L'amore che torna: romanzo - 10

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carità nell’aiutarli a trarsi fuori dalla rete.
— Per bacco! — egli rispose agitandosi: — un po’ ancora e si direbbe
ch’io vengo qui per saltarle al collo!
— Eh, quasi, mio buon Michele! Se dovessi raccontarvi tutte le mie
disgrazie, avreste certo un poco di tolleranza!
— Ma se non posso, le dico! Vuole che mi trovi a mal partito io per
lasciarle fare i suoi comodi?
— Oh... voi! Siete una volpe fina, voi! Il vostro pozzo non ha fondo e
volete farmi credere d’essere a secco. Dite piuttosto che, per il vostro
egoismo, non vi importa nulla di sacrificare i vecchi amici.
— Ma che parole son queste! Glieli ho dati o no questi denari? Ho
diritto o no di farmeli rendere? Uno che viene a farsi pagare, lei lo
chiama un egoista? Ma sa che lei ha certe trovate straordinarie!
— Là, là... non fingete di non comprendermi! So quel che dico e mi
risulta che state per entrare in Municipio. Allora, naturalmente...
— Ma chi le ha detto questo? — fece l’uomo, animandosi, con una smorfia
di compiacimento.
— Oh Dio, ne discorron tutti; è una cosa che tutti sanno; me ne avran
parlato in cento. Ed io, che avevo il torto di credervi un buon amico,
mi ero già prefisso di sostenere a spada tratta la vostra candidatura.
Voi che fate invece? Mentre state per conoscere il peso degli onori
pubblici, siccome può seccarvi che qualcuno dica: «Sì, è un uomo di
polso, lo si potrebbe mandare in alto... però ha in giro qualche
affaretto così e così...» voi preferite evitare sùbito le chiacchiere,
senza riguardi per nessuno. Ecco perchè vi dicevo che siete un egoista.
— Ma tutto questo cosa c’entra? Sono fantasie, caro signor conte! Che in
Municipio ci sia forse un posticino anche per me, può darsi, e credo
anzi che starebbe tanto bene a me come ad un altro...
— Non dico di no.
— Ma questo non ha niente a che vedere con gli affari miei propri. Se
domani mi eleggono, mi fanno un piacere; se non mi eleggono me ne fanno
due, perchè sono tanti grattacapi di meno... Le pare?
— Via, Michele, rispetto all’elezione, se le voci sono vere, non v’è più
alcun dubbio. Per conto mio seguiterò ad aiutarvi con tutte le mie forze
e voi, per venire ad una conclusione, mi farete il piacere di rinnovarmi
questa ipoteca per tre anni ancora.
— Impossibile! Impossibile. Non parliamone più.
— Lasciatemi dire... per tre anni ancora. E se a quel termine non vi
pagherò tutto, siamo intesi che voi farete il protesto e vi prenderete
la terra.
— Nemmeno per sogno! — interruppe il Rossengo eccitandosi.
— Ma, Dio buono, lasciatemi dire un momento! Cosa rischiate facendomi
questo favore? L’ipoteca non muore, la terra è lì, nessuno la tocca ed è
una garanzia che non corre pericolo. Se si tratta degli interessi,
aggiungeremo anche quelli, e nel frattempo io saprò mettere le cose a
posto con tutta mia pace. Andiamo, Rossengo! Se rifiutaste, dovrei
credere proprio che mi vogliate portar via la terra oggi, che ne avete
il mezzo, per il timore che un’occasione simile non vi càpiti più!
— Non è questo, non è questo! Gli è... — spiegò Michele con una lieve
titubanza — gli è che fra un anno, fra due, fra tre, si tornerebbe
sempre alla stessa canzone.
— Ma se vi dico di no!
— Caro signor conte, io so benissimo come stanno le cose. Non le vorrei
far torto, mi creda, ma noi ci teniamo al corrente per forza...
— Dunque mi credete un uomo rovinato? È questo che volete dire?
— Oh, questo, perdoni sa, lo si dice da un gran pezzo! Ma non è tutto
lì.
— Ah, non è tutto? Cosa c’è di nuovo? Se vi affermo che alla nuova
scadenza potrò pagare, vuol dire che so press’a poco dove procurarmi la
somma necessaria.
— Ecco il punto grave! — diss’egli con un ridere grossolano, esaminando
traverso la luce un altro bicchierino d’acquavite.
— Sembra che non vogliate credermi, caro Michele! — feci, senza mostrare
di adontarmene.
— Oh, Dio, signor conte, sono cose delicate, cose che non mi
riguardano... — egli osservò perplessamente.
— Non fa nulla; dite pure.
— Ma poi non se ne avrà per male, signor conte?
— Perchè avermene a male? Dite, dite pure.
— Ecco... — egli spiegò, cercando le parole. — Noi sapevamo da molto
tempo, anzi lei stesso me ne aveva parlato... che il signor conte, a
Roma, era fidanzato con una signorina ricchissima, e noi, naturalmente,
conoscendo come stanno le cose, si contava molto su questo, perchè la
terra insomma è sempre terra, e con le crisi agricole...
Egli fece una pausa, mi guardò con i suoi occhi penetranti e riprese:
— Invece ora è corsa voce che il matrimonio non si faccia più. In paese
ne parlano come di cosa certa, ed allora, mi capisce, siccome fra noi si
può parlar chiaro...
— Ah, si dice questo? — esclamai, simulando una grande maraviglia. —
Toh, questa mi piace!
Compresi di non aver salvezza fuori dalla menzogna, e seguitai con
sarcasmo:
— Vorreste dirmi chi è quell’anima pietosa la quale avrebbe raccontata
questa buona favola? E comica, sapete! Ma, già che siamo in argomento,
parliamone pure a viso aperto. Ditemi per lo meno da che parte giunse
fino a voi questa notizia sorprendente.
— Un po’ da tutte le parti, signor conte. Il mondo mormora, si finisce
con saper tutto e non si ricorda mai da che bocca sia venuto il primo
pettegolezzo. Il fatto è questo: dicono che per molte ragioni il
matrimonio non si faccia più.
— Sentiamo allora queste ragioni. In fede mia ne sono curioso.
L’uomo tentennò il capo, si grattò la fronte, poi disse:
— Chi ne racconta una, chi un’altra. La ragione prima sarebbe quella
bella signora che lei ha condotta qui da Roma. Bella davvero! È
francese, dica un po’?
— È ungherese, ma fa lo stesso.
— Per Dio, che creatura! che occhi!
— Quando l’avete veduta voi?
— A Fondi, alla Festa dei Fiori.
— Bene, ma vediamo un po’, Michele, e sia detto in confidenza, fra noi
uomini... Quand’eravate fidanzato, voi, non vi siete permesso proprio
nessun capriccio? Siate sincero, veh!
— Oh, certo, prima e dopo, quanto a questo!
— Dunque, non vorreste permettere anche a me la stessa cosa? Quand’un
uomo è alla vigilia di prender moglie, talvolta si sente opprimere da
una certa malinconìa... Bisogna farla passare. Insomma, lasciando gli
scherzi, dite pure in città che la notizia è falsa. Non voglio darvene
la prova, naturalmente, quantunque potrei anche sùbito mostrarvi le
ultime sue lettere. Ma informàtevi meglio. Ed inoltre, sia detto fra
noi, mettendo a parte ogni questione di amore o di non amore, vi sembra
mai possibile che un uomo ridotto a mal partito come son io trascuri per
un capriccio tutti quei milioni, con insieme una brava, una bella
ragazza che domanda solo di offrirmeli? Bisognerebbe esser pazzi, vi
pare?
— Mah... questo l’ho sempre detto anch’io! — rispose il Rossengo,
alzando le spalle.
— No, credétemi — proseguii, battendogli una mano su la spalla, — queste
sono malignità e gelosie di gente cattiva. Sentite: non fra un mese o
due, ma domani se volessi! Ed io, lo dico a voi, Michele, già che ne
parliamo, io vado un poco per le lunghe, perchè il matrimonio, come vi
dicevo, è sempre una catena.
Fosse la convinzione o l’effetto dell’acquavite che diminuiva sempre più
nella caraffa, l’uomo parve man mano arrendersi a’ miei ragionamenti.
— Lei con tutto il rispetto, è sempre stato un gran briccone, signor
Germano! — esclamò egli con allegra familiarità. — Se fossi certo che
lei sposa la Laurenzano... eh, allora!...
Ed i suoi occhi brilli splendevano di un luccicore intenso.
— Lo credo io! con quel po’ po’ d’interesse a cui mi avete prestato il
denaro... Bel mobile! Sopra una pietra da mulino, in vent’anni vi
divorereste anche Roma!
— Ah, si vuol lamentare adesso? — egli ribattè, vedendo le cose ora
sotto una luce più gaia. — Metta insieme il rischio....
— Che rischio!
— La paura....
— Che paura!
— La pazienza...
— Eh, via!... di pazienza ne ho dovuto aver io, e molta, per ottenere
questa miserabile proroga! Se foste un uomo generoso, direste sùbito:
Che mai! Al conte Guelfo tre anni farebbe schifo... Dieci gliene
accordo, se vuole.
— Ma io non ho promesso neanche un giorno! — egli esclamò con un riso
triviale, battendo i due grossi pugni su la tavola, che traballò.
— Su, Michele: chi ride consente.
— No: chi tace, — egli corresse, un po’ ebro.
— Chi beve, dico io! Su bevétene ancora un goccio! È acquavite sincera.
— Caro conte, lei vuol vedermi brillo perchè io rimetta le cambiali a
dormire. Ma ho la testa divisa in due parti, io! Se m’ubbriaco da una,
tutti i pensieri passano dall’altra. Il fatto è questo: se lei mi dà la
prova che il matrimonio non è andato a monte, le concedo un anno, se
no....
— Tre anni, ho detto.
— Impossibile; allora niente.
— Due?
— Mettiamo pure due, ma ci vuole questa prova.
— Sono più che disposto a darvela, però non saprei quale.
— Ecco: non ci sarebbe il mezzo di ottenere una riga solamente, sia pure
in carta semplice, ma di proprio pugno della fidanzata? Una specie di
garanzia privatissima da mettere insieme con le cambiali?
— Ma cosa dite mai, caro Michele? Dov’è il vostro buon senso, per Bacco!
— Ebbene, allora mi lasci far due righe di conti, — egli disse,
traendosi di tasca un taccuino. — Io le rispondo ben chiaro: se nel
prezzo dell’ipoteca ci stanno anche gli interessi, le concedo i due
anni, altrimenti non parliamone più.
— Ma, se non altro per pudore, non dovreste nemmeno pronunziare questa
parola «interessi» davanti a me! Vi ricordate la somma che ho avuta per
quelle cambiali?
Egli fece con le spalle un movimento ruvido.
— Non ricordo nulla, — disse. — La somma che conta è quella scritta qui.
— Va bene, va bene: continuate pure i vostri calcoli.
E per cinque minuti egli non fece che scarabocchiare cifre sbilenche.
— A stretto rigore, — concluse infine — mancherebbe qualcosa; ma fingerò
di non essermene accorto, perchè, non si sa mai, al mondo si può aver
bisogno di tutti ed un servigio reso al prossimo non è mai perduto.
— Ah, per Iddio! avete un coraggio sublime! — gli gridai ridendo. — In
ogni modo non importa, e vi ringrazio lo stesso. Dunque siamo intesi:
parola di Rossengo...
— Parola di re! — proclamò l’usuraio, tendendomi la mano un po’ tremula.
— Ancora un ultimo sorso, — proposi, ricolmando i bicchierini.
— Volentieri: quest’acquavite mi facilita la digestione.
— Allora ve ne manderò qualche bottiglia a casa, e intanto alla salute
vostra, Michele!
— Grazie; alla sua, signor conte!
Bevve, poi gli venne un pensiero.
— E alla sposa di Roma! — soggiunse.
— Alla sposa di Roma! — ripetei senza esitare, con una incoscienza che
stupiva me stesso.
Finalmente il Rossengo si levò; era quasi del tutto brillo, aveva le
guance rosse, il fiato greve. Ancora, su la soglia, si volse per
ripetermi:
— Dica, signor conte, non si dimentichi poi quelle certe bottiglie...
— Sì, le bottiglie d’acquavite? Siamo intesi, le avrete. A rivederci,
Michele.
E uscì.


VII.

Una lettera di Fabio mi giunse alcuni giorni dopo, in termini brevi,
senza un qualsiasi accenno intorno all’accaduto.
————
«Io ti rendo la parola di Edoarda Laurenzano, — egli scriveva. — Prego
il cielo che non ti faccia mai conoscere il rimorso dell’azione
compiuta, e per il male che hai dato possa venirti una lunga felicità. È
questo forse il voto e la speranza della donna che abbandoni, è questo
l’augurio più sincero dell’amico di tanti anni, che non ti dimentica in
quest’ora tristissima della tua vita... Conserva una memoria indulgente
per la creatura che ti ha troppo amato e sconterà in silenzio il suo
destino irreparabile; fa del bene a molte anime per quella che hai
dovuto sacrificare. Noi ti seguiremo col pensiero, dovunque tu vada e
qualsiasi cosa tu faccia, come una volta e sempre, desiderosi anche di
soccorrerti se mai ti sorprenda un pericolo contro il quale tu non possa
lottare.
Resta lontano da Roma, per qualche tempo almeno, e ricordami e scrivimi
sempre.»
————
Questa lettera mi parve un’umiliazione, e nell’attimo stesso in cui
finalmente mi vedevo libero, un senso quasi di sgomento, di solitudine
m’invase. Mi parve per un istante che mi avessero lasciato solo, di
fronte ad un precipizio, a mille precipizi continui, dove sarei caduto
inevitabilmente come una preda oscura.
Una immagine fissa mi teneva la mente.
Il portone, quel gran portone marmoreo del palazzo Laurenzano, casa di
principi una volta, ove nella corte scalpitavano i cavalli e facevano
ala i domestici gallonati, quel portone che tante volte avevo passato
quasi ormai da padrone, ora mi si chiudeva in faccia ostinatamente, come
ad un servo scacciato. E insieme tutte l’altre soglie ch’ero solito
varcare si chiudevano a lor volta, quasi per dividermi da una gente alla
quale non appartenessi più. In quella società ov’ero entrato
splendidamente, sotto l’auge del mio gran nome e del mio denaro, nessuno
ignorava i miei dissesti, le noie che mi davano i creditori e i pesi che
si andavano accumulando sui pochi avanzi delle mie campagne. Ciò che mi
salvava dalla decadenza e dal disprezzo altrui non era infatti che il
mio fidanzamento con Edoarda. Anzi al pubblico piaceva, come in genere
piacciono, tutte le cose teatralmente immortali, questa mia figura di
scialacquatore spensierato, che, al termine delle sue scioperatezze,
trovava una ereditiera innamorata e otteneva di sposarla per
ricominciare il suo fasto. Insomma dovevo solamente alla mia sposa
futura se ancora le belle dame romane mi serbavano qualche sorriso
procace nell’iniziarmi alle intimità profumate dei loro salotti, se gli
usurai mi davano denaro, se i negozi mi vendevano a credito, se alle
caccie potevo cavalcare i migliori cavalli, giocare spensieratamente al
Circolo, e persino fra le donne galanti godere di molte predilezioni; il
che sembrerebbe forse paradossale, se anche in questo, come in tutti gli
altri rami dell’eleganza e del piacere, non dominasse una divinità molto
frivola, molto capricciosa: la moda.
Nella così detta «grande società» v’è un numero infinito d’intrusi:
quelli che vennero dal nulla e quelli che si ridussero al nulla. Io
stavo per contare tra questi ultimi e v’ero tollerato nel modo più
cortese, perchè possedevo il mezzo di ripristinare al mio nome la sua
necessaria grandezza. Invece, da un momento all’altro e per mia volontà,
il che forse appariva più grave — rinunziavo a questo mezzo, lanciavo
quasi una sfida od un rifiuto alla mia casta e mi ritraevo in disparte
da essa, disdegnandone le ambizioni per l’amore d’una donna straniera.
Di questo non avrei potuto certo sperare il perdono. L’usuraio di
Terracina non sarebbe stato in ciò per nulla diverso dalle dame di Roma,
le quali sognavano a palazzo Materdomini una sala di più dove danzare,
dove amoreggiare, dove splendere, nè dagli amici dei teatri, dei Circoli
e degli ippodromi, che certo non avevano dimenticate le mie liberalità
di un tempo. E costoro, indistintamente, oltrechè non perdonarmi,
avrebbero anche vendicate le loro speranze deluse, insieme con le
antiche invidie. Essi certo non avrebbero giudicata l’azione mia secondo
il suo giusto valore, nè con indulgenza, nè con rispetto. Costoro
avrebbero riso. E mi pareva di vedere molte bocche ridere, mi pareva di
udire i maligni commenti. Oh, mai come in quell’ora mi sembrò di
conoscere il mondo in cui ero vissuto, e mai con maggior tristezza
rimpiansi la mia vita sprecata in mille vanità passeggere, lembo a
lembo, fra le gioie più sterili!...
Così pensando, imparavo a disprezzarmi: un sentimento questo che non
avevo conosciuto ancora.
Edoarda invece mi appariva come una immagine del tutto lontana, perduta
fra le memorie di un’altra vita, pressochè scomparsa. I miei nervi si
erano talmente avvezzi a ribellarsi contro di lei, che ora, d’un tratto,
si sentivano come rappacificati.
Ella era uscita dal mio cuore senza lasciarvi un solco, senza imprimervi
una memoria, senza condannarmi ad un qualsiasi rimpianto.
Elena invece m’inebbriava del suo fresco amore. Ogni giorno mi pareva di
scendere più profondamente nel mistero della sua dolce anima.
— Non puoi credere — mi diceva spesso, — come adoro questa campagna,
questa casa ed i giorni che passiamo qui.
Talvolta, la sera, ella si lasciava prendere da una specie di
malinconia; parlava con voce affaticata, senza guardarmi, quasi perduta
in un sogno, e mi diceva:
— No, tu non puoi comprendermi, Germano. Vi sono troppe cose che tu non
puoi comprendere. Vedi: quando si è trascorsa una vita nomade come la
mia, quando si è stata una donna senza legge e senza meta, di paese in
paese, tra una folla d’estranei, in balìa di tutte le sorti, quando ci
si è trovati fin dalla più lontana giovinezza senza una famiglia nè un
tetto nè un amore nè una felicità qualsiasi nella vita, tu non puoi
comprendere come di tanto in tanto si provi un bisogno infinito di
riposare, di vivere più presso alla natura, a questa grande madre che
rende la gioventù e la purezza dell’anima.
E allora una grave ombra le scendeva su la fronte china; le brillava tra
le ciglia una lacrima silenziosa.
— Io — seguitava — son tra quelle anime che non possono mai ambire al
destino degli altri, ma devono perpetuamente andar oltre, andar lontano,
andar via, come il vento, come la nebbia, come il fiume, come tutte le
cose che passano... E vi sono migliaia d’anime destinate a questo
inutile pellegrinaggio.
Così l’amore nostro si velava insieme d’incertezza e di ombre.
L’estate passò; venne l’autunno, con le sue feste di pampini, con le sue
nebbie ottobrali. Le sere si fecero fredde, i grossi tizzoni arsero
scoppiettando nel grande camino di Torre Guelfa, ove s’erano scaldati
pigramente, nelle serate cupe del Medio Evo, i miei padri lontani.
E venne anche la noia, l’insidiosa nemica di tutti gli amori, che
cammina insieme con la solitudine, con il silenzio, con la polvere,
nelle grandi case abbandonate. L’inverno, tra quelle fosche mura,
sarebbe stato pieno di malinconia. Che risolvere? Non avevamo denaro per
andarcene al Cairo, in Riviera, od altrove, tra la gente gaia. Bisognava
nondimeno prendere una decisione seria, perchè la nostra vita era tutta
in balìa d’un precario destino.
Le mie scarse rendite eran quasi del tutto assorbite dagli interessi di
alcuni debiti gravosi, ed esaurito il credito, non mi rimaneva che
vender Torre Guelfa con le campagne circostanti, e contentarmi di una
meschinissima vita. Sarebbe stato così l’ultimo colpo dato nel tronco
secolare della mia casa, il dividermi da tutte le fierezze ch’erano
state il mio vanto, il rinunziare per sempre alla speranza di un secondo
apogeo. No, questo mai! Piuttosto morirvi, su quel lembo di terra ch’era
stato un feudo immenso, e non vedere altra gente all’ombra di quella
vecchia Torre, dove, dal culmine, si guardava il mare. Fosca, selvaggia,
nera di feritoie oblique, come un tragico avanzo di battaglie antiche,
portava in alto il grande scudo marmoreo dei Materdomini, con il bel
motto scolpito: _Placet, si vis, Domine_. Ed ognuno dei nati nella mia
gente doveva, per eredità di sangue, morire prima di vederne la rovina:
ognuno doveva credere in quel motto come in una fede suprema.
Tutte le avventure mi convenivano, tranne quella che mi avesse a
dividere dalla memoria del mio casato.
Lunghe sere noi passammo accanto al fuoco, ragionando su l’opportunità
migliore.
Elena mi diceva:
— Non pensare a me. Ho finalmente presa la mia risoluzione: andremo a
Parigi, diverrò attrice, guadagnerò molto denaro.
Questo era sempre il suo grande sogno. Me ne aveva parlato le prime
volte con titubanza, poi con fermezza, nè io credevo di poter ostacolare
il suo proposito, perchè non avevo alcun avvenire da offrirle. Io
medesimo, giunto verso i trentaquattr’anni e perdute ormai quelle
temerarie illusioni che rendon facile ogni strada sul fiorire della
giovinezza, mi trovavo nella dura necessità di ricominciare la mia vita,
con altrettanta parsimonia quanto ero stato prodigo e spensierato, uscir
dalla lunga pigrizia per sottomettermi ad un qualsiasi mestiere lucroso,
mentre il mio solo studio fino a quel tempo non era stato che di godere
la maggior allegrezza nell’ora fugace.
Il passo in fondo non era facile nè breve. Poi, quante fierezze da
scordare, quanti altari da cui scendere! Mi avveniva di rimanere per
lunghe ore perplesso e trasognato, pensando al mio tempo trascorso,
quando la sorte, con munificenza incalcolabile, mi aveva dato in
possesso i migliori suoi doni ed offerta la possibilità di ambire a
qualsiasi destino. Invece quanta cenere, quanto inutile spreco! E
rivedevo le mie terre, cento volte più vaste che non si possa con uno
sguardo abbracciare, pezzo a pezzo vendute, o cadute in possesso
dell’usuraio, che ora, quasi per insidiarmi fin nell’ultimo riparo,
stendeva la mano rapace su le campagne intorno a Torre Guelfa, pronto
forse un giorno a cacciarmi dal mio tetto, per condurre la sua vita
opulenta e laida in quel feudo che aveva la sua storia scritta a lettere
d’oro nelle cronache di Roma.
Allora m’appigliai ad una risoluzione improvvisa.
Feci chiudere la casa di Roma, vendetti una piccola terra, vicino a
quella di Monte San Biagio, per avere il denaro che mi urgeva, e
decidemmo di andar a Parigi, dove la sorte ci avrebbe forse aiutati.
Nella grande città di gioia, libera e maravigliosa, dove tutte le
passioni umane sembrano accendersi d’un più selvaggio ardore, ella
voleva essere attrice, io volevo con ogni mezzo affrettare il compiersi
della mia sorte. Forse intraprendere un commercio, forse affidarmi
all’alea della speculazione, o forse, con uno stratagemma usato a me
stesso, volevo semplicemente arretrare d’un passo davanti allo spettro
della rovina imminente.
Avevo ancora una fede cieca nella clemenza della fortuna, e partendo
guardavo con occhi sereni, su la torre di Torre Guelfa, il bel motto
scolpito nello scudo. E il motto diceva:
_Placet, si vis, Domine._


I

A Parigi, dopo alcune settimane trascorse all’albergo, affittammo nel
quartiere dell’«Etoile» un grazioso appartamento, che si apriva su la
via dell’«Arc de Triomphe». La nostra vita, nei primi tempi, fu tutta
spensieratezza e gioia. Di giorno, cavalcate al Bosco, passeggiate in
vettura, soste negli ippodromi; la sera balli e teatri, visite ai
ritrovi mondani, fra quella turba cosmopolita che versa
inconsideratamente nella centrica Parigi l’oro guadagnato ai quattro
canti della terra, e tutti i giorni si muta, più festevole e più pazza,
dando l’idea d’una Babele novissima, dove gli uomini più diversi
convengano insieme ad una perpetua gozzoviglia.
Durò così per oltre un mese, fin quando Elena si accinse a frequentare
una scuola drammatica. In quei tempi una grande attrice, stanca di
calcar le scene, si era data all’insegnamento, aprendo una scuola di
recitazione dove accoglieva soltanto alunne che fossero nuove al teatro,
ed alle migliori di esse prometteva un adito immediato su le più grandi
scene parigine.
Tosto Elena, entrata in favore della maestra, cominciò a frequentar
assiduamente la scuola, e si pose all’opera con tanto amore, che ogni
altro pensiero fu escluso dalla sua mente. Questo esempio di serena
volontà umiliava un poco la mia naturale pigrizia, che aveva, come sola
forza, una fiducia illimitata nel destino.
Talora mi assalivano i più tristi pensieri, vedendo venir meno il denaro
pervenutomi dall’ultima vendita delle mie terre; ma nello stesso tempo
mi sembrava impossibile di dover giungere alla miseria, quasichè, dietro
le mie spalle, invisibile, stesse a guardia un genio tutelare, che alla
fine, in un modo qualsiasi, mi avrebbe ancora soccorso.
A poco a poco la mia vita si era fatta monotona. Elena frequentava le
sue lezioni, la mattina ed il pomeriggio; di sera per lo più, vinta
dalla stanchezza, non amava uscire. Così mi rimanevano molte ore libere;
mi alzavo tardi, andavo al Bosco o vagabondavo per le strade, guardando
i negozi, gli equipaggi, la gente, invidiando tutti, amareggiandomi di
tutto. Le idee più torbide si affacciavano al mio pensiero; Elena stessa
mi pareva mutata. Oh, la primavera di Torre Guelfa, come già mi sembrava
lontana!
E talvolta guardavo Elena con un senso d’involontario sospetto. Il suo
passo, i suoi gesti, anche la sua voce, forse per l’abitudine contratta
nell’esercizio scenico, non avevano più quella semplicità fresca e nuova
dei primi tempi, che ricordavo come in un sogno. Invece pensavo che
presto avrebbe affrontata la scena; la luce della ribalta avrebbe
offerto a mille sguardi estranei la sua desiderata bellezza; i giornali
sarebbero stati pieni del suo nome, cartelli e manifesti l’avrebbero
dappertutto raffigurata, e di lei, nelle cene galanti, si sarebbe
discorso con spensierata licenza. Poi l’applauso, la possente ibrida
voce delle tumultuose platee, sarebbe salito fino a lei, fino ad
avvolgerla come in un álito di desiderio, come in una vampa di
corruzione... E perchè dunque, un giorno, finalmente, non si sarebbe
anch’ella stancata di vivere in disparte, per un uomo che più nulla
poteva offrirle, neanche la gioia di rifugiarsi nella spensieratezza
dell’amore, se anche questo mio grande amore si oscurava ormai di ombre
angosciose?
Così, quand’ella mi parlava con ardore de’ suoi rapidi progressi, de’
suoi futuri trionfi, un sorriso amaro passava su la mia bocca e provavo
nell’anima un senso d’indefinibile paura. Que’ suoi racconti avvenivano
per lo più durante l’ora della colazione. Io silenzioso, ed ella gaia,
loquace, mi narrava tutti gli avvenimenti più futili della scuola, e mi
aveva così ben descritte le sue compagne, che ad una ad una quasi mi
pareva di conoscerle tutte. Verso le cinque le andavo incontro, ed era
questa l’ora migliore della mia giornata, poichè ci recavamo a far le
piccole spese per la nostra casa, od a bere il tè nei ritrovi eleganti,
od a passeggiare insieme fino allo scendere della sera. In quei momenti
mi pareva ch’ella fosse ancor mia; per lei mi struggeva ora un amor
triste e taciturno, che il dubbio d’una lontana rinunzia tormentava di
oscure gelosie. Quanto più la vedevo salire, tranquilla e certa, per il
suo cammino di luce, tanto più mi sentivo cadere dentro un abisso di
tenebre, dal quale avrei cercato invano di riafferrare la sua bella
immagine fuggitiva.
Così qualche volta il mio amore diveniva crudele, sospettoso, violento:
mi piaceva intiepidir la sua fede, smorzare le sue speranze, ferirla
nell’orgoglio, per non lasciarle comprendere in quali angustie si
dibattesse il mio spirito. Ella per contro era docile come non mai; si
arrendeva indulgente alle ubbìe del mio carattere, perdonava l’asprezza
della mia voce, calmava con miti sorrisi le mie repentine gelosie; ma la
sua mitezza, la sua condiscendenza, la calma di quel sorriso indulgente,
non erano per me che altrettante ferite, poichè infatti la sentivo
troppo forte, e ciò mi dava ombra.
Ogni giorno, vedendola uscire, mi pareva ch’ella se ne andasse a portar
lontano, fra estranei, una parte di sè stessa, una parte che non mi
avrebbe restituita mai più.
Quest’amante singolare sapeva darmi ogni giorno una gioia ed un’angoscia
nuove, perpetuando in me il dubbio, che sta nell’amore come il rimorso
nell’anima.
Spesso mi domandava quale risoluzione avessi presa per l’avvenire,
incitandomi a non frapporre indugi dinanzi al tempo che fuggiva. E mi
noverava molte cose alle quali avrei potuto dedicare i miei giorni, con
una visione così pratica e semplice del lavoro che spesso ne rimanevo
stupito.
— Tu non puoi figurarti, — le rispondevo, — che sforzo terribile sia per
un uomo della mia natura quello di ricominciar la vita, e ricominciarla
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