L'amore che torna: romanzo - 01

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GUIDO DA VERONA

L’Amore che torna
ROMANZO
VIII.ª EDIZIONE
_(dal 101º al 150º Migliaio)_

R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI — FIRENZE

MCMXX
————
PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
paesi
_Milano — Tip. Pirola & Cella di Primo Cella_
————


L’Amore che torna

«Placet, si vis Domine»

— Dormite? — ella domandò, piano, entrando sotto l’arco della tenda che
l’avviluppava in sè come un mantello d’antico e fosco velluto. Avevo
inteso il rumore de’ suoi passi nell’altra stanza, il fruscìo della sua
gonna sul tappeto, ma fingevo di sonnecchiare davanti al caminetto, con
un libro aperto su le ginocchia.
— Dormite? — ella ripetè, avvicinandosi e protendendo il capo, quasi per
meglio discernermi nella semioscurità della stanza.
— No, stavo pensando, — le risposi con una voce rapida, che a mio
malgrado tradiva l’impazienza di averla così a lungo attesa.
Bella e ridente nella luce irrequieta della fiamma:
— Ebbene — domandò — non mi dite nulla? non mi salutate neppure?
— Vi aspettavo per le quattro e mezzo; ora sono le sei... Veramente mi
pare un po’ tardi!
— Allora me ne torno via... — E fece ridendo l’atto di volgersi; poi
soggiunse:
— Dunque, siete sempre in collera?
— Con voi non mi riesce! Solo, durante le attese, medito, e quando
medito mi assale a poco a poco l’esasperazione.
— Già, voi avete un carattere bizzarro! Ascoltatemi: ora vi spiegherò.
— A che serve? Mi sarebbe così difficile credervi!
— Ed avreste torto, — ella rispose tranquillamente. — Se volessi
mentirvi, saprei anche mentirvi bene.
— Oh... davvero?
— Forse ne dubitate? Noi donne ci confondiamo più facilmente nel dire la
verità.
— Quand’è così, — feci — spiegatevi pure.
— Permettete che mi sieda? — ella domandò in tono di celia.
— Ve ne prego.
— E che mi tolga la pelliccia? i guanti? il cappello?
— Ve ne prego, — ripetei con la stessa urbanità.
— E che vi chieda un bacio? un bacio su la punta delle dita?
Mi tese una piccola mano, senz’anelli, con l’unghie rosee, finemente
curate, ove le mie labbra indugiarono con voluttà, poich’era tepida e
morbida come una soave piuma.
— Ecco, — ella fece, sedendo presso il caminetto e ravviando i suoi
capelli, d’un bel colore d’oro e di bronzo antico, fusi per comporre
insieme una maravigliosa luce, — ecco: vi aspetterete chissà quale
confessione, chissà quale complicatissima storia... Invece una causa
molto semplice: avevo dimenticato. Leggevo anch’io, vicino al fuoco, un
libro molto bello, e mi ricordai dell’ora solo quando fu, come voi dite,
un poco tardi.
Mi guardò col suo riso impertinente, in cui erano tutte le grazie e
tutte le insensibilità.
Una pausa lunga; ella si leva, guarda i fiori che stanno in un grande
vaso d’argento e trascolorano al riverbero del fuoco, sceglie una
pallida rosa e la pone alla sua cintura. Io accendo una sigaretta, la
decima forse dalle quattro e mezzo in poi; Ludovico reca il vassoio del
tè: ci sediamo entrambi, aspirando il vaporoso aroma della bevanda
profumata.
— Dunque, — riprendo con indifferenza, — avete letto molto a lungo? E
certo un libro attraentissimo, un libro strano, perchè voi amate
soltanto le cose strane...
— Non sempre, qualche volta, anche le tristi.
— Allora, oggi, un libro triste?
— Sì: «_Le roman d’un spahi_», del Loti. Era l’unico libro suo che non
avessi ancor letto.
— Vi piace Loti?
— Molto; perchè ne’ suoi libri mi rassomiglia un poco; sente cioè tutte
le cose con un’anima che non è sua, ma che gli appartiene e che sa far
comprendere come se fosse la sua.
— E questa seconda anima cosa sarebbe, in voi ed in lui?
— Oh Dio, è ben difficile a definirsi! Un misto d’ingegno e di fantasia,
d’indifferenza e di sensibilità, di superficiale e di profondo, di
curioso e d’inutile.
— È vero; per Loti è vero. Per voi, non so... perchè non vi conosco.
— Ah?... ricominciate le indagini solite?
— No, me ne guardo bene. Mi avete già data una risposta la quale vieta
ogni ulteriore commento. Mi avete detto: «La mia vita passata non vi
appartiene, come non appartiene a me sola... dunque non insistete,
perchè inevitabilmente vi mentirei.» Questa frase risolve tutto; non
insisto più.
— Ed è forse meglio per entrambi. Vi ho detta la verità fino al segno
cui potevo giungere: non chiedetemi oltre. A me riesce più facile
inventare una fiaba che risolvermi ad una confessione, perchè non amo
intrusi nella mia vita intima ed inoltre ho più fantasia che memoria...
Perdonatemi, la colpa non è mia!
Tutto questo ella diceva con indefinibile grazia, in una lingua
straniera che usava con familiarità, sebbene vi risuonasse talvolta
l’accento natìo, come in tutta la sua persona era segnato, puro e
splendido, il tipo della sua terra ungherese.
— Via, Germano, — ella seguitò con maggiore dolcezza — perchè
tormentarci? Perchè mi lascerete partire con un triste ricordo?
— Partire? — l’interruppi vivamente. — Ieri mi avevate quasi promesso
che...
— Sì, ieri... Ma poi ho meglio riflettuto, e mi sono persuasa che devo
partire.
— Non comprendo questa necessità. Voi siete libera, credo.
— Appunto perchè lo sono, e vorrei rimanerlo sempre, — rispose, con una
leggera ombra nel viso.
— Temete forse ch’io divenga troppo indiscreto? che m’impadronisca
troppo della vostra libertà?
— Non è per questo, Germano.
— Ed allora?
— La ragione è un’altra. Ve la scriverò dopo aver lasciato Roma. Per ora
non mi domandate nulla, nulla, vi prego.
Il fuoco era quasi spento, la stanza semibuia, il rumore della strada
reso fievole dalle folte cortine. Di quando in quando uno scalpitìo di
cavalli sul lastricato, un crepitare della brage morente; nell’aria il
profumo delle rose d’inverno, languida fragranza di fiori sbocciati
senza sole; ed ella era seduta nella grande poltrona di cuoio dai foschi
rilievi, co’ due piedini sovrapposti, appena uscenti fuor dalla balza,
le mani posate sui bracciuoli: tutta vestita di nero.
Da quando ella era divenuta «la mia amica», poichè amava ella stessa
chiamarsi così, io vivevo nell’ardore di una febbre in cui erano gioie
forse più acute che nella voluttà di possederla e tormenti più acerbi
che nell’assoluta rinunzia. Sentivo confusamente che se fosse partita,
se non avessi potuto più soffrire della sua presenza, mi sarei creduto
per sempre incapace di accendere in me un altro desiderio, di esprimere
un’altra ammirazione, di conoscere o di pensare un’altra bellezza, la
quale somigliasse lontanamente alla sua.
Per questo le andai vicino, e dimenticando il fugace rancore le parlai
quasi tremante.
— Non andrete via, — la pregai. — Non posso lasciarvi partire!
Mi guardò a lungo, mi porse la mano, ebbe un sorriso pieno di tristezza,
mi disse:
— Anch’io vorrei forse restare, ma invece devo, devo andarmene via... —
Poi soggiunse: — Ritornerò; verrete voi a vedermi... chissà!
— No, Elena: se partite questa volta, non ci vedremo più; mai più.
— Perchè mi dite questo? Anche la prima volta noi credevamo che sarebbe
stato così, ed invece... La vita è tanto bizzarra!
— Elena, io farò in modo che non ci si riveda.
— Voi? e perchè?
— Perchè è sempre triste, enormemente triste, rimanere a mezza strada
fra l’indifferenza e l’amore, fra la curiosità e il desiderio, fra
quello che è stato e quello che poteva essere. Un sogno si può talvolta
sopprimere, ma incatenarlo, precludere ad esso l’avvenire, questo no.
D’altronde fra voi e me l’amicizia non è possibile. Perchè essere
solamente amici quando è lecito amarsi? Elena, da che vi conosco non ho
avuto verso di voi la più piccola irriverenza, non ho tentato mai di
spingere la nostra intimità oltre il limite che le avete voluto
prefiggere, trovando questo, non solo naturale, ma opportuno, perchè
siete fra quelle donne che si debbono avere sempre o non avere mai.
— Credete proprio che ci siano tali donne? — ella rispose con
volubilità. E, nel fissarmi, qualcosa di crudele attraversò la sua ferma
bellezza.
— Se vi sono, — risposi — hanno certamente il diritto di farci anche
soffrire.
— Sentite, — m’interruppe, con riso pieno d’ironia su la bocca giovine,
— credo che voi parliate con molta facilità... Veramente vi ammiro!
— Perchè? — feci, un po’ confuso.
— Via! Mi piace la sicurezza con la quale dite queste cose molto gravi e
molto serie. Parlando con voi, talvolta mi sembra di assistere alla
recitazione d’un ottimo attore.
— È dunque singolare che si abbia entrambi, esattamente, la medesima
impressione.
— Eccovi súbito mordace. Ma no!... io trovo questa una cosa naturale!
Passiamo tante ore, qui, soli, nè possiamo far altro che parlare.
Ditemi, avete avute molte amanti voi?
— Sì, molte, come tutti gli uomini che possiedono le qualità essenziali
per piacere alle donne, ossia un bel nome, un patrimonio mai esausto, e
molta disinvoltura.
— Credete che queste qualità bastino sempre?
— Sempre almeno per correre quella via battuta che si chiama la via del
cuore femminile.
— E ne avete amate molte?
— No, amate no. Le ho predilette, come alcuni prediligono i fiori. Mi è
piaciuto coltivarle, carezzarle, per ricevere in cambio il loro profumo,
persuaso che questo profumo sia forse nella donna la cosa migliore. Ma
purtroppo non ho mai saputo dare un’importanza grave ai sentimenti che
sfioravano il mio cuore sbadato. Poi un’altra cosa vi dirò: mi è mancata
una, forse la più superficiale, fra quelle distrazioni che ad altri
uomini rendono così attraente il gioco dell’amore; voglio dire il
capriccio, la passione che nasce per puntiglio, la tenacità. Davanti ad
una porta che si chiudeva con ostinatezza non mi sono mai fermato a
lungo; andavo altrove... e di porte che si aprono ve ne son tante al
mondo!
Ella sorrise evasivamente, con un sorriso incomprensibile, alzando la
mano verso una parete ov’erano in mostra, dietro un cristallo, alcuni
ritratti di donne; poi, dalla parete, verso un quadro, e disse:
— Quelle, per esempio?
Anch’io volsi da quella parte gli occhi, e risposi con una certa
pacatezza:
— Sì, quelle, oppure tante altre che non ricordo più.
— Voi parlate come Don Giovanni in un giorno di noia...
— Oh, no! — risposi ridendo. — La vostra ironia non mi ferisce affatto,
perchè davvero non penso di aver seminate molte vittime lungo il mio
cammino. Anzi la mia coscienza dorme tranquilla. Ho conosciute molte
donne, ho creduto di amarne alcuna, mi sono accorto alla fine di non
aver amato mai. E per questo ve ne parlo senza gioia, senza rancore,
come potrei ricordare il nome dei cavalli preferiti che ho fatto correre
su gli ippodromi, quand’ero più ricco, e degli amici che m’hanno aiutato
a dissipare gaiamente la vita. Lo scopo nel mondo è provare molte
sensazioni: se poi si confondono insieme, che importa? La sensazione è
un sentimento che scende sino al fiore dell’anima e non la pénetra, ma
la fascia soltanto: per questo è più soave. Senza tormentarvi, senza
farvi male, vi dà una specie d’ebbrezza. Ecco, vi dirò: vi sono alcuni
profumi così intensi che son quasi un sapore; la sensazione è tale: un
profumo che vi porta tutta l’anima di una cosa e vi commuove come un
sentimento.
Da capo, su le sue labbra, quell’impercettibile segno d’irrisione che
talora pareva un freddo scherno, talvolta un’addolorata ironia.
— Perchè, — le domandai dopo un silenzio — perchè mi guardate così?
— Io?... — fece trasognata. — Non saprei.
— Volete forse ripetermi la frase di prima, dirmi...
— Che siete un commediante? Sì, forse. Ma la commedia è vita in chi la
rappresenta bene.
Poi, mutando viso, allungò la mano verso un astuccio d’argento che
luccicava sopra un tavolino e disse:
— Via, datemi una sigaretta, Germano!
Il suo volto era tutto soffuso dal rossore della brage ravvivata, ma
nell’ombra la sua mano protesa era calma e pura come quando la baciai la
prima volta, in un giardino d’albergo, allo sfiorire d’un autunno
ligure, mentre, ne’ suoi occhi di fanciulla, ridevano le maraviglie del
cielo.


II

Ella non dava pace a’ miei sensi; la sua bellezza non posseduta mi
assediava come un incubo nella febbre. Le cose più futili mi
richiamavano a questo pensiero; talvolta un profumo, un suono, una
inflessione di voce, un oggetto qualsiasi da lei toccato, ammirato,
desiderato.
Tutto ricordavo di lei, quand’era assente, con una esattezza mirabile.
Avrei potuto, anche da solo, comprarle un paio di guanti, sceglierle un
cappello, conoscere fra cento lo stivaletto che meglio le avrebbe
calzato. Così mi avveniva di fermarmi fanciullescamente davanti alle
vetrine per fare queste scelte mentali.
Un giorno anzi, la marchesa Serra di Marziano, la Senatoressa, un’amica
mia nel tempo del suo fiore, (oh, declinare d’una splendida estate!), la
marchesa Serra di Marziano mi sorprese davanti un negozio di mode in
questa palese contemplazione.
Scendeva dalla sua carrozza e d’improvviso mi capitò dietro le spalle.
— Che fate, Guelfo? — esclamò allegramente. — A’ miei tempi non vi
conoscevo questa passione per i cappellini ed i boa delle signore!
— Allora, marchesa, preferivo svestire... — le risposi con un tono di
burla galante per trarmi d’impaccio; — ed ora preferisco vestire: che
volete mai, s’invecchia!
— Dunque state facendo una scelta. Entrate con me; chissà che non vi
possa dare un buon consiglio.
— Vi assicuro, marchesa, che non facevo nessuna scelta; guardavo la
vetrina per semplice curiosità.
— Ebbene, accompagnatemi lo stesso; il buon consiglio me lo darete voi,
— rispose la bella donna con quel sorriso ch’era tuttavia rimasto
giovine su la sua bocca troppo arrossata. — So che avete buon gusto.
E così dicendo i suoi occhi esprimevano un’ironia di ricordi lontani.
Volle che la seguissi nella sala di prova e mi fece sedere in un angolo,
dicendomi:
— Fumate pure; così vi annoierete meno. È vero, Madame Josephine, che
gli permettete di fumare?
Madame Josephine, una Parigina, venditrice di eleganze, che sapeva
ricevere le sue clienti con un garbo davvero impareggiabile, non solo mi
accordò volentieri questa licenza, ma prese ad enumerare i nomi di tutte
le signore che ormai «ne se gênent plus» e fumano in sala di prova,
«comme les messieurs à leur cercle!»
Intanto la marchesa provava e riprovava con una rapidità nervosa tutti
gli ultimi «modelli di Parigi», guardandosi ad ogni specchio e cicalando
senza tregua.
— E questo come vi pare, Guelfo?
Era un cappello larghissimo di tesa, con una grande piuma da un lato,
alla Rembrandt, semplice, di una eleganza squisita. Si confaceva
mirabilmente con la sua bellezza matura.
— Non vi sta bene; mi sembra un po’ troppo eccentrico, — risposi per
dispetto. Madame Josephine ne fu scandolezzata, ella che lo trovava
«séyant comme tout!»
— «Oh, mais les hommes, mon Dieu!...» — mi disse con un sorriso
paziente.
Infine la marchesa scelse un cappello ch’io le consigliai caldamente,
perchè m’annoiavo, ed uscimmo insieme.
Era su l’imbrunire. La luce color d’ambra del tramonto laziale orlava
gloriosamente le guglie delle chiese lontane. Volle che facessi un giro
nella sua carrozza. Partimmo al trotto veloce dei due grandi sauri che
riempivano la contrada di fragore.
Ella portava un profumo troppo forte; rammentai che nelle stanze chiuse
questo profumo talvolta mi dava il mal di capo; aveva la bocca troppo
rossa, una bocca da molti baciata.
— Non vi sembra incredibile, — ella disse d’un tratto — che noi siamo
rimasti amici, e buoni amici, anche dopo esserci amati per qualche tempo
ardentemente? È una cosa rara.
Il mio pensiero errava lontano, per altre vie, soggiogato.
— È una cosa naturale, trovo. — E continuai scherzosamente: — Se le
signore non facessero così, finirebbero con vivere in mezzo ad un
esercito di nemici. Non vi pare?
— Siete caustico, amico mio! — ella esclamò ridendo. — Ma quello che più
mi dispiace si è che vi trovo di un umore tetro... — Poi d’improvviso: —
Vi fa soffrire?
— Chi?
— Eh, via!
— Non vi comprendo.
— Oh, insomma, la nuova, l’ultima... la più bella!
Io mi strinsi un poco nelle spalle.
— Povero Guelfo, — continuò; — io vi conosco bene, perciò vedo che state
passando una crisi.
— Una crisi?
— Precisamente. Siete un ubbriaco morale, avete una manìa d’amore. Sento
che i vostri nervi soffrono.
— E come lo sapete voi?
Lenta e blanda si appoggiava contro la mia spalla; v’era nella sua voce
qualcosa di torbido, che improvvisamente mi accendeva nella memoria il
pensiero delle carezze d’una volta.
— Come lo sapete voi? — feci di nuovo, poichè aveva taciuto. Mi fissò
gli occhi negli occhi, con un riso esperto, e disse:
— Non è così, forse? Non è vero che vi esaspera? Io non so come stiano
le cose, ma penso che l’amore platonico non sia fatto per gli uomini del
vostro temperamento!
E continuò a ridere, di quel riso che m’irritava come una provocazione.
La guardai. Un senso d’angoscia mi sopraffece, in cui v’era pure un
senso di ostilità contro quella donna, contro quel profumo, contro tutte
le cose che faceva o diceva per molestare la mia nervosità. Ma d’un
tratto, come sotto il chiarore d’una luce ambigua, mi parve rivedere in
lei l’amante di una volta, la donna gloriosa e gioiosa che aveva
dispensato il vizio come il suo pòlline un fiore. E mi piacque, perchè
aveva la bocca tinta di rosso, il profumo estremamente forte, la gola un
poco sfiorita.
Certo se ne avvide: una sua mano furtiva mi cercò.
— Germano, — disse con la voce velata, — se io fossi ancora la vostra
amica non vi renderei così triste.
Di nuovo la guardai. V’erano ancora nel suo volto i vestigi di una
grande bellezza, gli occhi le splendevano d’un chiarore di gioventù.
— Se fossi ancora la vostra amica... — pronunziò più lentamente, con un
brivido.
Ora, davanti a noi, si aprivano i Prati del Castello vasti e bui della
solitudine della sera imminente. Fumavano su dalle torri della prigione
antica lenti fasci di nebbie crepuscolari, verso il cielo, che da ogni
nuvola, gradatamente abbandonava il giorno.
Vinto da una specie di perversità mi chinai su quella bocca troppo
vicina, che mi alitava su la faccia il suo torbido e caldo respiro.
— Voi, Guelfo, — mi disse, rannicchiandosi nella pelliccia — voi siete
fra que’ rari uomini che una donna non dimentica mai. Se non foste
innamorato, Guelfo...
E si cacciò le mani freddolose nel tepore dell’ampio manicotto.
— Se non foste innamorato, Guelfo...
— Ma lo sono, lo sono terribilmente... di un pensiero che mi avete fatto
nascere voi!
Un riso aperto le gonfiò la gola, e, quasi per dissimularlo, si nascose
la faccia nel manicotto, fra un mazzo di viole. Poi, subitamente,
cambiando voce, con sottile ironia:
— Come sta, — mi disse — quella nostra povera Edoarda?
Era una domanda sùbdola e ne fui molto infastidito.
— Cosa volete dire, marchesa?
— Nulla: domando sue notizie. È gran tempo che non la rivedo. Ecco una
ragazza che molte hanno ragione d’invidiare.
— Vi ringrazio della buona frecciata, marchesa! Come al solito siete
crudele.
— Non è crudeltà, caro Guelfo. Certo non posso impedirmi d’ammirare il
vostro imperturbabile coraggio. Alla vigilia del matrimonio v’ingolfate
in una grande passione, (oh quanto grande!) non solo, ma per colmare un
giorno di nevrastenia tentate anche un ritorno verso gli antichi amori.
Siete un uomo fortunato, voi!... Potete fare questo ed altro.
— Amica mia, sapete pure che si vive una volta sola.
— Questo sì.
— E dunque?
— Dunque... avete ragione!
— Ci vedremo allora?
— Non so...
— Come non sapete?
— Bisogna riflettere...
— Riflettere? Via!... sarebbe la prima volta!
E ne ridemmo entrambi, con le labbra congiunte.


III

Io vi pongo una domanda semplice:
«Ad una donna che una volta si è amata, o si è creduto di amare, ad una
creatura fragile come l’ambra e pallida come la cera, è mai possibile
tenere un discorso così terribilmente logico e crudele? È mai possibile
dire:
«Ascoltami Edoarda: il mio grande amore non è stato che una favola,
un’illusione... ora è finito; non c’è rimedio nè speranza, mai più.»
Dirle:
«Tu sai: l’amore che finisce è come una lampada che si vada spegnendo in
una sala piena d’argenterie. Quand’essa era in vita, tutte le cose
intorno brillavano, abbagliavano, erano altrettante luci; man mano
ch’essa muore, tutto a poco a poco si attenua, si vela, s’adombra...
Così fu per me. Qualcosa cessò di vivere nell’anima mia più profonda, e
lentamente, senza volerlo, divenni per te un nemico. Le cose tue che mi
erano sommamente piaciute suscitarono in me quasi uno scherno; alcune
lentezze della tua voce mi annoiarono, il vezzeggiativo con il quale
usavi chiamare il mio nome, anch’esso mi dispiacque, la tua sensibilità
eccessiva m’irritò, le tue tenerezze soverchie mi vennero a noia. Un
giorno, me ne ricordo assai bene, tu cantarellavi... Certo non hai avuta
mai un’attitudine vera per il canto, ma in altri tempi amavo
immensamente udirti accennare qualche bella canzone sottovoce. Quel
giorno — si era in campagna — dovetti uscirmene in fondo al giardino per
non pregarti di tacere. Tu, come donna, in quest’ora sopra tutte
difficile, quando l’amore pericola, non hai saputo valerti della tua
femminilità. Mi hai fatto conoscere l’amarezza delle tue lacrime, il
tedio de’ tuoi rimpianti. Ora, sappilo, Edoarda: in questi stramonti
dell’amore v’è qualcosa d’ineluttabile, perchè nessuna forza umana può
rinfocolare l’agonia di un sentimento. Ho cercato d’ingannare me stesso
e d’ingannare te; ma oggi tutto mi riesce vano. È finito, intendi?
finito! E questa parola è irremediabile come tutte le cose che in sè
racchiudono il nulla...»
Ad una creatura fragile come l’ambra e pallida come la cera, che vi
avesse regalato a piene mani tutto il fiore della sua giovinezza, è
possibile confessare una verità più semplice ancora, dirle:
«Io non ti amo più, perchè mi possiede, m’inebbria e m’incanta un altro
sogno d’amore?...»
No, certo. E l’angoscia continuava.
Ogni venerdì mi era necessario trovare un pretesto plausibile per non
accompagnar a teatro Edoarda e sua zia, nel solito palco, alla solita
ora, con una tediosa monotonia. Quel pretesto contava tra le maggiori
fatiche della mia settimana. Il venerdì, beninteso, andavo a pranzo da
lei: dovevo dare un mio consiglio su l’abito, sul cappello; dire qualche
scempiaggine perchè la vecchia zia non s’addormentasse dopo la chicchera
di caffè, — indi subirmi a teatro uno spettacolo eccezionalmente noioso.
Dopo il teatro la zia soffriva d’una specie di languore allo stomaco: al
ritorno, l’aspettava nella sala da pranzo una piccola cena fredda.
Questo languore in fondo non era che un’ottima invenzione di Edoarda per
procurarci una mezz’ora d’intimità nel salottino roseo, dove i paralumi
attenuavano soavemente la luce.
Colà mi conveniva essere un’istrione perfetto, consumare tutte le grandi
e piccole finzioni che servono ad intessere la commedia dell’amore.
Molto spesso quello spuntino della zia durava quanto un vero e proprio
banchetto, perchè la povera donna, dopo averci chiamati una e due volte
sommessamente, cadeva in quello stato di sonnolenza morboso ch’io solevo
chiamare «il letargo della bisarcavola». Oh, quante infrenabili tossi!
quanti urti — per inavvertenza — nelle tavole, cercando che si destasse!
E dietro queste piccole astuzie, nel mio cuore angosciato quanta immensa
pietà!
Certo v’erano in me due uomini ben distinti, che senza posa cercavano di
sopraffarsi; due uomini di natura inconciliabile, negazione perpetua
l’uno dell’altro, ed io stesso non riuscivo a comprendere per quale
occulto legame potessero convivere insieme.
C’era in me un uomo piuttosto dedito alle forme, alle astrazioni delle
cose, guidato da una morale rigida e da una chiara intelligenza, capace
di sentimenti squisiti e spesso d’ingenuità puerili; raffinato ma non
corrotto e facile all’ardore come allo sconforto; un uomo infine che
amava e rispettava la vita.
Ma insieme un’altro v’era, che aveva per maggiore intento quello di
esaurire tutte le sensazioni, di sviscerare le cose, per ricercarvi la
vanità recondita, con una pertinacia inaudita; un uomo crudele,
scettico, beffardo, che si accettava senza discussione e si serviva con
una singolare noncuranza. Costui non amava e non rispettava la vita, ma
neanche la temeva, sapendo contrapporre a tutte le sue minacce lo scudo
inflessibile della propria indifferenza.
In comune avevano solo pochissime qualità: una sobria eleganza in tutte
le attitudini morali ed intellettuali, una fede calma e perseverante nel
favore della sorte, secondo il motto della mia casa:
«_Placet, si vis, Domine!_»


IV

— Dove andiamo, signore? — mi domandò il vetturino, tutto incappucciato
sotto l’ombrello gocciolante.
Gli diedi l’indirizzo del Circolo. Egli fece schioccare la frusta ed il
cavalluccio riprese il suo trotto rassegnato per i selciati che
ruscellavano.
Affacciato al vetro, seguivo con occhi distratti le figure sghembe dei
passanti, che si premevano lungo il marciapiede, formando con gli
ombrelli una specie di lunga tettoia oscillante.
— Come l’umanità è grottesca quand’è bagnata! — esclamai meco stesso,
quasi per infiltrare un poco di buonumore nella tetraggine di quel
tramonto decembrino.
Fra gli amici che andavo a trovare nelle sale del Circolo ve n’era uno
che mi dava insolitamente noia. Giorgio Albanese, soprannominato
l’«Assillo», per la sua tenacità nel far la corte alle donne quando se
ne incapricciava, era certo un damerino d’eleganza impeccabile, dai
capelli ben lisciati, lo sguardo vivace sotto l’occhialetto arrogante,
una bianchissima dentatura e qualcosa d’irritante nell’asciuttezza della
sua faccia rasa. Costui, che certo non ignorava i miei legami con Elena,
si era messo a farle una corte serrata. Già due volte aveva cercato di
avvicinarla per istrada, e di giorno in giorno le mandava all’albergo
grandi mazzi di fiori, biglietti con frasi galanti, oppure ninnoli,
dolci, profumerie, cose tutte che rimanevano in dono al portiere. Io,
poichè non vantavo sopra Elena che un diritto d’amicizia, dovevo
sopportare tutto ciò in silenzio, benchè me ne rodessi acerbamente.
Quando entrai al Circolo, si stava giocando una partita vivace. Camillo
Ainardi e Marco Sabbatini tenevano il banco, gli altri scommettevano
poste ragguardevoli. Siccome il gioco non ammette cordialità, fui
accolto con rapidi saluti e frettolosi cenni della mano.
A capo della tavola il vecchio conte Anghilieri leggeva l’_Osservatore
Romano_, con due paia d’occhiali, avanzando di tempo in tempo sul
tavoliere un modestissimo gettone, che regolarmente gli si raddoppiava.
Il Mariani, con le mani in saccoccia, attento come un bracco da fermo,
aspettava il buon colpo; Laganà di Rienzi bestemmiava grossolanamente ad
ogni posta perduta.
Entrai nella partita, contendendo il banco ai due fortunati banchieri, e
l’ottenni, mentre Fabio Capuano, il mio vecchio amico, si alzava pieno
di collera, esclamando:
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