gli pettinava contro le guance smorte, quando,
negli ippodromi, vestito di una giubba turchina e curvo su l’incollatura
del puro sangue, a scudisciate furiose, passava il traguardo,
fulmineamente. Piero de Luca era di famiglia nobilissima, però da molti
anni ridotto a vivere di ripieghi; eccellente cavaliere, corteggiatore
assiduo di donne ricche e di fanciulle da marito, bel giovane, buon
parlatore, damerino avventuroso ed astuto, contava molte amicizie tra le
vecchie signore che prestavano i lor buoni servigi per i matrimoni
cosidetti di convenienza, talchè poteva darsi benissimo che il suo colpo
non andasse fallito; e questo pensiero, in verità, mi causava una
molestia singolare.
Tuttavia, nel rispondere a Fabio, gli dissi che mi rallegravo assai di
saper Edoarda sulla via della guarigione, anzi facevo i miei più caldi
voti per un suo prossimo fidanzamento. Soggiunsi che in fondo questo
poteva servire a dimostrargli come d’amore non si muoia mai. Lo
consigliavo accademicamente a dissuaderla dallo sposare il de Luca,
dicendogli che per mio conto ero fermo nel mio partito, credendo sempre
di aver prescelta la strada più opportuna e più leale per entrambi.
In quel tempo avevo ricominciato a giocare, con buona fortuna, e qualche
speculazione mi aveva nuovamente procacciati lauti guadagni. Il d’Hermòs
venne un giorno ad annunziarmi che doveva partire.
— Dove pensi andare? — gli domandai con un certo stupore.
— Al Cairo prima, e forse dopo in America.
— Un viaggio di esplorazione? un giro artistico? od una fuga? — gli
chiesi ridendo.
— Fuggito non sono mai! — dichiarò fermamente, con una voce piena
d’orgoglio. — Ma se vuoi conoscere lo scopo di questo viaggio, dimmi
prima se desideri seguirmi.
Risposi recisamente:
— No, no. Preferisco attendere il tuo ritorno. Sai che non lascio Elena.
— Eppure, — mi disse con accorgimento — avevo per te un magnifico
progetto.
— Rifiuto in anticipo; grazie!...
— Tuttavia lasciami dire. A Nuova York ed a Washington frequento alcune
fra le famiglie più ricche di laggiù e conosco tutta la nuova nobiltà
del dollaro. Vi sono molte misses che amerebbero il tuo bel nome, non
senza molto apprezzare la tua corporatura snella. Perchè non prenderesti
moglie?
— Anche tu!... Per l’amor del cielo! Ti ho pur narrata la storia di
Roma!
— E ti ho già detto anche il mio parere: sei stato uno sciocco. Insomma,
ragazzo mio, tu non sai vivere. Sei un sentimentale, un romantico,
nonostante le tue pose. Una moglie ricca è uno fra i tanti modi coi
quali risolvere il problema della vita. Perchè si tratta di risolvere,
non di lasciare sempre, come tu fai, le cose a mezza via. Ti prometto
una moglie adorabile! Sai, quelle reni delle anglo-sassoni, che paiono
sempre tese in uno spasimo di piacere; alta, snella, con l’andatura
elastica, una stupenda matassa di capelli dorati, il colorito sano, e,
con tutto questo, due o tre milioni di dollari, che tu ritorneresti a
spendere gaiamente in mezzo ai nobiluomini romani. Cosa ne dici?
— Mi domando perchè non la sposi tu questa fidanzata ideale?
— Ma io, caro Guelfo, non ho bisogno di prender moglie. Non solo; ma
potrebbe anche darsi che ne avessi già una, chissà dove, chissà da
quando, ma una insomma.... A te invece non rimane che questo rimedio,
poichè ti giudico refrattario a tutti gli altri.
— Sei bizzarro anche tu! Guarda: oserei dire che non ho preso moglie,
solo perchè tutti, con una insistenza esasperante, mi spingevano al
matrimonio.
— Ed è naturale! Chi ti conosce non può darti altro consiglio. Da
scapolo hai tutto goduto e ti annoi; prova nel matrimonio: chissà mai?
Se non desideri venire con me in America, torna invece a Roma e sposa
quella che hai lasciata.
— Senti, Elia; avevo un solo amico, e tanto fece che mi urtò i nervi con
i suoi continui discorsi matrimoniali.... Ora cominceresti anche tu?
— Io te ne parlo per la prima volta e sarà forse l’ultima. Senza ragione
mi sono affezionato a te, vorrei vederti felice. Dunque ascoltami. Ora
ti sei concesso anche l’ultimo capriccio, hai amato — hai creduto di
amare una donna — l’hai avuta: basta. Non bisogna mai perdere il senso
della misura, specialmente nelle cose inutili, come l’amore. Poi, vedi:
neanche l’ami! E te lo dice un uomo tutt’altro che sospettabile di
troppa sentimentalità. Via!... tu non sai nemmeno cosa voglia dire,
questa parola «amore», della quale fai spreco; ed io stesso te ne potrei
persuadere, io, che una volta l’ho saputo, e che in tutta la mia vita,
oggi ancora, sopporto le conseguenze di quel fatto lontano. Ma tu,
vediamo, cosa fai per questa donna che dici di amare? Quali sacrifici
sei capace di compiere per lei, nel bene o nel male, perchè in fondo è
la stessa cosa, tu che non conosci nemmeno la tua volontà? No, Guelfo,
tu sei un uomo tutto d’apparenze, ma in verità profondamente inutile e
profondamente arido.
— Avrai notato che non mi difendo mai delle tue accuse. Certo non faccio
pompa de’ miei sentimenti; li tengo per me, con una certa gelosia,
lasciando che gli altri giudichino appunto dalle apparenze. Ma infine
perchè t’interessi ad un uomo tanto spregevole?
— Ecco una domanda che mi pone in grave imbarazzo. Prima di tutto perchè
mi sei stato utile, anzi perchè potevi esserlo, a te stesso ed a me, in
un grado assai maggiore, se una certa paura, mascherata dietro le
spoglie dell’onestà, non ti avesse fatto preferire sempre le mezze
tinte, la mezza luce, il bilico perenne tra un partito e l’altro. Gli
uomini della mia specie hanno l’occhio dei segugi e l’odorato dei
bracchi; dal primo giorno in cui c’incontrammo ebbi l’intuito chiaro
delle tue condizioni e compresi tosto quale poteva essere l’ultimo
valore della tua disutilità. Mi hanno chiamato una volta «il
corruttore», e certo io considero gli uomini sotto un aspetto puramente
utilitario. C’è quindi tutta una umanità la quale per me non conta. Son
quelli che tu potresti prendere per i piedi, mettere col capo all’ingiù
e scuotere ben bene, senza vedere un soldo piovere dalle loro tasche.
Tutti gli altri hanno indistintamente un valore, che bisogna stimare con
scrupolo, sfruttare con intelligenza. Taluni spesso non sono che un
tramite per giungere altrove: tu eri fra questi; ecco perchè ti ho
scelto.
— La tua franchezza vale tutte l’altre virtù che ti mancano, — convenni.
— Quando si può essere sinceri perchè mentire? Così, alle ragioni che ti
ho dette sopra, devi aggiungere qualche nota sentimentale, se vuoi, ma
sincera. Un certo rincrescimento nel vedere un uomo come te ridotto alle
meschine angustie della gran fauna borghese, una simpatia spontanea da
uomo ad uomo, un bisogno quasi di paternità che m’invade con il crescere
degli anni, ed ancora, che vuoi? la inguaribile malattia di tutti i
maestri: quella di far discepoli, per non aver studiato invano questo
grande problema della vita, la quale è un grande libro di chiromanzia,
pieno di molta saggezza per chi vi sappia leggere.
— E tu, mago, mi hai finalmente cavato un oroscopo singolare.... Vuoi
che prenda moglie! Non mi credi capace d’altro? Vi sono momenti nei
quali mi sento giovane ancora come a vent’anni! Poi, vedi, non c’è
rimedio; si vive secondo il proprio destino. Anche gli antichi dicevano:
«Sequere deum!...» Seguire il proprio Dio.
— I filosofi sono i genii dell’umanità inutile. Si dice ch’essi ci
abbiano regalato il lume della ragione; ma non è vero. Sono riusciti
semplicemente a chiudere in formule speciose alcune verità che il comune
buon senso permette a chiunque d’intendere o d’intuire. Fa dunque a tuo
modo; ma cerca di non pentirtene. Il pentimento è la vigliaccheria più
triste.


VIII

Un’altra lettera di Fabio Capuano:
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