L'amore che torna: romanzo - 26
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di tabacco e d’incenso, di chiesa e d’osteria. L’uniforme tetra non
riesce a toglierti quel non so che di gioviale che ti trapela dalla
fisionomia; siccome vedi sempre piangere, hai voglia di ridere: è
naturale.
Fra le tante cose delle quali non ho saputo rendermi conto nella vita, è
quella di non aver saputo comprendere come mai, fra i tanti mestieri che
vi son da fare al mondo, un uomo possa liberamente scegliersi quello del
becchino. È forse una vocazione come tutte le altre, una vocazione
macabra, che mi dà tuttavia da riflettere.
Tu, per esempio, hai una bella corporatura, sei d’ómeri quadrati ed hai
un incedere maestoso... avresti potuto con indifferenza fare il
carabiniere, il portiere d’un palazzo, che so io? il custode d’una
fabbrica, e perchè no? magari il secondino in un reclusorio. Invece,
nient’affatto! Un bel giorno ti sei sentito spinto verso le pompe
funebri e ti è piaciuto affrontare la vita nella triste qualità del
beccamorto.
Può darsi che la familiarità con la quale tu avvicini e maneggi il
cadavere, senz’ombra di quella paura ch’esso incute ai pavidi mortali,
ti dia su la comune folla degli uomini un senso quasi di potenza e di
coraggiosa virilità. Inoltre il mestiere ha i suoi lati buoni; si ha da
fare coi preti, che son gente accorta, si va per le case altrui,
sbirciando nel cuore delle famiglie; la fatica, se talvolta è gravosa,
in compenso non è lunga, e, mentre tutte l’altre industrie possono
allentarsi o far difetto all’operaio, quella delle sepolture non varia,
e di morti ve ne son tanti ogni giorno, ricchi e poveri, dappertutto.
Nella mia casa, quando verrai a prendermi, sarai trattato coi dovuti
riguardi, ed il mio maggiordomo, ch’è una persona ospitale, ti darà
certo un buon calice da tracannare. In questo modo io sarò per te un di
que’ morti coi quali occorrono, è vero, molte cerimonie, ma che hanno il
merito in compenso di abbandonare un’ottima cantina. E terrai a mente la
casa, come una di quelle ove sarebbe opportuno si morisse di frequente.
Orbene, senza che tu neppure te n’accorga, io ti farò dalla morte le mie
confessioni estreme.
«Brav’uomo, — ti dirò, senza muovere la bocca suggellata, — brav’uomo,
fa piano! e bada che non cápita spesso ad un volgare becchino par tuo di
mettere sotto la terra un uomo quale io fui. In verità sono stato un
inutile; ho avuti alcuni desiderii grandi, che nel mio cuore inane si
spensero come incendi effimeri di festuche in un campo, brillarono e
caddero come il razzo vanaglorioso d’un fuoco artificiale.
Poichè dietro me strisciava il senso della universale inutilità, l’odio
per le cose piccole, senza il fervore per le grandi, e mi sono cullato
nelle braccia della fortuna come sopra una insommergibile nave.
La vita, quand’essa mi piacque, me la ghermii come un’amante barbara;
quando n’ebbi tutto spremuto il natural piacere, ancora me ne saziai
come d’una invereconda cortigiana. Sono stato con allegrezza uno
sciupatore indolente, un magnifico dissipatore di tutti quei beni
ch’ella mi diede in retaggio, e se non volli insignorirmi d’alcuna sua
podestà, fu solo perchè il dominio mi parve una fatica inutile.
Questa, becchino, è la sintesi di tutto: «Inutile.» Questa è la parola
ch’io vidi splendere su la totale conoscenza della vita, come un
disperato limite, che invano tentai di varcare.
Talvolta mi resse nondimeno quella superiore coscienza della propria
elevazione che alimenta il fervore dei mistici e dei tiranni; sebbene il
mio spirito fosse pieno d’esilio come un oceano lo è di lontananza, e di
vento e d’ombra una fredda solitudine.
Sì, becchino, queste orgogliose parole non ti faccian sorridere.
Provengon da un’oscura fede nella mia potenza, da un ingenito senso
della mia diversità, la quale mi collocava, per una specie d’inerte
potere, al di sopra della turba, e di là, senz’alcuna grandezza,
guardavo tuttavia nel mondo come da un’altura. Poichè non la mia vita
vissi, ma quella, forse dispregevole, del mio nemico interiore.
Fa piano a depormi nel féretro, o scortese becchino!... Questo mio corpo
che malamente scuoti, fu amato in verità e cosparso di carezze dalle
calde labbra e dalle bianche mani di molte donne soavissime. Or queste
si affaccian su l’orlo della cassa ove mi poni, e guardano.
Ahimè! ricoprimi bene la faccia, ch’elle non mi vedano così bianco! Due
più curve stanno, e, quasi più attente, cercano d’interrogare il
silenzio, d’indovinare la morte. Una di gramaglie veste, ma l’altra è
vestita di sole, perchè i suoi capelli conservano quel colore
indefinibile dell’oro antico e del bronzo, che fascia il suo volto fermo
in un velo di scintillante oscurità.
Entrambe da me non seppero qual d’esse il mio sterile cuore abbia
veramente amata. Ma ora, prima che il coperchio di piombo mi sia la più
diuturna coltre, ora domandano con paura — (e non le odi tu forse?) —
domandano: «Quale?»
Becchino disattento, becchino privo di urbanità, poichè non posso io
rispondere con le mie suggellate labbra, e tu per me rispondi:
«Amò di voi la più lontana, quella che si chiamò «Perduta», quella che
si adornò per lui d’un nome ancora più torbido, «Sconosciuta?...»
Su la tua bocca odorosa di forte vino e di aspro tabacco, le belle frasi
ch’io ti suggerisco parranno quasi una celia inconsapevole; ma tu non
mutarne sillaba e fedelmente ripeti:
«Amò di voi quella che parve al suo amore più vietata, sebbene
quest’uomo che io seppellisco porti con sè nella fossa un cuore povero
come la morte.»
Ma se colei non t’ascolti che veste le gramaglie della vedova, e
l’altra, nei chiari occhi, paia della mia morte pensosa, su questa
cùrvati e dille, o buon seppellitore, ma furtivamente, all’orecchio
dille, che soltanto lontani, oltre la rinunzia, dopo l’irreparabile, al
di là dall’amore si ama; soltanto nella memoria, nella impossibilità si
ama... A lei dillo, becchino, a lei sola... e che l’altra, la mia
vedova, non oda. Perchè fino all’ultimo giorno ella mi conobbe ormai per
un marito fedele, nè io vorrei farla soffrire in cambio del bene che mi
diede.
La sua dolce anima vegliava intorno alla mia tepida indolenza come la
lampada funeraria veglierà fra poco sul marmo della mia sepoltura; nel
mondo ella non ebbe altra gioia, se non quella di riscaldare con il suo
àlito il mio stanco disutile cuore...»
Ma perchè indugiarmi a discorrere con te, o becchino che mi sei ancor
distante, quando la vita è tuttora bella, ed in queste giornate di sole
Roma splende, quasi fosse un mosaico di gioielli, e sembra tuttavia la
città miracolosa dove il destino d’un uomo, la sua giovinezza, i suoi
liberi sogni possono ad ogni giorno rifiorire?
Orsù amici! Sono ancora quel patrizio romano che vi stupiva con le sue
liberalità; ho ancora banchetti sontuosi da offrire all’ingordigia dei
parassiti, lucenti sale da schiudere agli ozi delle mie clientele; ho
ancora eleganze da insegnare, denaro da spendere, ottimi cavalli da
cavalcare, magnifici cocchi sui quali trascinarvi nei viali delle
profumate ville romane, mentre lontano, al vento, si disperderà in un
leggero nembo di polvere il confuso rumor d’applausi e l’ira delle
attonite platee...
La casa Guelfo ha riscattata la signoria che i suoi maggiori le avevan
tramandata per secoli di splendore; sul pennone di Torre Guelfa sventola
il vessillo antico signoreggiando l’aria verso il monte e verso il mare.
Il feudo è risorto; le terre, libere d’ogni gravezza, ricomperate o
rivendicate, biondeggiano di folte messi e maturano vigne al sole;
ancora, quando passo, calco la terra mia. E perchè non perisca il mio
nome — la cosa più bella che portai, — da due anni aspetto con
impazienza l’erede.
La buona sorte, mia fedele amica, mi ha dunque tutto recato, anche —
bisogna credere — la felicità. Solo, di quando in quando, nelle ore di
solitudine, viene a sedermi sulle ginocchia una piccola sconosciuta, e
mi butta le braccia intorno al collo, rovesciando la sua testolina
bionda, e parla, e parla, e sorride, la mia bambina di laggiù...
Allora sorgo in fretta, faccio attaccare a quattro redini la pariglia
saura con i morelli di tre balzane, ed esco guidando la quadriglia, che
scalpita per l’acciottolato.
Su l’arco del palazzo Laurenzano splende l’arma dei Guelfo di
Materdomini; ed il suo motto dice:
«_Placet, si vis, Domine._»
————
FINE
DELLO STESSO AUTORE
L’amore che torna — 1908
Ultima edizione: dal 101.º al 150.º migliaio _Romanzo_
Colei che non si deve amare — 1910
Ultima ediz.: dal 131.º al 180.º migliaio _Romanzo_
La vita comincia domani — 1912
Ultima ediz.: dal 106.º al 155.º migliaio _Romanzo_
Il Cavaliere dello Spirito Santo — 1914
dal 41.º al 70.º migliaio _Storia di una giornata_
La donna che inventò l’amore — 1915
Ultima ediz.: dal 96.º al 145.º migliaio _Romanzo_
Mimi Bluette, fiore del mio giardino — 1916
Ultima ediz.: dal 111.º al 160.º migliaio _Romanzo_
Il libro del mio sogno errante — 1919
Ultima ediz.: dal 51.º al 100.º migliaio
Sciogli la treccia, Maria Maddalena — 1920
Terza ediz.: dal 101.º al 150.º migliaio _Romanzo_
_Le altre opere sono esaurite o fuori commercio e l’A. ne vieta la
ristampa._
_Nota degli Editori._
riesce a toglierti quel non so che di gioviale che ti trapela dalla
fisionomia; siccome vedi sempre piangere, hai voglia di ridere: è
naturale.
Fra le tante cose delle quali non ho saputo rendermi conto nella vita, è
quella di non aver saputo comprendere come mai, fra i tanti mestieri che
vi son da fare al mondo, un uomo possa liberamente scegliersi quello del
becchino. È forse una vocazione come tutte le altre, una vocazione
macabra, che mi dà tuttavia da riflettere.
Tu, per esempio, hai una bella corporatura, sei d’ómeri quadrati ed hai
un incedere maestoso... avresti potuto con indifferenza fare il
carabiniere, il portiere d’un palazzo, che so io? il custode d’una
fabbrica, e perchè no? magari il secondino in un reclusorio. Invece,
nient’affatto! Un bel giorno ti sei sentito spinto verso le pompe
funebri e ti è piaciuto affrontare la vita nella triste qualità del
beccamorto.
Può darsi che la familiarità con la quale tu avvicini e maneggi il
cadavere, senz’ombra di quella paura ch’esso incute ai pavidi mortali,
ti dia su la comune folla degli uomini un senso quasi di potenza e di
coraggiosa virilità. Inoltre il mestiere ha i suoi lati buoni; si ha da
fare coi preti, che son gente accorta, si va per le case altrui,
sbirciando nel cuore delle famiglie; la fatica, se talvolta è gravosa,
in compenso non è lunga, e, mentre tutte l’altre industrie possono
allentarsi o far difetto all’operaio, quella delle sepolture non varia,
e di morti ve ne son tanti ogni giorno, ricchi e poveri, dappertutto.
Nella mia casa, quando verrai a prendermi, sarai trattato coi dovuti
riguardi, ed il mio maggiordomo, ch’è una persona ospitale, ti darà
certo un buon calice da tracannare. In questo modo io sarò per te un di
que’ morti coi quali occorrono, è vero, molte cerimonie, ma che hanno il
merito in compenso di abbandonare un’ottima cantina. E terrai a mente la
casa, come una di quelle ove sarebbe opportuno si morisse di frequente.
Orbene, senza che tu neppure te n’accorga, io ti farò dalla morte le mie
confessioni estreme.
«Brav’uomo, — ti dirò, senza muovere la bocca suggellata, — brav’uomo,
fa piano! e bada che non cápita spesso ad un volgare becchino par tuo di
mettere sotto la terra un uomo quale io fui. In verità sono stato un
inutile; ho avuti alcuni desiderii grandi, che nel mio cuore inane si
spensero come incendi effimeri di festuche in un campo, brillarono e
caddero come il razzo vanaglorioso d’un fuoco artificiale.
Poichè dietro me strisciava il senso della universale inutilità, l’odio
per le cose piccole, senza il fervore per le grandi, e mi sono cullato
nelle braccia della fortuna come sopra una insommergibile nave.
La vita, quand’essa mi piacque, me la ghermii come un’amante barbara;
quando n’ebbi tutto spremuto il natural piacere, ancora me ne saziai
come d’una invereconda cortigiana. Sono stato con allegrezza uno
sciupatore indolente, un magnifico dissipatore di tutti quei beni
ch’ella mi diede in retaggio, e se non volli insignorirmi d’alcuna sua
podestà, fu solo perchè il dominio mi parve una fatica inutile.
Questa, becchino, è la sintesi di tutto: «Inutile.» Questa è la parola
ch’io vidi splendere su la totale conoscenza della vita, come un
disperato limite, che invano tentai di varcare.
Talvolta mi resse nondimeno quella superiore coscienza della propria
elevazione che alimenta il fervore dei mistici e dei tiranni; sebbene il
mio spirito fosse pieno d’esilio come un oceano lo è di lontananza, e di
vento e d’ombra una fredda solitudine.
Sì, becchino, queste orgogliose parole non ti faccian sorridere.
Provengon da un’oscura fede nella mia potenza, da un ingenito senso
della mia diversità, la quale mi collocava, per una specie d’inerte
potere, al di sopra della turba, e di là, senz’alcuna grandezza,
guardavo tuttavia nel mondo come da un’altura. Poichè non la mia vita
vissi, ma quella, forse dispregevole, del mio nemico interiore.
Fa piano a depormi nel féretro, o scortese becchino!... Questo mio corpo
che malamente scuoti, fu amato in verità e cosparso di carezze dalle
calde labbra e dalle bianche mani di molte donne soavissime. Or queste
si affaccian su l’orlo della cassa ove mi poni, e guardano.
Ahimè! ricoprimi bene la faccia, ch’elle non mi vedano così bianco! Due
più curve stanno, e, quasi più attente, cercano d’interrogare il
silenzio, d’indovinare la morte. Una di gramaglie veste, ma l’altra è
vestita di sole, perchè i suoi capelli conservano quel colore
indefinibile dell’oro antico e del bronzo, che fascia il suo volto fermo
in un velo di scintillante oscurità.
Entrambe da me non seppero qual d’esse il mio sterile cuore abbia
veramente amata. Ma ora, prima che il coperchio di piombo mi sia la più
diuturna coltre, ora domandano con paura — (e non le odi tu forse?) —
domandano: «Quale?»
Becchino disattento, becchino privo di urbanità, poichè non posso io
rispondere con le mie suggellate labbra, e tu per me rispondi:
«Amò di voi la più lontana, quella che si chiamò «Perduta», quella che
si adornò per lui d’un nome ancora più torbido, «Sconosciuta?...»
Su la tua bocca odorosa di forte vino e di aspro tabacco, le belle frasi
ch’io ti suggerisco parranno quasi una celia inconsapevole; ma tu non
mutarne sillaba e fedelmente ripeti:
«Amò di voi quella che parve al suo amore più vietata, sebbene
quest’uomo che io seppellisco porti con sè nella fossa un cuore povero
come la morte.»
Ma se colei non t’ascolti che veste le gramaglie della vedova, e
l’altra, nei chiari occhi, paia della mia morte pensosa, su questa
cùrvati e dille, o buon seppellitore, ma furtivamente, all’orecchio
dille, che soltanto lontani, oltre la rinunzia, dopo l’irreparabile, al
di là dall’amore si ama; soltanto nella memoria, nella impossibilità si
ama... A lei dillo, becchino, a lei sola... e che l’altra, la mia
vedova, non oda. Perchè fino all’ultimo giorno ella mi conobbe ormai per
un marito fedele, nè io vorrei farla soffrire in cambio del bene che mi
diede.
La sua dolce anima vegliava intorno alla mia tepida indolenza come la
lampada funeraria veglierà fra poco sul marmo della mia sepoltura; nel
mondo ella non ebbe altra gioia, se non quella di riscaldare con il suo
àlito il mio stanco disutile cuore...»
Ma perchè indugiarmi a discorrere con te, o becchino che mi sei ancor
distante, quando la vita è tuttora bella, ed in queste giornate di sole
Roma splende, quasi fosse un mosaico di gioielli, e sembra tuttavia la
città miracolosa dove il destino d’un uomo, la sua giovinezza, i suoi
liberi sogni possono ad ogni giorno rifiorire?
Orsù amici! Sono ancora quel patrizio romano che vi stupiva con le sue
liberalità; ho ancora banchetti sontuosi da offrire all’ingordigia dei
parassiti, lucenti sale da schiudere agli ozi delle mie clientele; ho
ancora eleganze da insegnare, denaro da spendere, ottimi cavalli da
cavalcare, magnifici cocchi sui quali trascinarvi nei viali delle
profumate ville romane, mentre lontano, al vento, si disperderà in un
leggero nembo di polvere il confuso rumor d’applausi e l’ira delle
attonite platee...
La casa Guelfo ha riscattata la signoria che i suoi maggiori le avevan
tramandata per secoli di splendore; sul pennone di Torre Guelfa sventola
il vessillo antico signoreggiando l’aria verso il monte e verso il mare.
Il feudo è risorto; le terre, libere d’ogni gravezza, ricomperate o
rivendicate, biondeggiano di folte messi e maturano vigne al sole;
ancora, quando passo, calco la terra mia. E perchè non perisca il mio
nome — la cosa più bella che portai, — da due anni aspetto con
impazienza l’erede.
La buona sorte, mia fedele amica, mi ha dunque tutto recato, anche —
bisogna credere — la felicità. Solo, di quando in quando, nelle ore di
solitudine, viene a sedermi sulle ginocchia una piccola sconosciuta, e
mi butta le braccia intorno al collo, rovesciando la sua testolina
bionda, e parla, e parla, e sorride, la mia bambina di laggiù...
Allora sorgo in fretta, faccio attaccare a quattro redini la pariglia
saura con i morelli di tre balzane, ed esco guidando la quadriglia, che
scalpita per l’acciottolato.
Su l’arco del palazzo Laurenzano splende l’arma dei Guelfo di
Materdomini; ed il suo motto dice:
«_Placet, si vis, Domine._»
————
FINE
DELLO STESSO AUTORE
L’amore che torna — 1908
Ultima edizione: dal 101.º al 150.º migliaio _Romanzo_
Colei che non si deve amare — 1910
Ultima ediz.: dal 131.º al 180.º migliaio _Romanzo_
La vita comincia domani — 1912
Ultima ediz.: dal 106.º al 155.º migliaio _Romanzo_
Il Cavaliere dello Spirito Santo — 1914
dal 41.º al 70.º migliaio _Storia di una giornata_
La donna che inventò l’amore — 1915
Ultima ediz.: dal 96.º al 145.º migliaio _Romanzo_
Mimi Bluette, fiore del mio giardino — 1916
Ultima ediz.: dal 111.º al 160.º migliaio _Romanzo_
Il libro del mio sogno errante — 1919
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Sciogli la treccia, Maria Maddalena — 1920
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_Le altre opere sono esaurite o fuori commercio e l’A. ne vieta la
ristampa._
_Nota degli Editori._
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