L'amore che torna: romanzo - 11

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per forza, senza un’attitudine, senza un vero ideale.
— Certo, lo comprendo. Ma, se questo è necessario?
Allora mi diffondevo in lunghi ragionamenti, che peccavano dalla base,
appunto perchè io stesso ne intravvedevo la falsità.
— Lavorare, tu dici? Ebbene, vediamo. Una volta dipingevo infatti, e con
una certa valentìa. Ma son trascorsi tanti anni! Vuoi che ricominci ora?
Dopo aver perduto il tempo nel quale forse mi sarei fatto un’artista, e
quando a Parigi vi sono molti pittori di grande ingegno che appena si
guadagnano il pane? Vuoi che tenti un commercio, un’industria qualsiasi?
Mi mancano per ciò le conoscenze più elementari. Tu mi dirai che si
possono imparare. Ed è vero; ma in quanto tempo? E i capitali? Dopo
tutto, è inutile!... Credi, Elena, un Guelfo non apre bottega.
— E con questi ragionamenti falsi ti condanni ad una passività oziosa,
mentre invece dovresti pensare che a tutto v’è rimedio.
— Infatti mi rimane ancora una strada. Conosco a Parigi molte persone
autorevoli; per mezzo loro mi farò presentare in Borsa, otterrò credito,
speculerò.
— Ma, insomma, sono mesi ormai che accarezzi questa idea senza mai
decidere nulla! Che aspetti ancora?
— Non darti pensiero, Elena; oggi o domani comincerò.
Oggi o domani... E intanto le settimane passavano, il denaro dileguava,
l’inettitudine della mia vita si faceva più grande. In verità un giorno,
incontrando Gualtiero Alessi, agente conosciutissimo alla Borsa di
Parigi, ch’egli frequentava da vent’anni, gli avevo parlato delle mie
risoluzioni, ma così distrattamente ch’egli pure mi rispose in modo
assai vago:
— Bene, quando vorrai.... Vieni da me. Combineremo.
E tutto finì su queste parole. Che fare? Non ero avvezzo a chiedere; le
cose più semplici mi parevano dure umiliazioni.
Così, fra vani pensieri e lunghe ore d’inerzia, scorreva la mia vita
novella, mentre di giorno in giorno andava in me nascendo un disprezzo
immenso di me stesso. Avevo presa l’abitudine di uscir la sera, quando
Elena si coricava di buon’ora, e frequentavo alcuni amici d’altri tempi,
seguendoli senza voglia nelle loro scorrerìe per la città del piacere.
Fra questi, mi avvenne una sera d’incontrare un uomo che tempo addietro
mi aveva molto divertito ed incuriosito.
Si chiamava Elia d’Hermòs, era d’origine albanese, o così almeno diceva,
poichè la sua vita era tutta un mistero.
Oltre la soglia dei quarant’anni, alto e magro, con una fina espressione
di sarcasmo negli occhi arguti, il mento adorno d’una leggera barba
color di rame, i capelli biondi, grigi su le tempie, l’andatura
dinoccolata, le mosse un po’ feline, mostrando della sua persona e de’
suoi abiti una cura soverchia, quest’uomo era certo fra que’ molti
personaggi ambigui che Parigi alimenta nel suo grembo, e vorrei dir nel
suo covo, riserbando un campo vastissimo alle lor arti oscure. Parlava
male moltissime lingue, sapeva un po’ di tutto senza nulla conoscere
profondamente, aveva percorso il mondo intero e vissuto in ogni paese,
conservando di tutti i popoli un segno caratteristico, senza palesemente
appartenere ad alcuno.
Il suo discorso era gaio, paradossale, volubile, quantunque in ogni
parola si tradisse la profonda esperienza ch’egli aveva dell’uomo e
delle sue passioni, della vita e de’ suoi casi. Di lui si parlava molto
come di un avventuriero, senz’attribuirgli alcun fatto preciso, e però
lo frequentavano gli uomini del miglior ceto, faceva parte d’un Circolo
di buon nome, qualche volta lo si vedeva cavalcare al Bosco in compagnia
di signore parigine o forestiere. Prediletto nella società galante,
spendeva senza parsimonia, con aristocratica eleganza: doveva essere
terribilmente cinico dietro la sua maschera d’impeccabile gran signore.
Elia d’Hermòs, mi rammentava un poco il tipo di Fabio Capuano, e forse
questa fu la prima ragione della nostra dimestichezza.
Molte sue frasi, molti suoi motti arguti, eran divenuti proverbiali su
la bocca degli amici, ed i suoi concetti morali non erano precisamente
quelli che avrebbe potuto sottoscrivere un padre Labourdonnais. Ma egli
possedeva in massimo grado quel bel dono degli avventurieri, e cioè la
simpatia suggestiva, il coraggio sfacciato di professarsi apertamente
per un essere amorale, con l’abilità insieme di ravvolgere la propria
persona in un velo di mistero seducente, e di trattar la vita come una
burla, cosa che piace ai meno forti.
Parigi si rammentava di averlo veduto, molti anni addietro, avere un
duello terribile con un addetto diplomatico di gran famiglia, il quale
era rimasto sul terreno con la gola trafitta. E Parigi non dimentica mai
un bel gesto.
Altri sapevan qualcosa intorno all’oscura amicizia che fino alla morte
professò per lui la famosa Duchessa di Lezières, questa Saffo
impenitente, che non si peritò di chiudere la sua magnifica vita di
depravazione con una frase rimasta celebre:
— «Fra me e mio figlio abbiamo possedute le più belle donne di Francia.»
Così pure non lo danneggiò l’esser stato il confidente e quasi l’«alter
ego» di Casimir Pleyel, il ministro speculatore, che fallì con un
disavanzo di parecchi milioni e chiuse gli occhi al penitenziario.
L’essere stato il suo braccio destro non gli nocque nell’opinione di
alcuno, e neanche del Codice, perchè, all’imminenza dello scandalo,
subodorando il vento infido, egli ebbe l’accortezza di provocare una
rottura clamorosa con il suo complice e la prudenza di allontanarsi
proprio al momento in cui si scatenavano le ire dei colpiti.
Ora i bei tempi erano passati; la Moda, quella bizzarra divinità cui
Parigi pagana avrebbe eretto il più gran tempio dell’orbe, si era un
poco distolta da lui, trovandolo forse invecchiato. Lo lasciava
prosperare tranquillamente, senza ingerirsi de’ fatti suoi, come un
trastullo d’altri tempi che ancora si tolleri per riconoscenza.
C’incontrammo una sera, in uno di quei balli di Montmartre dove impazza
il perpetuo carnevale dei gaudenti, e sebbene in passato la nostra
conoscenza non fosse stata gran che intima nè duratura, egli mi ravvisò
prontamente e venne a parlarmi con disinvolta cortesia.
— Vi sapevo a Parigi, — mi disse, — poichè vi ho veduto in teatro poche
sere or sono. Non mancano da noi le belle donne, ma voi ne avete
condotta una in fede mia rarissima! Vostra moglie forse?
— No, — risposi evasivamente — non è mia moglie. E voi, sempre a Parigi.
— Ormai mi ci son quasi radicato. Viaggio di tanto in tanto, ma poi
sento la nostalgia di questa furiosa baraonda, e vi ritorno. Dunque cosa
fate di nuovo?
— Bah?... vegeto semplicemente! Mi sento invecchiare con delizia e
guardo gli altri vivere.
— Non dev’essere una occupazione faticosa!
— No, di fatti, ma interessante. C’è in tutto e in tutti un lato comico;
il poterlo scoprire è cosa che diverte assai.
— Tuttavia non rinunziate ai piaceri di una volta, come vedo.
— La verità è questa: soffro d’insonnia, non mi riesce di chiuder occhio
prima dell’alba, ed allora, due o tre volte per settimana, seguendo
un’abitudine inveterata, giro qua e là per la Parigi notturna,
continuando a trovar poco interessante questa maniera di vivere, che in
fondo è stata sempre la mia.
Si bevve una coppa di Sciampagna, indi uscimmo insieme. Mi stupiva un
poco l’interesse ch’egli pareva prendere a tutte le cose mie, ponendomi,
senza farne le viste, una infinità di domande accorte. Parlava molto,
parlava troppo, ma dietro i suoi discorsi briosi era sempre un filo
recondito assai difficile a seguire. Non credendo necessario
nasconderlo, raccontai ch’Elena voleva darsi al teatro e frequentava la
scuola dell’attrice Grévier.
— Oh, — mi disse, — io conosco assai bene la Grévier! — (E chi non
conosceva egli dunque?) — Se volete, potrò interessarmi un poco a questa
persona che vi è cara.
Accettai sommariamente, come si accetta sempre. E poichè, ogni volta che
nel discorrere si citava il nome di una persona, egli soleva tesserne la
biografia, dovetti conoscere anche quella di Jeanne Grévier.
— Per essere figlia d’un panettiere, — cominciò il d’Hermòs, — ha fatto
una bella carriera! Sapete: la Francia democratica è il vero paese dove
si può dire che la luce venga dal basso. A vent’anni ebbe un processo,
perchè sorpresa dalla Polizia in un teatro clandestino, dove agiva
interamente nuda, rappresentando certe scene plastiche d’un verismo
inaudito. Vi sono anche oggi questi teatri. Se vorrete vi condurrò. Ma,
tornando alla Grévier, quel processo fu la sua fortuna. Dal teatro
plastico alla Porte Saint Martin, alla Renaissance, al Gymnase, alla
Comédie Française, fu per lei tutto un volo, ed un bel volo, con in
mezzo qualche avventura di un sapore non comune. Si sa, per esempio,
ch’ella passò una intera notte in camicia, chiusa fuori su la terrazza
di Gauthier Botrel, questo ardente menestrello meridionale che aveva un
suo particolar modo di farsi amare dalle donne e di farsene pagare i
debiti. Nel suo camerino v’era un divano celebre, sul quale andò a
sedere tutto l’Almanacco di Gotha, e più celebri ancora furono i suoi
tre gatti soriani, che dormivano accovacciati ai piedi della sua coltre,
anche nelle notti di ricevimento.
— Voi siete un terribile iconoclasta, mio caro d’Hermòs! — esclamai
ridendo. — Sotto la vostra implacabile scure, beato chi salva la testa!
— Credete veramente che valga la pena di lasciar in piedi gl’idoli,
quand’essi non sono per lo più che abili ciurmatori della buona fede
altrui? Tutta la vita non ho fatto che osservare; adesso, qualche volta,
mi credo lecito un giudizio. Poi sappiate questo: l’ammirazione che si
ha per altri è una debolezza che si riconosce in noi.
— Può darsi. Ciò che voi dite ha sempre il dono di parer vero.
— E tanto basta. Il vero ed il falso non sono che apparenze affatto
superficiali. La nostra vita moderna è in fondo una convenzione messa in
vigore da uomini rapaci e timidi. Si traversa un’epoca di abbruttimento,
si fa uno sforzo enorme per dare alla vita quei pregi che in altri tempi
la vita offriva spontaneamente. L’umanità è grottesca perchè si dà
l’aria di aver superata la propria natura ed ostenta la convinzione di
stare manipolandosi qualche prodigioso destino. Invece non si accorge
ch’essa è ciecamente vittima delle stesse fatalità, degli stessi
pregiudizi e delle stesse ciurmerie di una volta.
— Che poca stima nutrite per il vostro prossimo, mio grande filosofo!
— Il prossimo!... Ebbene se io vi dicessi che son sempre vissuto a gabbo
e ad ufo di questo mio famoso prossimo, e che, pure maltrattandolo,
sfruttandolo, deridendolo in mille guise, l’ho trovato sempre d’una
bestialità così plateale da non meritarsi nemmeno la mia compassione?
Questo prossimo di cui parlate è appunto la forza che impedisce all’uomo
l’uso della sua piena libertà; è l’anonimo che ne giudica le azioni, ne
crea la fama, ne insidia la pace, con una curiosità ed una malignità
così perfide, quanta non potrebbe mettere in opera il più scaltro agente
di polizia sguinzagliato alle calcagna d’un reo. E di questo animale
dannoso, che ha tutti gli istinti spregevoli della bestia umana senza
possederne il più mediocre merito, perchè mai si dovrebbe avere pietà?
— Forse perchè noi tutti, a nostra volta, siamo esseri deboli e possiamo
un giorno o l’altro aver bisogno del compatimento altrui. Tutto nella
vita è un dare ed un rendere.
— Non siamo ancor abbastanza amici perch’io possa dirvi il mio parere su
questi argomenti. Ma lo saremo un giorno, spero, ed intanto seguite il
mio consiglio: prendete tutto quello che potete, moralmente e
materialmente; non rinunziate a nulla di quanto potrete raccogliere,
perchè all’ora del bisogno si ritrovano solamente le beffe. La vita
dell’uomo è una cambiale che scade ogni giorno: o la si esige nelle
ventiquattr’ore, o il domani è carta straccia.
— Però, visto che ragioniamo di cose gravi, — osservai — qualche volta
può esservi di mezzo anche la coscienza.
— Ebbene, la si costringe ad avere buon senso. Nell’uomo forte la
coscienza non è altro che l’esecutrice della sua volontà.
— Oh, mio caro, so che parlate per burla!
— No, davvero! E voi stesso, come tutti, almeno cento volte nella nostra
vita sarete pur venuto a qualche transazione con la vostra coscienza,
senza darvene forse un conto esatto; mentre io, fin dal principio, ebbi
il coraggio di rassegnarmi a queste necessità inevitabili.
— Voi parlate di transazioni... Oh, Dio, certo... E chi non ha qualche
rimprovero a farsi?
— Io, mio buon amico! io stesso. E per la ragione semplicissima che sono
sempre stato il giudice sereno di me stesso. La mia coscienza è di una
mansuetudine senza pari, poichè ha dovuto soggiacere anch’essa ad una
legge ben più rigida e ben più forte, che si chiama volontà. Poi,
sentite: le vie di mezzo sono sempre le peggiori; al mondo non vi sono
che due maniere di vivere: onestamente o disonestamente. Ma in entrambi
i casi bisogna seguire la propria strada con fiducia e con coraggio,
tanto più che fra le due v’è una sola differenza: la prima è noiosa,
l’altra pericolosa. L’essenziale è di professare un principio, poichè
l’uomo indeciso fra ciò che si chiama, se volete, la virtù, e, se
volete, la frode, corre dirittamente incontro ai danni dell’una e
dell’altra, senz’avere di nessuna i vantaggi. Io, per esempio, non sono
in dubbio mai, perchè ho dato alla mia coscienza la forza di accettarmi
e di approvarmi qual sono.
Egli faceva queste ambigue professioni di fede in un modo così naturale,
ch’era veramente impossibile non ammirarlo e quasi quasi non dargli
ragione.
— Trovo — seguitò, — che il più ragionevole fra i diritti dell’uomo è
quello di sfruttare l’imbecillità de’ suoi simili, poichè, nella lotta
per la vita, o si è pecore o si è leoni. Sentitemi bene: il prete, il
ladro, il questore, l’usuraio, il mezzano, lo Stato e la classe
innumerevole degli avventurieri, ecco, in tutte l’epoche, presso tutti i
popoli, i leoni. E il rimanente, pecore, pecore, pecore!... carne da
macello, bestie da soma, per sempre!
Si era fermato al bivio di due strade, sotto la luce obliqua d’un
lampione; la sua bocca schernevole sorrideva di un sorriso
incomprensibile, i suoi occhi si fissavan ne’ miei con uno sguardo
penetrante. Non potevo ben comprendere se avesse parlato seriamente o
per burla; sopra tutto non potevo comprendere lo scopo di simili
discorsi, fatti quasi ad un estraneo, senza un fine palese.
— Dunque non approvate la mia logica? — soggiunse ridendo.
— In genere — dissi, — i filosofi vanno accettati senza discuterli,
perchè a modo loro, han tutti ragione.
— Ma voi di che scuola siete?
— Oh, io non mi sono mai data la pena di avere una scuola! Sono vissuto
e vivo secondo il mio piacere.
— Un empirico dunque?
— Ecco, se così vi piace.
Su queste parole ci lasciammo, per quella sera, con la promessa di
rivederci presto. Ed infatti, un poco per noia della mia solitudine, un
poco per curiosità, cominciai con praticarlo assiduamente. Ormai non
cercavo nemmeno più di spiegarmi la ragione per la quale il d’Hermòs,
che aveva un sì gran numero di conoscenze, dedicasse a me gran parte di
quel tempo che pur doveva essergli prezioso, nè potevo certo supporre
che una semplice simpatia fosse la causa di una tale assiduità. Nel
medesimo tempo mi andavo accorgendo ch’egli sapeva di me e della mia
vita assai più cose ch’io non desiderassi. Un giorno s’invitò a pranzo
da noi, prima che avessi nemmeno pensato a farlo; dubitai allora di
vederlo corteggiar Elena, offrendomi con questo la spiegazione logica
delle sue troppe cortesie; ma invece non fu così. Davanti ad Elena era
tutt’altro uomo: garbato, galante, pieno di spirito e di brio.
Nondimeno Elena provò subito contro il d’Hermòs un’antipatia così piena
di sospetto che mi parve persino ingiusta.
— Quell’uomo — ella disse, — ha qualcosa in sè che m’ispira diffidenza e
timore. Non mi stupirei se un giorno o l’altro egli riuscisse a divenire
il tuo cattivo genio.
— Mi credi tanto fanciullo ch’io possa temere le cattive amicizie?
— Non si sa mai, Germano. Costoro son talvolta uomini pericolosi, molto
pericolosi!... Stanne in guardia.
— E che ne sai tu?
— Io?... nulla. Una semplice intuizione.
E l’eterna sfinge impassibile scendeva su la sua faccia così bella,
ov’erano i segni di tutte le passioni, di tutte le insensibilità.
Inutile ormai voler conoscere il fondo di quell’anima: ella sfuggiva,
sfuggiva continuamente, come un possesso inafferrabile, ed il mio
tormento cresceva. Nell’acerbo amore che avevo per lei mi pareva talora
di sentir insorgere una sensazione simile all’odio; l’odio di non
potermene impadronire come di un bene mio, di non poterla del tutto
conoscere nè dominare, di vedere perpetuamente fra me e lei lo spettro
dell’ignoto, rigido e fermo, che rendeva inutile ogni sforzo per
guardare al di là.
Ero certo ormai ch’ella mi aveva mentito dalla prima all’ultima parola
nel raccontarmi il suo passato; la storia che mi aveva tessuta non
poteva essere la sua, non le calzava, era in molte cose dissimile da
lei. Mille indizi non traducibili mi davano questa certezza. Tuttavia
non volevo tormentarla con nuove domande, parendomi che la cosa fosse
puerile, anzi umiliante per me.
Ma la prova de’ miei dubbi non tardò ad offrirmisi nel modo più
inaspettato.
Una sera il d’Hermòs era venuto a prendermi per accompagnarmi ad un
teatro di varietà, ove si dava uno spettacolo nuovo, una specie di
«_féerie_» annunziata con grande lusso di cartelli.
La messa in scena doveva essere sorprendente. Il d’Hermòs appunto me ne
parlava.
— Figuratevi che fra costumi e scenari hanno speso la bellezza di
centocinquantamila lire. L’ultimo quadro, che rappresenta il Palazzo dei
Veli nell’isola di Lesbo, è un insieme di colori e di luci come non si è
mai veduto ancora, neanche su le scene maggiori. E la musica, senz’esser
nuova, — non c’è mai nulla di nuovo a Parigi — è però squisita. Infine
questo spettacolo sarà il trionfo o lo scacco definitivo del Duvally.
— Duvally, avete detto? — L’interruppi con un moto repentino.
— Sì, Duvally, Ernest Duvally, il fallito dell’Alcazar, che oggi vuol
imbandire al buon pubblico uno spettacolo sbalorditivo. In passato fu
impresario drammatico; adesso, ad ogni costo, vuol esserlo di varietà.
Lo conoscete forse?
— No, non lo conosco; tuttavia questo nome non mi riesce nuovo.
Lo avrete forse letto nei giornali.
— Credo piuttosto di averne inteso parlare a Roma, o qui... non ricordo
bene a che proposito. Dev’essere un tipo singolare.
— Perchè?
— Quest’uomo che passa dai teatri serii alle imprese di varietà...
— Oh, questo non conta! È un uomo al quale non mancherà la fortuna,
perchè conosce a fondo il teatro.
— È giovane?
— Avrà forse trentotto anni. Un bell’uomo simpatico. È di buona
famiglia, ma si è rovinato al gioco.
— Lo conoscete voi?
— Sì; perchè? V’interessa proprio questo Duvally?
— No, affatto: una curiosità.
— Durante lo spettacolo saliremo in palcoscenico, ve lo presenterò e
sarete soddisfatto.
— Va bene, va bene.
E mi rammentavo quella camera dell’albergo di Roma dove per caso avevo
raccolto da terra il telegramma lacerato a metà. Quante cose da quel
giorno lontano! Quante volte avevo sorpreso Elena in contraddizione
palese con la storia che mi aveva narrata! Ella aveva la manìa di
conservare una quantità di piccole cose che avevano appartenuto alla sua
vita trascorsa, e talora, un indizio qualsiasi, un nome sopra un
ventaglio, un’iscrizione sul margine d’un libro, una data, il nome della
città dov’era stato comprato il tal gioiello, il tal abito, la tal
boccetta di profumo, cento inezie insomma, bastavano a suscitare in me
un dubbio nuovo. Possedeva inoltre un cofanetto pieno di vecchie
lettere, che sempre teneva gelosamente chiuso e nascosto. Molte volte,
nelle ore d’ozio di Torre Guelfa, mi era venuta la tentazione di
violarne il secreto: ma poi la bassezza di un tal pensiero e la paura di
essere côlto in un atto così umiliante, me ne avevano sempre dissuaso. A
Parigi, entrando nella sua camera, vidi una sera il cofanetto aperto e
vuoto sopra la scrivania. Un odore di carta bruciata nella stanza vicina
mi lasciò comprendere che aveva distrutte le lettere durante la mia
assenza.
Questi fatti avrebbero potuto per sè stessi parer minimi se una certezza
morale non avesse profondamente avvalorato i miei dubbi.
Ora mi sentivo insieme lieto e pauroso di aver sottomano il mezzo per
tentare una prova.
Quella sera conobbi il Duvally. Era un uomo di aspetto fino, con una
limpida fisionomia, la bocca freschissima ed il sorriso attraente. Aveva
i capelli di quel colore fra il castano e il biondo che assume talvolta
i riflessi dell’oro verde; la fronte vasta, gli occhi azzurri,
mobilissimi, astuti. Quella sera il favore del pubblico lo inebbriava, e
mi diede prova di una cortesia perfino eccessiva. Nello stringergli la
mano, osservai che aveva una mano piccolissima, ben curata, quasi
feminea; vestiva con eleganza ed usava maniere piene di garbo. Tutto
questo m’irritò.
Lo guardavo; guardavo la sua bocca, dal labbro raso, delicata, e mi
pareva di vederlo nell’atto di baciare una donna. Ricordai la frase
ch’Elena diceva spesso a me:
— Ti amo perchè la tua bocca è fresca come un calice d’acqua pura,
quando si ha sete.
Mi sentii opprimere da un singolare malessere; non potei più parlare; il
d’Hermòs credette che m’annoiassi. Due giorni dopo, nel pomeriggio,
tornai a quel teatro con il pretesto di domandare al Duvally se potesse
ancora farmi avere una poltrona per la sera, poichè le agenzie avevano
tutto venduto. Lo trovai che parlamentava con alcuni amici e sùbito mi
venne incontro.
— Una poltrona? — esclamò. — Dio buono, che cosa difficile! Ad ogni modo
andrò a vedere. Per voi si troverà sempre.
Tornò poco dopo mostrandomi un biglietto.
— Ecco l’ultima! — disse.
Lo ringraziai e mi trattenni a parlargli, complimentandolo per il gran
discorrere che dappertutto si faceva del suo spettacolo.
— Posso offrirvi la mia vettura? — dissi alla fine. — Vedo che state per
uscire.
— Ben volentieri. Lascio un ordine, ed eccomi a voi.
Quando fummo nella vettura, lato a lato, non tardai a cercare il mezzo
di sapere da lui quello che m’interessava.
— Dovreste ora togliermi una curiosità, — gli dissi.
— E quale?
— Andate a Roma qualche volta?
— Sì, molto spesso. Ho varie faccende laggiù.
— Ah, ecco! Me lo dicevo appunto: la vostra fisionomia non mi era nuova.
Debbo certo avervi già veduto.
— Nulla di più facile. Roma non è Parigi, dove non ci s’incontra quasi
mai.
— Certo, certo vi ho veduto; ed in ogni modo ho inteso parlare di voi.
— Di fatti ho qualche amico a Roma, che probabilmente voi pure
conoscete.
— Può darsi. Ma chi specialmente mi ha parlato di voi è una donna. Ora
me ne ricordo.
— Una donna? Forse un’attrice?
— No, una cantante, una cantante russa che viene a Roma ogni inverno.
L’andavo spesso a trovare al suo albergo, ed una volta conobbi da lei
una bellissima ungherese, che voleva, credo, darsi al teatro. Parlavano
appunto di voi; me ne ricordo esattamente. La cantante si chiamava
Tschawarowna, l’altra Elena... Elena... il cognome non lo ricordo più.
— Ah, forse indovino! La signora Elena de W.
— Ecco, per l’appunto, la signorina Elena de W.
— No, scusate: non signorina, signora.
— Ah? è maritata? — esclamai, facendo uno sforzo terribile sopra i miei
nervi per mantenere un’apparenza d’impassibilità.
— Sì, lo è stata per lo meno: ora è vedova.
Per non sorprenderlo con domande troppo repentine pensai di
tergiversare, e quando fui sicuro della mia voce ripresi:
— Ora, questa mia amica, la Tschawarowna, dalla quale tornai per
domandare informazioni sul conto della bellissima forestiera, mi rispose
che anch’essa la conosceva da poco e sapeva solamente ch’era l’amante di
quel signor Duvally del quale parlavano il giorno prima.
— Oh, l’amante!... — egli esclamò gaiamente; — lo è stata una volta,
durante un mio viaggio, ma da un pezzo è cosa finita. Però, ditemi, che
donna incantevole! non è vero?
Volsi il capo alla strada e finsi guardar altrove, perchè una specie di
nebbia rossa mi offuscava lo sguardo e la mia faccia doveva essere
divenuta livida. Mi dominai di nuovo e risposi:
— Una fra le più belle donne che abbia mai vedute. Ma chi è dunque?...
se pure non sono indiscreto.
— Oh, figuratevi! Piuttosto non saprei dirvi esattamente chi sia.
— Un’avventuriera?
— No, tutt’altro, ma una donna stranissima. Non l’ho mai potuta
comprendere. La conobbi a Berlino, per mezzo d’un suo tutore, — una
canaglia, vi giuro! nonostante i suoi capelli molto grigi! So che lei
appartiene ad una grande famiglia; viaggiò molto; voleva essere attrice;
ecco tutto quello che mi ricordo.
— E fu maritata, voi dite?
— Sì, in un modo tragico. Sposò un pastore protestante, che s’era
innamorato di lei fino a divenirne pazzo. Ma dopo qualche mese gli fuggì
di casa, per ricominciare la sua vita di zingara, e il disgraziato
allora, per la vergogna e la disperazione, si uccise. Il fatto si
diffuse per i giornali: mi pare si chiamasse Miller, o Müller... Non
ricordate nulla di tutto questo?
— Veramente non ricordo. È un pezzo che il fatto avvenne?
— Sono tre o quattr’anni.
La violenza che mi facevo per mantenermi padrone de’ miei nervi si
mutava in un malessere fisico, in un dolore che mi correva per tutte le
vene; e tuttavia, più che la rabbia e l’amarezza, poteva in me la
curiosità malsana di conoscere altre notizie, di carpire altri
particolari alla confidenza di quell’uomo.
— Del resto, — ricominciai, forzandomi a sorridere, — si capisce
benissimo che anche un pastore abbia potuto perdere la testa. Non
s’incontran molto spesso donne come quella.
— Questo è vero nel modo più assoluto. Io, per esempio, che per la mia
stessa professione sono abbastanza agguerrito contro le seduzioni
femminili, vi giuro tuttavia che ad un momento dato avrei commessa
qualsiasi sciocchezza per lei. Solamente io sono un uomo pratico ed ho
cercato di non fare la fine del pastore Miller.
— Tanto più, — soggiunsi con un ridere gaio, — che avete potuto
soddisfarvene!
— Soddisfarmene, via, non potrei dire. Me ne sono appena tolto il
capriccio. E fu, vi assicuro, un caso, un semplice caso, quando già, per
il mio buon senso, ne avevo abbandonata l’idea. Ma questo non
v’interessa forse.
— Tutt’altro! Che volete mai... cose di donne, di belle donne,
interessano sempre!
Egli rise allegramente e mi battè col palmo della mano sopra un
ginocchio.
— Vi credo. Perchè infine, con i suoi mille difetti, la donna è ancora
il più squisito malanno che si possa incontrare nella vita. E voi, caro
conte, voi dovete non essere affatto contrario a questa mia opinione.
— Certo non lo fui nella mia prima giovinezza; ma ora comincio ad avere
qualche capello bianco.
— Però li nascondete bene, senza farvi un complimento. Insomma, tornando
a quella signora, vi dicevo che fu semplicemente un caso. A Berlino, in
quel tempo, ella faceva la modella, ossia non lo faceva precisamente per
mestiere, ma era la modella, o forse anche l’amante, non so, di un
valentissimo pittore, un suo compatriota, un ungherese. A quel tempo
ella sognava di darsi al teatro, ma il pittore non voleva saperne. Ora,
figuratevi, questa donna, la quale, con una incoscienza pari alla sua
bellezza, era capacissima di spezzare la vita d’un uomo, come quella del
povero pastore, aveva invece — poichè la donna è sempre incomprensibile
— una specie di adorazione, o di venerazione, che so io, per quel
giovane pittore, del quale si parlava come di un grande ingegno, e che
infatti era un uomo pieno di qualità, ma con una salute deplorevole,
poveretto! E voi sapete che le donne, in genere, preferiscono le tempre
sane!
— Oh, cosa le donne preferiscono. Dio sa!
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