L'amore che torna: romanzo - 21

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un altro v’era che, riottoso e bramoso, voleva risollevare sè stesso,
prodigandosi le dimenticanze più soavi ed insieme le più delicate
vendette. Qualche volta, come in sogno, mi appariva la bimba
sconosciuta, che di lontano mi tendeva le sue manine rosee, cullata fra
le braccia di una madre la quale non le avrebbe insegnato il mio nome.
Sul finir dell’autunno tornai a Roma, desideroso di rinnovare il mio
fasto, perchè nessuno potesse comprendere quanto nell’anima mia fossi
affaticato e vinto.
Vi giunsi una sera che le torri e le cupole infoscavano tra la
nuvolaglia bassa; il Tevere livido serpeggiava sotto i ponti deserti;
pareva che una immensa morte fosse calata sulla città neroniana. Dalle
suburre antiche tutte le fogne di Roma emanavano per l’aria immobile un
odor grave di putredine e di morte.
Presi a vivere largamente, comperai cavalli, offersi banchetti, cercai
clamorosi amori; e col volgere del tempo l’abitudine, medicatrice
paziente, fasciava d’insensibilità il mio nascosto dolore. Ma era
necessario che mi stordissi continuamente, che non fossi mai solo, che
non allentassi mai lo sforzo al quale mi costringevo. Andavo in cerca
degli amici, delle amiche d’un tempo, visitavo le signore, accettavo
inviti, cercavo di mascherare col maggior brìo la disperazione latente.
Quand’ebbi spesa la maggior parte del denaro che mi restava, decisi di
tentare nuove speculazioni di Borsa, e ricordandomi di un tal Mariani,
che appunto in Borsa passava per uno scaltro faccendiere, una mattina
l’andai a trovare.
Questo Mariani era uno fra que’ tanti parassiti che ogni compagnia di
gaudenti sopporta e nutre nel suo grembo, tollerandone tutte le
piccinerie. Quando l’avevo conosciuto al Circolo, quattro anni prima,
egli vivacchiava, speculando alla chetichella, servendo il prossimo con
astuzia, riuscendo a cacciarsi un po’ dappertutto, come un lumacone che
a furia di strisciare giunge nondimeno a compiere la sua strada. Giocava
per solito con prudenza metodica e taccagna; ma una sera di gran
disdetta, squilibratosi fuor del consueto, perdette contro di me nove o
diecimila lire. Nessuno vi pose mente; si sapeva che non avrebbe pagato
e tutti ridevano della sua disavventura. Impiegò un anno per darmi un
piccolo acconto; il resto si prescrisse tacitamente. Sapevo che s’era
poi ammogliato con una donna bellissima, sapevo inoltre che sua moglie
vendeva care le proprie bellezze ad un certo Wendel, agente di cambio
molto facoltoso, e che il buon Mariani subiva la cosa con pacata
rassegnazione per la pace e la prosperità della famiglia.
Quella mattina il Mariani stava radendosi la barba. Quando
m’annunziarono, venne su la soglia della sua camera con la faccia
insaponata ed un asciugamano intorno al collo.
— Guarda mai chi vedo! — esclamò con voce insospettita. — Ma che buon
vento ti mena? Entra, entra! Mi permetti di continuare a radermi?
— Figùrati!
Egli, distratto, cominciò a far passare il rasoio su la cute.
— Dunque? — mi domandò con premura.
— Si tratta, mio buon Mariani, di questo. Sono a corto di denari e...
— Ah?... sei a corto di denari? — E fece un movimento così brusco ch’io
temetti si fosse almeno scorticato.
— Cosa transitoria, — spiegai; — ma intanto ne sono molto seccato.
— Allora?
Cessò risolutamente dal radersi e mi guardò sbigottito.
— Sai, — mi disse a fior di labbro, con una voce tra l’agro e il dolce,
— sai che i miei mezzi sono così scarsi... specialmente ora, con una
famiglia su le spalle... Non puoi credere quanto mi costa! Lavoro, cerco
d’industriarmi come posso e tuttavia sbarco il lunario a malapena. Però,
se posso aiutarti in qualche piccola cosa, lo farò di buon cuore: so che
hai avuto molti rovesci.
— Oh, Dio... i rovesci che hanno tutti. Gli alti e bassi della
fortuna... si sa!
— Insomma senti... — Egli posò il rasoio, si riasciugò il sapone dal
mento e mi venne vicino. — Senti, oggi è una cattiva giornata: siamo a
fine mese, ho molti impegni; ma dimmi cosa ti abbisogna e vedrò fra
qualche giorno di renderti servizio.
— Hai una sigaretta? — risposi con noncuranza.
— Sì, guarda, lì, nell’astuccio.
— -Grazie. — Presi a camminare e dissi: — Mi preme avvertirti che non
sono venuto per darti una stoccata. Mi conosci bene e sai chi sono. —
Parlavo con un tono di minaccia sorridente; egli si fece grave e cupo.
— Sai, — ripresi con amabilità, — vengono certi momenti nella vita, in
cui si è costretti a frugare anche nel mazzo delle vecchie carte
gialle... Non meravigliarti....
— Vero, verissimo, — egli annuì senza convinzione.
— Dunque sono venuto a vedere se tu potessi pagarmi quelle famose
diecimila lire...
— Nove, nove!...
— ... quelle famose novemila lire che tu sai.
— Oh, mio buon Guelfo!... — balbettò soffocatamente, — mi domandi una
cosa impossibile! Quella è stata una sera di pazzia. Me ne ricorderò
tutta la vita. Sai ch’io gioco piccolo, piccolo... che non ho mezzi... e
tu sei stato buono, veramente sei stato buono con me...
— Non è il caso di ripensarvi ora. Anzi non te ne avrei nemmeno parlato
se non vi fossi un po’ costretto dalle necessità.
— Gli è... gli è... che io... francamente... insomma, ti apro il cuore
come ad un amico, gli è che io, neanche oggi, non sono in grado di
pagartele... Se vuoi cinquecento lire?
La sua faccia lucida di sapone rasciugato era di una comicità
irresistibile. Sorrisi.
— Allora, — feci con indulgenza, — lasciamo questo argomento e non
parliamone più. Ma in cambio devi rendermi un’altro servigio.
— Di’ pure! di’ pure! — egli esclamò, risuscitando.
— Intanto sappi una cosa: che non dovrai sborsare neanche un centesimo.
— Oh, questo non importa! — egli fece mellifluamente. Andò allo specchio
e s’insaponò di nuovo le guance.
— Ascóltami dunque — ripresi. — Vorrei tentare alcune speculazioni di
Borsa.
— Nulla di più facile.
— Ma mi occorre trovare un agente di cambio il quale mi faccia credito,
e so che tu sei molto pratico di queste faccende.
— Già; ma, vedi...
— Lásciami dire; tu sei intimo del Wendel, non è vero?
— Intimo no, — egli fece con una certa confusione, — ma insomma lo
conosco molto bene, lavoro per lui...
— Appunto. È un uomo che, negli affari, conosce molto bene il fatto suo,
perciò desidererei la sua protezione. Depositerò solo una parte della
cauzione, ma tu mi devi ottenere, dalla sua fiducia, il resto. S’intende
che vi guadagneresti anche tu le tue mediazioni.
— Wendel... Wendel... — cominciò egli a borbottare, — è un uomo così
bizzarro! Poi, vedi, la Borsa, in questo momento, non te la
consiglierei...
— Peuh!... se andrà male, tanto peggio! Sono deciso a tentare.
— Insomma, è un’idea su la quale devi riflettere.
— Certo; ma dimmi solo se t’incarichi della faccenda.
— Dio buono! non ti nascondo ch’è un bel grattacapo! Vediamo un po’: di
quale cauzione disponi?
— Una quindicina di mille franchi al più, se tu non puoi aggiungervi
nulla, come speravo.
— Oh, io, ti ho detto...
— È inteso, è inteso! Dunque una quindicina; ma s’intende che vorrei
speculare molto più in grande.
Egli finiva di rasciugarsi la faccia e s’incipriava.
— Bene, senti, — concluse dopo aver meditato, — ti prometto che farò il
possibile. Se non riuscissi, non sarebbe colpa mia.
— No, caro Mariani, so benissimo che tu, volendo, puoi ottenermi quello
che desidero. In fin dei conti ho ancora le mie terre!
— Quale? Torre Guelfa?
— Già!
— In questo caso mi sarà più facile.
— Poi, ti ripeto, ci potremmo intendere su tutto. Gli affari li
tenteremo anche a metà, se credi.
— Insomma, ne ragioneremo; ti prometto che ne ragioneremo, — fece con
intendimento.
— Bada che ci conto.
— È inteso. Ed ora ti prego di rimanere a colazione; voglio farti
conoscere mia moglie.
— Grazie, volentieri.
Sua moglie infatti era una donna che valeva la pena d’essere conosciuta.
Alta e bionda, con gli occhi un po’ tinti, le mani troppo inanellate,
vestiva con eleganza, discorreva con spigliatezza. Durante la colazione
si parlò di cose molto superficiali; notizie concernenti gli amici che
avevo perduti di vista e le brighe diverse ch’essi avevano con le loro
famiglie, con i lor patrimoni o con le loro amanti. Egli mi raccontò
della sua vita, io della mia, senza dirci entrambi una parola di verità,
come avviene molto spesso. Dopo la colazione il Mariani uscì subito, per
faccende che gli premevano; io rimasi un poco a discorrere con la
signora. Parlava di suo marito con una indulgenza un po’ ironica, e di
sè stessa come d’una incompresa. Portava una camicetta di pizzo che
lasciava scoperte le sue braccia fino al gomito, e quelle braccia erano
bellissime; la sua gola, tra le sforacchiature del pizzo, biancheggiava
tonda e piena. Si era fatta ondulare i capelli e portava qualche
ricciolo rimesso. Mi diceva di ricordarsi ancora, dal tempo in cui era
fanciulla e andava con sua madre al Pincio, di avermi veduto guidare «i
più bei cavalli di Roma».
— C’è a Parigi, — le dicevo a mia volta — un’attrice che vi somiglia in
modo sorprendente. Ne avrete forse inteso parlare: Margot de Sèvres.
— Oh certo! Ne ho veduto anche il ritratto in una rivista. Ma è un
complimento che mi fate!
— O che faccio all’altra... non saprei.
— In ogni modo ne sono lusingata. — E aveva, nel ridere, una
provocazione diffusa per tutta la persona.
— A Roma, — domandai — che vita fate? La società?
— No, affatto; mio marito la odia.
— Il teatro? le corse? le cacce?
— Un po’ il teatro e poco il resto; rimango molto in casa, ricevo alcuni
amici, faccio qualche visita... una vita sciocca, in fondo. Ma, che
volete? Mariani è un originale. Non ha cambiate le sue vecchie
abitudini, e povera me se volessi costringerlo a condurre una vita
mondana.
— Oh, lo conosco! e per quanto gli voglia bene, credo ch’egli non sappia
valutare abbastanza una donna come voi... Il Mariani, gliel’ho ripetuto
sempre, non doveva prender moglie.
— Perchè dite questo? — ella fece con sorpresa.
— Così... mi pare... Forse m’inganno anche.
— Mah? — ella fece con un sorriso. Poi corresse: — Mio marito è molto
buono.
— Certo, — affermai. — E sono forse indiscreto nel dirvi queste cose,
poche ore dopo avervi conosciuta. Ma intesi molto spesso parlare di voi,
e siete fra quelle donne che interessano anche gli estranei. Voi, da
signorina, vi ricordate di aver osservato i miei cavalli al Pincio; io,
quand’eravate signorina, mi ricordo di avervi veduta una mattina, una
domenica di Maggio, uscir di chiesa con un grande cappello di paglia
fiorentina ornato di rose fresche... Era la prima volta che vi vedevo e
mi ricordo d’essermi fermato per domandare di voi ad un conoscente, il
quale vi salutava. Come vedete, ho buona memoria anch’io!
Ella sorrideva nell’ascoltarmi, allettata e sorpresa. Ma i suoi occhi
ambigui, dietro quel sorriso, mi andavano scrutando.
— E quando, — ripresi, — quando mi raccontarono che il Mariani si era
fidanzato con voi, dissi fra me: «Bah... quelle rose fresche erano belle
assai!» E l’ho invidiato un momento, come invidiai tutti gli uomini che
sposarono una donna bella. È forse questa invidia molteplice che mi ha
salvato sempre dal pericolo del matrimonio.
— Però, — ella fece con un sorriso ironico, — vi siete andato molto
vicino...
— Certo, — risposi leggermente; — vicino a questo, come a tutti gli
altri pericoli, a tutte le altre tentazioni della vita.
E mi accommiatai dicendole:
— Se permettete, donna Claudia, verrò a farvi un’altra visita fra
qualche giorno.
— Grazie; sono quasi sempre in casa, fin verso le quattro.
— Quando allora?
— Venerdì, se volete.


IV

Andò a finire che l’agente di cambio mi fece credito, e la bionda
Claudia mi concesse qualche privilegio. La sera, naturalmente, mi recavo
spesso a teatro per incontrarla, e mi ricordo di una volta ch’ella
sedeva in un palco di prima fila, bellissima, provocante, ammirata. La
mia poltrona era dall’altro lato della platea, e durante un intermezzo
ella mi fe’ segno di salire. Vi andai. C’era il Wendel al parapetto, di
fronte a lei, mentre il povero Mariani stava rincantucciato in fondo al
palco, vergognoso di avere una moglie così fulgida, un agente di cambio
così ricco. Tutti e tre furon meco di una cortesia squisita e mi
domandai se al mondo val qualche volta la pena di avere scrupoli, visto
che, nei rispetti sociali, l’onestà e la disonestà, il sentimento e la
commedia del sentimento, son cose che in fondo non presentano alcun
divario ben definito. Poco dopo il Mariani colse l’occasione di
andarsene a fumare un sigaro, ed alla fine dell’atto anche il Wendel
uscì.
Allora mi posi al parapetto. La sala pettegola, irrequieta, scintillava
di luce, di gioielli, di spalle nude; i canocchiali curiosamente
incrociavano per ogni verso i loro fuochi. Questa bellissima Claudia,
che aveva il nome ed il seno di una liberta romana, mi prodigava i suoi
sorrisi e — cosa inaspettata, — di fronte a noi, ma in un palco di
seconda fila, c’era Edoarda De Luca insieme con suo marito. In quel
momento vidi Fabio Capuano entrar nel suo palco.
— Temo che il Wendel sia rimasto un po’ male, — mi disse Claudia
sottovoce, nascondendo la faccia dietro il ventaglio di piume.
— Di che?
— Ha veduto quando ti ho fatto cenno di salire.
— Bah! son malumori che passano...
Intanto i miei sguardi correvano curiosamente verso quel palco di
seconda fila. Edoarda portava quella sera un abito nero, scollato, e su
le spalle un boa di _chinchilla_ che morbidamente le ricadeva indietro.
Aveva cambiata pettinatura; non portava più il suo gran nodo su la nuca,
ma un’acconciatura di moda, con ondulazioni, crespi e riccioli
sfuggenti, la treccia ravvolta sul vertice della testa, e, fra i
capelli, un’orchidea di brillanti, splendidissima. Le sue spalle, il suo
petto, biancheggiavano nella penombra del palco ed avevano in sè
qualcosa di rigogliosamente maturo: il fiorire della fanciulla ch’è
divenuta donna e conosce ormai tutti i secreti voluttuosi dell’amore.
Anche il suo volto raggiava, e mi parve trasfigurata. I miei sguardi non
fecero che volgersi tra lei e Pietro De Luca, cercando quasi
d’indovinare le vicende intime della lor vita, e meravigliandomi che un
altro uomo avesse potuto aprire a così piena bellezza quella fanciulla
un po’ schiva, che dai grandi suoi occhi, pieni di pensiero e di
trasparente anima, guardava nella vita con un senso di naturale
malinconia.
V’è sempre in fondo al nostro cuore una religione occulta che torna
verso il passato. Quello ch’è stato nostro ha per noi qualcosa
d’indimenticabile, e credo che i sentimenti più vivi non si distruggano
mai del tutto nello spirito nostro, ma s’addormentino in fondo al cuore
nell’attesa d’un lontano risveglio. Poi, da quegli esseri crudeli e
bizzarri che siamo, è sempre irritante il veder consolata, e non da noi,
un’anima che per noi soffriva. L’amore infatti è per sua natura un
sentimento che sempre, o nasca o muoia, o si trasmuti o si perverta, o
segua pure un suo decorrere quieto, abbisogna, per essere tale, d’un
altro sentimento, d’un’altra causa, che l’aiuti a vivere: così la
gelosia, il timore, la lontananza, l’abbandono, la sciagura, la morte.
Esso è come uno specchio, il qual lentamente assorba e consumi
l’immagine che riflette, ma poi d’improvviso la rimandi mille volte più
fulgida. Poichè in tutte le anime l’amore vive di sogno e d’irrealità.
Ora la bella Claudia m’interessava meno; le sue parole artifiziose non
mi davano più alcun turbamento. Uscii dal palco, e, tornato nella mia
poltrona, rimasi lungamente a guardare lassù, in alto, verso quella
donna vestita di nero, che aveva un’orchidea di brillanti tra i capelli
oscuri.
«Vedi, — mi andava mormorando nelle orecchie un piccolo demone beffardo,
— vedi, o grullo!... d’amore non si muore. Anche tu non morrai!»
E nel gran palazzo marmoreo vedevo intanto passare il barone De Luca,
tronfio della dote carpita, e lo vedevo, dopo lo spettacolo, con una sua
bella veste da camera, entrar nell’alcova nuziale, quella stessa forse
ch’io rammentavo tappezzata d’una stoffa color d’indaco pallido, con un
baldacchino a larghi drappeggi.
Edoarda mi aveva certo notato e pareva che ostentasse, per offendermi,
una scherzosa fatuità. Al termine dello spettacolo andai nell’atrio per
vederla uscire.
Gli uomini, accendendo le sigarette e rialzando i baveri dei soprabiti,
facevano ala dal termine dello scalone sino alla porta d’uscita. Mi posi
con le spalle contro una colonna ed aspettai. Quando apparve giù dagli
ultimi scalini, e mi vide, sembrò che il suo volto si coprisse d’una
bianca e mal dominata paura. Con lei era Fabio, erano altre persone;
ella volse altrove la faccia, e parlò, parlò... Ma camminando barcollava
un poco. Pietro De Luca, nel passarmi accanto, salutò per primo. In
fondo era naturale ch’egli mi salutasse, ma sarebbe stato altrettanto
naturale che avesse finto di non vedermi.
Il barone, certo, era un uomo di spirito e veramente cortese! Io, quella
sera, mi sentii d’umore pessimo; camminai a casaccio per le strade;
verso le due mi trovai davanti al palazzo Laurenzano; guardai su: buio.
Andai al Circolo e giocai fino al mattino.
M’era venuto un capriccio veemente, insensato; riaver Edoarda,
foss’anche per una volta sola, pur di conoscere la nuova donna ch’era
sbocciata in lei. La mia vita infatti non era più che una ricerca ed una
soddisfazione di capricci continui, per lenire quel desiderio
inestinguibile che dentro mi torturava.
Passò l’inverno. Mi fu proposto in quel tempo di andare al Congo insieme
con una compagnia di speculatori stranieri, uomini risoluti a tutto, e
fui sul punto di accettare; ma siccome in quel momento la Borsa
traversava un periodo di floridezza e tutte le fortune arridevano agli
audaci, preferii, per mezzo del Mariani e del Wendel, tentar l’alea su
certi valori che ascendevano vertiginosamente, ed ebbi il senno di
liquidarli prima dell’inevitabile rovescio. Questa fortuna mi fece
riflettere che il Congo è una terra inospitale, molto lontana, infetta
dalla malaria e dalla malattia del sonno, cosicchè restai. Naturalmente
a Claudia volli far credere d’esser rimasto per lei.
Era fra quelle donne che non acquistano e non perdon nulla quando si
giunge a conoscerle intimamente, perchè la loro bellezza le salva
dall’essere insipide e la loro fatuità dall’innamorare. Son queste le
amanti che piacciono agli uomini di Borsa, gente pratica e spedita, che
all’amore pensano quando ne hanno tempo e vogliono avventure saporite ma
scevre di complicazioni sentimentali. Noi, dopo alcuni mesi, litigammo
per varie futilissime ragioni. Voleva, per esempio, che trovassi modo di
presentarla alla duchessa di Loano, la quale dava in quella stagione
ambitissime feste. Non ne venni a capo, e se ne offese. Poi mi trovava
poco espansivo, troppo indolente; spesso irritabile; diceva che la
trattavo come un’amante vecchia e superflua, che non avevo per lei
alcuna di quelle delicatezze, un po’ romantiche forse, ma che sono tanto
necessarie ai piccoli amori. S’ingelosì anche d’una miss Americana, che
in quell’anno accivettava mezza Roma, ed io, sebbene per mio conto non
soffrissi d’alcuna gelosia, nondimeno mi stizzii un poco nel vederle
intessere con tutti gli uomini quelle frivole galanterie che aveva, sin
dal primo giorno, intraprese con me. Tranquillamente l’avventura finì.
Durante l’inverno mi si eran offerte varie occasioni di veder Edoarda,
in istrada o nei teatri, ma raramente sola. Nonostante il mio desiderio,
m’ero prefisso di non andar nelle case o nelle feste ove supponevo di
poterla incontrare, poichè non sapevo in qual modo ell’avrebbe subìto
quest’incontro. Una sola volta, recandomi a visitare la contessa di
Casciano, l’incrociai mentr’ella passava con un’amica per l’anticamera.
Entravo, ella usciva: ebbe, nel vedermi, un piccolo movimento di
perplessità, poi entrambe passarono, chinando leggermente il capo al mio
saluto. Su l’uscio, donna Eufemia Lanti, ch’era la sua compagna, si
volse e mi sorrise. Edoarda portava quel giorno una pelliccia di
martora; su le sue scarpine finissime brillavano due fibbie d’argento:
questo solo ricordo. Dietro lei rimase un solco del suo leggero profumo,
un profumo che le avevo scelto io: soave.
Al Pincio qualche volta la sua carrozza ed il mio cavallo
s’incrociarono; in istrada molto spesso la vidi uscir dai negozi. Se
l’incontravo durante una passeggiata, la seguivo per un tratto,
discretamente, senza darle noia.
Intanto la studiavo. Quando s’accorgeva della mia presenza, il suo passo
diveniva un po’ incerto ed insieme più rapido; non guardava mai dalla
mia parte, non sostava, e tuttavia c’era nel suo modo di camminare
qualcosa d’indefinibile, come la compiacenza di sentirsi bella sotto la
vigilanza del mio sguardo. Poi, frettolosa, entrava in un negozio; io
non spingevo la temerità fino ad attendere che uscisse.
Il mio capriccio di giorno in giorno si faceva più forte; era una
curiosità malsana e torbida, era come il desiderio d’un peccato
insolito, che mi accendeva e mi sollevava un poco dalle mie tristezze.
Ogni giorno cercavo un mezzo nuovo per poterla incontrare.
Il Capuano mi dava molte notizie su la sua vita intima e spesso lo
istigavo abilmente perchè soddisfacesse qualche mia curiosità. Vicino a
Edoarda egli stava per divenire un di que’ cocciuti e fidi cavalieri
serventi che spesseggiano intorno alle belle signore, le seguono
dappertutto, nella intimità della famiglia e nei ritrovi della vita
mondana. Per lo più costoro furono amanti, od anche solo amici amorosi;
poi tramonta il regno loro ed altri li soppianta nel cuore della bella
infedele. Ma ebbero il favore di qualche confidenza, resero alcuno di
que’ servigi che si rammentano, o, per la loro professione,
s’immischiarono nelle faccende patrimoniali, o furon amici strettissimi
del marito; intanto, man mano, i capelli si fanno grigi, l’intimità li
vizia, l’umore divien geloso, permaloso, irascibile, e degradano giù
giù, fino ad essere l’invitato necessario d’ogni pranzo, il compagno su
gli «stages», nelle villeggiature, al mare, in montagna. Rassegnati e
bisbetici, fanno da supplente o da superfluo, e son gli uomini a cui
volentieri i mariti confidan le lor mogli, perchè possiedono tutte le
virtù maritali, mentre non si ritengon pericolosi; cicisbei di gran
corte, che il troppo donneare o il troppo amoreggiare ha finalmente
ridotti a non destar paura.
Fabio, senz’essere tra costoro, stava per assumerne l’abito e gli
attributi. Quell’amore per Edoarda, ch’egli aveva nutrito nell’anima
silenziosamente, ora gli si commutava in una di quelle caparbie
sentimentalità, che spesso divampano all’avvicinarsi della vecchiaia.
Passioni che conservano dell’amore tutto il furor triste, l’amara
gelosia, con un senso penoso di rinunzia e senza quella bellissima
temerità che distingue l’amore, cioè la pretesa del possesso.
Era il secondo abbandono che faceva di lei, forse il più doloroso. Dopo
averla adorata senza mai dirglielo, aveva saputo compiere la più alta
rinunzia per vederla felice, per darla a me; invece se l’era presa Piero
De Luca, vagheggino facile di morale, di lingua e di spada, ex ufficiale
di cavalleria, notissimo nelle cacce, negli ippodromi, giuocatore
sregolato, uomo avventuroso, destro, pieno di coraggio e di fede in sè
stesso. Dicevano che la generosità d’un amante gli avesse più volte
salvata l’uniforme, quell’uniforme attillata ch’egli portava con tanta
spavalderia. Ora, da qualche anno, aveva lasciato l’esercito; non lo si
vedeva più pavoneggiarsi di quella sua lunga sciabola rumorosa, o
danzare a tutti i balli con eleganza compiuta; ma si dava interamente ai
cavalli, ora sopra tutto che il denaro dei Laurenzano gli permetteva di
nutrire una scuderia da corse, oltre una decina di cavalli per concorsi
ippici e per le cacce nella campagna.
Il Capuano lo aveva sempre avversato, prima e dopo il matrimonio, nè si
tratteneva dal farlo comprendere a Edoarda. Senonchè il De Luca era un
marito come ve ne sono molti, fra quelli che han sposata una dote, e dei
quali si crede, per questo solo, che debban esser pessima gente. Il De
Luca, — e Fabio doveva pur convenirne, — era gaio in famiglia, non
molesto, cortese; accompagnava sua moglie volentieri, le usava
un’infinità di premure, la colmava di regali, questo, beninteso, con il
denaro di lei. Ancora non gli si conoscevano amanti; con le antiche — le
quali eran molte — si mostrava d’una correttezza irreprensibile: non era
inoltre geloso, non scontroso, di belle maniere e liberale: «pareva che
in quel denaro egli ci avesse guazzato fin dall’infanzia»; — e questa
era una frase del Capuano.
Aveva in addietro appartenuto al nostro Circolo, poi se n’era dimesso.
Ora lo avevano ripresentato ed accolto a pieni voti. Uno dei proponenti,
s’intende, fu il Capuano. Ma il De Luca non veniva che ad intervalli;
dopo il matrimonio aveva lasciato il gioco e passava la vita fra le
scuderie, gli ippodromi, gli allevatori e gli allenatori di cavalli.
Mi ero domandato sovente se Edoarda lo amasse. Fabio pretendeva di no.
S’egli amasse Edoarda? Forse.
Ora le carrozze dei Laurenzano erano stemmate; sul portone del palazzo
era uscito un grande scudo marmoreo con le armi dei De Luca, ch’eran tre
stelle sopra un mare, con un torchio ed una chiave. «_Nostra cum vi_».
La vecchia zia era morta da tempo; ne avevano già smesso il lutto. Un
giorno, che si parlava di tutte queste cose, Fabio mi domandò
improvvisamente:
— Infine, sei dunque pentito della tua pazzia?
— Pentito?... Ma neanche per sogno! — risposi bruscamente, alzando le
spalle. Poi, siccome volevo sapere molte cose, presi a domandargli con
somma naturalezza: — Edoarda non ti ha mai parlato di me?
— Sì, qualche volta, in principio; ma ora, da che sei tornato, evita
manifestamente questo discorso.
— Ah!
— Però conosce tutte le tue prodezze.
— Quali?
— Oh Dio... tutte!
— E naturalmente gliele avrai raccontate tu.
— Un po’ io, un po’ gli altri. Perchè? ti spiace?
— Figùrati!... Mi è del tutto indifferente. Volevo soltanto sapere cosa
dice di me. Forse mi compiange?
— No; anzi non esprime alcun giudizio. Solo, una volta, m’ha detto di
averti veduto, credo in teatro, e di aver notato che avevi l’aria un po’
mutata... da quel tempo.
— Mutata? E come?
— Che so io? lo sguardo più duro, l’espressione d’un uomo che sia molto
vissuto in poco tempo, l’aspetto un po’ patito... Non ha detto di più.
— E non hanno bimbi?
— Finora no.
— Come mai?
— E cosa vuoi che ne sappia io! — esclamò egli, con il suo solito
malumore sorridente.
— Senti: e se per caso l’incontrassi una volta, in società o in altro
luogo dove fosse indispensabile parlarci?
Gli feci di proposito questa domanda, sapendo ch’egli l’avrebbe
ripetuta.
— Mah?... — rispose Fabio, — non saprei. Il marito come si dimostra con
te?
— Cortesissimo.
— Vi parlate?
— Al Circolo, qualche volta; poche parole.
— Bah! Potresti al caso rivolgerle accademicamente un saluto: buon
giorno, buona sera... Questo non conta.
— E mi risponderà?
— Per forza.
— Senti: è una domanda stupida, oziosa la mia... Ma credi che sia tutto
passato in lei?
— Ah... non so. — E soggiunse con la sua voce burbera: — Le donne, sai,
chi le indovina è bravo!
Sapevo che tutte le mattine ella passava per Piazza di Spagna, e vi
passai; sapevo che la domenica andava alla Trinità dei Monti con altre
signore, e la domenica passeggiai verso la Trinità dei Monti.
Solevo portare nello sparato della camicia una goccia di rubino ch’era
il castone d’un antico anello; Edoarda me lo aveva regalato, non so più
in quale ricorrenza. Ogni sera, quando supponevo di poterla incontrare
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