L'amore che torna: romanzo - 07

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guidatore di quadriglie che annoverasse in quella stagione la società
cosmopolita di Saint-Moritz-Bad. Poco più che ventiquattrenne, alto,
smilzo, con i capelli d’un biondo brunito, gli occhi limpidi, piaceva
subitamente per la grazia del sorridere e per la spigliatezza de’ suoi
modi. Parlava con brio, corteggiava molto le signore, i suoi modi eran
fini ed attraenti, aveva nella sua maschia bellezza quasi un’ingenuità
di fanciullo.
Anche ad Elena faceva la corte, in modo piacevole. Da prima ella ne
rise, poi se ne compiacque. Non era nè irriverente nè sciocco; le
parlava d’amore fra un discorso e l’altro, facendola molte volte
arrossire.
Poi avvennero varie cose.
Avvenne ch’egli entrava sempre nella sala di lettura quand’ella scriveva
o leggeva; ch’ella prese amore al tennis, ed ogni mattina per lunghe ore
giocarono insieme; che v’eran nel giardino molti viali profondi, e
pinete di là dal giardino, dove ci si perdeva... che ogni giorno egli
era più timido e più ardente insieme; che avevano le camere, quelle
pericolose camere d’albergo, sul medesimo piano, ed eran quasi di
fronte...
E molte cose avvennero inoltre, anche nel cuore di questa errante
fanciulla, cui troppi desiderii altrui, torbidi e tenaci, avevano già
irritato i sensi; ed avvenne che le due bocche giovini, più volte, con
stordimento, s’incontrarono, ed una notte che il cielo terso dell’alta
montagna brillava d’infinite stelle, nell’ombra, nell’oblìo d’un’ora,
ella imparò paurosamente l’amore.
————
La stagione finì. Max von Schillenheim tornò al suo reggimento; Elena e
la baronessa, che peggiorava sempre, andarono a Bad-Homburg, dove i
medici le consigliarono di tornare a Berlino per affidarsi ad uno
scienziato di grande fama, che le avrebbe forse dato ricovero nel
proprio Istituto. Così fecero. Per un mese ancora Elena l’assistette,
indi, poichè le sue cure non bastavano più, medici ed infermiere presero
il suo posto, e la baronessa si risolse a lasciarla partire, colmandola
di benefici e di doni.
Allora Elena decise finalmente d’essere attrice. L’Hohenfels le offerse
di patrocinar la sua carriera, però a patto che non dovesse mai, per
alcun motivo, rivolgersi al Duvally; ed ella, senz’accettare nè
rifiutare, partì frattanto per Parigi; dicendogli che in séguito gli
avrebbe scritto.
I luoghi della sua giovinezza le dettero al cuore una commozione
profonda; ma ora vedeva sotto una luce nuova questa libera e splendida
città del piacere, dove nell’aria stessa trema una vibrazione di vita
che assilla i desiderii ed esalta i sogni fino al tormento. Cercò, sola
dapprima, d’iniziarsi al teatro; ma tosto vide quanto la cosa era
difficile, impossibile forse.
Allora si ricordò dell’uomo che poteva, egli solo, prestarle un aiuto
molteplice o divenirle il più forte nemico, e presa l’ultima
risoluzione, un giorno l’andò a cercare.
Le fu risposto che il Duvally erasi di nuovo recato a Roma, la settimana
innanzi, e che vi sarebbe rimasto alcuni mesi, per faccende che aveva
laggiù.
Ella non conosceva Roma: il nome stesso d’una città ignota
rappresentava, per il suo cuore di errante, una bellezza più luminosa
della vita, una più grande anima da indovinare.
Allora una mattina partì col treno che di Francia vàlica le gloriose
Alpi, e scese verso Roma incoricabile, Roma dalle cento basiliche, Roma
la regina dei secoli, che brilla e canta sul divino Tevere...
————
L’alba era già bianca dietro i vetri, quand’ella finiva di raccontare.


I.

Ogni mattina, con una puntualità irritante, giungeva a Torre Guelfa il
procaccia, portando una lettera di Edoarda, e tutti i giorni, alla
stessa ora, con lo stesso tono di voce, Marta, la figlia di Lazzaro,
battendo all’uscio della nostra camera mi annunziava dalla soglia:
— Una lettera per il signore.
— Bene: méttila nel mio studio.
I giornali e l’altra corrispondenza venivan per consueto nel pomeriggio;
ma essa, quella busta cinerina, con un suggello di ceralacca violetta,
con l’indirizzo che pareva sempre ricalcato sul medesimo stampo, metteva
quasi uno studio particolare nel giunger sola, immancabilmente sola,
come se mai non la ferissero i disguidi postali nè le traversìe del
viaggio. Di quella lettera tutto mi affliggeva: la forma, la scrittura,
lo stile, il senso, la monotona tristezza.
Prima di leggerla, quasi ne sapevo a mente il contenuto, e l’odiavo
sopra tutto per quella oscurità che, al suo giungere, si diffondeva nel
viso di Elena, l’odiavo per quella tristezza momentanea ch’essa faceva
scendere sul nostro amore.
Frattanto, per giustificare il mio lungo soggiorno a Torre Guelfa, avevo
intessuta una storia così complessa di menzogne, ch’io stesso non mi
raccapezzavo più. Qualche volta i pretesti erano grossolani ed in ogni
mia lettera non v’era che lo sforzo continuo, man mano più palese, di
preparare all’imminente risoluzione l’animo ed il pensiero di Edoarda.
Già da qualche tempo avevo scritto al Capuano la lettera concertata ed
egli s’era più volte recato a visitar Edoarda, senz’avere a sua volta il
coraggio di affrontare quel temibile discorso.
«Ho meglio riflettuto, — egli mi rispose, — e sempre più credo che tu
agisca sotto l’impulso d’una esaltazione momentanea, dopo la quale il
pentimento non tarderebbe a sopraggiungere. Vorrei farti ancora un
ultimo ragionamento, prima di mantenere la triste promessa che ti ho
data. Ecco: e parliamo di te solo, consideriamo la cosa dal lato della
tua sola utilità. L’amore finisce in tutte le anime; ciò che non finisce
mai, in uno spirito come il tuo, è il bisogno della ricchezza, del
piacere, la smania di soddisfare la tua grande ambizione, poichè non
riesco a figurarmi quale uomo saresti nella miseria. Ora, il gesto che
vuoi compiere su l’orlo del precipizio è straordinariamente assurdo.
Siamo pratici, siamo brutali! C è una fanciulla che ti può rendere il
denaro disperso in tanti anni, che ti può d’un colpo ricollocare in quel
patriziato dal quale decadi per necessità; ebbene, fa una cosa: prendi
tempo, rifletti, esaurisci prima questo nuovo amore. Hai trovata una
simulazione felice: la nevrastenìa. Non sarai forse creduto, ma in ogni
modo insisti. Poi cerca un altro argomento specioso, per esempio: la
dignità. Secondo quanto mi scrivi, non hai trovato ancora il modo di
prorogar l’ipoteca su le terre di Monte S. Biagio. Lo stesso Piero
Capponi, quel mansueto cannibale, subodorando il vento infido, non ne ha
voluto sapere. Io non sono tanto ricco da poterti aiutare in questa
contingenza, quindi, fra poco tempo, la tua rovina sarà pubblica e
l’asta delle tue terre solleverà grande rumore in Roma. Fatte queste
premesse, credo che, a forza di cavilli e di sofismi, non ti sarebbe
difficile far intendere a Edoarda come tu, «da uomo dignitoso», non
possa permettere che la rovina ed il matrimonio, due avvenimenti così
opposti — o, se vuoi, così rassomiglianti — vengano proprio a
coincidere. È un tema che si può svolgere con molto vantaggio e con
molta elasticità.... Chiedi allora una lunga dilazione; rendi la
promessa che hai ricevuta, senza ridomandare la tua.
Il gesto è meno ruvido, e il rimanente verrà da sè. Partirai da Roma per
qualche tempo, e guarirai se ti piacerà guarire.... Io penso che questa
cura farà molto bene alla tua salute.»
————
Questa lettera di Fabio mi aveva irritato assai. Gli risposi, ammettendo
in parte le sue considerazioni di opportunità, ma dichiarandogli che non
intendevo affatto scegliere una strada obliqua nè frapporre un ulteriore
indugio. Lo pregavo inoltre di non ritogliermi l’aiuto promesso, ed anzi
di venire a Torre Guelfa, onde potessimo concertare insieme un piano
definitivo. Egli rispose che sarebbe giunto alcuni giorni più tardi.
La nostra vita scorreva intanto in un soave oblìo. Ella era insieme la
più delicata e la più incomprensibile amante. Il suo fresco viso empiva
le stanze del castello taciturno e pareva, tra quel silenzio di cose
decrepite, suscitare improvvise giovinezze.
Torre Guelfa, la rocca dei Materdomini, difesa un tempo con molta rupe e
molto ferro, non era più che una confortevole casa di campagna, sorgente
in mezzo a prospere fattorie, sovra un alto colle, presso le cascatelle
del fiume. Corridoi profondi e stanze vaste, con tapezzerie sbiadite,
con vasti mobili tutelari, foggiati alla guisa che amarono gli uomini
rudi, usi alle fatiche delle armi, per gli ozi dei loro ben custoditi
castelli; v’erano tendami grevi, che parevano spiovere assecondando
quasi un desiderio di silenzio, e camini alti, pavimenti a mosaico,
letti profondi, e per tutto quell’odor diffuso del buon legno antico,
della immateriale polvere che lascia il tempo nelle abitazioni chiuse.
Elena ed io spesso non osavamo interrompere quella specie di
raccoglimento che piegava sotto il peso delle memorie la solenne anima
della casa, e, taciturni, stavamo ad ascoltare lo scricchiolìo delle
porte sui cardini o quel tremore inesplicabile che assaliva talvolta i
vetri degli armadi monumentali, percorrendo anche le racchiuse
argenterie, le porcellane, i vasi di cristallo. Amavamo che le serrature
fossero un poco arruginite e gli scaffali avessero accolta nelle
invisibili tarlature quasi una polvere divenute colore, ed alcuni
specchi rimanessero velati dietro una cortina di mussola, ed anche le
cornici dei quadri mostrassero, fra le dorature offuscate, qualche
macchia verdognola, come licheni su le rupi asciutte.
V’era, per esempio, nella sala grande, legato all’intarsio d’uno stipo
con un nastro senza più colore, un calendario di vent’anni addietro, il
quale, sopra un foglio giallo, segnava il giorno ventidue di Novembre —
Santa Cecilia Vergine — un venerdì.
Oh, com’era pieno di mistero quel calendario vecchio di vent’anni,
fermatosi ad una estate di San Martino! E, chissà mai per qual motivo,
dopo quel giorno così remoto la mano calma dell’abitatrice non aveva
potuto sfogliarlo più....
Così pure, in un angolo, dal braccio proteso di una statua moresca
d’ebano dipinto, pendeva una borsa da lavoro, fatta di una stoffa che
pareva broccato, a fiorami verdi e oro, con molta polvere nelle sue
pieghe. Di fianco al pianoforte erano fasci di spartiti ammucchiati
negli scaffali da chissà quanti anni, e lì presso, da un vaso di
maiolica, fioriva pomposamente un grande mazzo di penne di pavone. Tutte
queste cose parevano essere le abitatrici del luogo taciturno e
maravigliarsi della luce, infastidirsi del rumore.
Non avevo mai voluto che gli operai ponessero mano a rinnovar questa
dimora, in cui facevo per il consueto brevi e radi soggiorni al tempo
dei raccolti.
Il giardino era vasto, invaso dall’esuberanza dei fiori selvatici, tra
le piante coltivate che ornavano le serre, i prati, le aiuole. Un ponte
di legno rustico varcava un torrentello sotto l’arco d’un padiglione
arboreo, ed il giardino continuava di là, perdendosi nella sùbita
foresta. Da un lato lo chiudeva il fiume, suscitando un acciottolìo
continuo sotto le dense capigliature dei rami; l’acqua corrente
alimentava le molteplici fontane. Dall’altro lato era il frutteto,
chiuso per intorno da una folta siepe, nella quale s’arrampicava il
caprifoglio selvatico.
E i galli, dall’uno all’altro pollaio, prolungavano il loro canto con
impetuosa emulazione.
I miei contadini avevano sparsa per le campagne quasi una leggenda su la
bellezza di Elena, e tutte le fanciulle, passando, si affacciavano ai
cancelli, parlavano e ridevano forte per farsi guardare, quand’ella
usciva nel giardino.
La nostra vita era semplice, buona, satura di gioia; talora non
conoscevo più limiti alla mia felicità. Mi pareva di riavvicinarmi alla
terra, di ritrovare una poesia nuova ne’ miracoli della primavera, e
spesso mi pervadeva con esaltazione il bisogno di ammirare, di
ringraziare, di accogliere più sensi dentro l’anima, di espandere tutte
le mie forze fino all’esaurimento. I giorni passavano per noi con una
rapidità incredibile, così da farci perdere la nozione del tempo.
Avevamo quasi paura di guardar lontano, ed entrambi, come per una
concordia pattuita in silenzio, indugiavamo inerti nella delizia
dell’ora fugace. Una vita sovrabbondante si agitava in noi, prostrandoci
a volte sotto l’eccesso della sua violenza e rendendoci soavemente
neghittosi ad ogni sforzo morale.
Invece le nostre virtù comunicative si erano estremamente affinate: un
gesto di Elena mi faceva comprendere il suo pensiero, come una mia
parola sapeva esprimerle tutto il mio mondo interiore. La sua vita
intima cadeva sotto il dominio vigile de’ miei sensi, ed il mio spirito
non faceva che ardere nel maraviglioso e continuo desiderio di lei.
Elena veramente aveva compiuto il miracolo di rendermi la mia
giovinezza, come un fresco dono, e tutto il mio sopito essere in lei si
rigenerava.
Alle volte mi pareva che le fosse rimasta una inguaribile nostalgia
della sua vita vagabonda, un bisogno intimo di tornare all’avventura, di
riaffrontare il pericolo, e paventavo il giorno in cui avrebbe
ricominciato il suo cammino, mossa da una forza incontrastabile,
considerando anche l’amore come un episodio del suo viaggio, come un
incontro necessario fatto per via.
Ella passava tutto il giorno per lo più nel giardino, a cucire o leggere
sotto la pergola di vite americana, che si partiva da un fianco della
casa e radendo il muro di confine scendeva sino al cancello con un lento
pendìo. Fuori si vedeva la strada fare una svolta rapida e serpeggiare
per la breve collina verso le case del villaggio, che si raggruppavano
adagiate su la falda.
L’aria della campagna inebbriava Elena; le forze della natura si
comunicavano entro il suo corpo vibrante, aumentavano i battiti delle
sue vene, moltiplicavano le vibrazioni del suo pensiero.
— Tu non sai quanto sono felice qui! — mi diceva talora, con un atto
fervido, come per abbracciare in sè tutta la gioia che le rideva
intorno. Ed in quell’atto ella pareva comprendere la libertà, la luce, i
fiori, le canzoni che venivano per l’aria, le musiche delle fontane
pullulanti da un nascondiglio inaccessibile nella montagna, il belar
delle mandrie abbeverate al fiume, lo squittire, le gorgheggiate, i
frulli che animavano il verde, il sapore di biade giovini e di polle
feraci che si esprimeva dalla potenza originaria della terra, e più
lontano, più in alto, nel sole, nel vuoto, nel vento, lo smisurato arco
di trionfo che formavano all’orizzonte le torme di nubi fuggiasche,
raggiando l’apoteosi d’un incendio su la invisibile magnificenza del
mare.
In lei vivevano tutte le seduzioni raccolte. Così, per un’arte
inconsapevole, i suoi gesti, la sua pettinatura, la foggia ed il colore
degli abiti che vestiva, la guisa di allacciarsi un nastro intorno alla
gola o di mettersi un fiore nei capelli, tutte le cose infine che
appartenevano a lei, non eran che segni diversi d’un’armonia sola, e la
sua bellezza le continuava intorno, rimanendo come un solco nell’aria
dov’era passata.
Un giorno mi avvenne di comparare la sua vita molteplice alla fioritura
di un melo possente che prosperava nel mezzo del frutteto, parendo
esaudire un sogno di eterna dionisiaca primavera.
Il suo tronco basso e nodoso cresceva dal margine del prato sopra un
quadrivio di sentieri, ed all’altezza d’una fronte d’uomo si fendeva in
due bracci minori, che poi divergevano alquanto e s’innalzavano,
prolificando una alberatura vasta, intricatissima, sovrabbondevole,
dando quasi l’immagine di un serpaio gigantesco pervaso da una follìa di
contorsione.
Appena, fra gli interstizi, appariva il tenue verdeggiare delle foglie
novelle, ma sopra, ma dentro, ma intorno, su la vetta dei rami e nel
loro spessore, a ciuffi, a pennacchi, a mazzi, a stelle, a rose, a
ghirlande, con una profusione inverosimile, con una densità più folta
che non sia l’erba nelle campagne selvagge o nei prati maggesi, la rosea
fioritura del melo esercitava su la pianta madre una specie di
soffocazione, con uno sfoggio ed uno sperpero di colore così eccessivo,
ch’esso pareva comunicarsi anche all’aria circostante, all’ombra
delineata sul terreno, a tutte le cose che poi si guardavano,
ritogliendo le pupille un po’ ebbre da quella magnificenza floreale.
Avevano per l’aria, quelle innumerevoli corolle, un’apparenza di
filigrane delicatissime, una leggerezza d’ali di farfalle, che il vento
faceva palpitare con frequenza mettendo in quel roseo fiorire una specie
di scolorimento, un’improvvisa oscillazione bianca. E tutto, per una
zona intorno al melo, era invaso da quella esuberanza di fiori. Cadendo,
ingombravano il fogliame, pendevano dalle congiunture dei rami, si
addensavano entro le cavità del tronco, ne aderivano alla corteccia
muscosa, oscillavano sui ragnateli, coprivano di un tappeto soffice la
terra, l’erba, le siepi, spandendo nell’aria soave una balsamica
fragranza di miele.


II

Finalmente venne il giorno dell’arrivo di Fabio. Per incontrarlo noi
dovevamo scendere alla stazione di Terracina ed Elena era impaziente di
conoscere questo mio vecchio amico del quale sovente le avevo parlato.
Di buon mattino feci chiamare Lazzaro, il gastaldo, e gli dissi:
— Tu mi farai condurre verso un’ora del mezzodì quel tuo barroccio
grande, attaccato con la cavalla migliore, la balzana; e spòlvera bene i
cuscini, e lustra la briglia, perchè la signora scende con me a
Terracina.
Un’ora scoccava, quando la cavalla balzana scalpitò su lo sterrato, di
fronte alla casa.
Lazzaro non ristava dall’ammirarla e dal girarle intorno, mentre un
ragazzotto robusto la reggeva per il morso, a due mani.
— Guardate un po’, signore, la groppa e l’arcatura del collo! — mi
diceva, inorgoglito. — Sta su le zampe così d’appiombo che pare voglia
dire a tutti: La strada è mia. Non ha quattr’anni, signore. La dentatura
parla. Io l’ho pagata quaranta marenghi d’oro, ma non la vorrei dare per
il doppio. E la briglia, vedete, rispecchia come nuova.
La balzana, stelleggiata in fronte, annaspava con nervosità la terra,
facendo sonare le campanelle. Portava una briglia bellissima, con la
guardia lustra, i fiori adorni ed i voltoi bruniti. Lazzaro continuava:
— Mi raccomando, signore: la cavalla è fresca di scuderia: non l’attacco
da molti giorni e forse potrebbe farvi qualche volata.
— Non darti pensiero, Lazzaro; n’ho portati altri ch’erano ben più
focosi.
— Eh, lo credo, signore! Ma i vostri cavalli hanno sempre una certa
educazione; i nostri sono più rustici e qualche volta prendono la mano.
Elena intanto sopraggiungeva, fresca e magnifica sotto l’ala di un
grande cappello primaverile. Teneva qualche gran di zucchero nel palmo
della mano inguantata e li voleva porgere alla cavalla.
— Piano a guardarla negli occhi, signora mia! — esclamò Lazzaro,
interponendosi. — Poi è tutta schiuma e vi sbaverà sui guanti. Date a
me, signora.
Elena, che non poteva ben intendere quel parlare di Lazzaro, mi guardò
sorridendo; poi si tolse il guanto e porse il palmo nudo alla froge
della balzana, che allungava il collo golosamente.
— Ecco, signore, — disse il gastaldo; — se voi salite, io la tengo ben
forte. Quando avrete in mano le redini, salirà la signora vostra.
Diede un urto al ragazzotto e prese la briglia in sua vece, continuando
a scuotere il morso e parlar sottovoce per ammansire la cavalla
impaziente.
— Brava, la bella! Non le fate vedere la frusta, signore. Brava, la
bella! Oh, la bella!...
Quando fui salito, lasciò la briglia, si tolse il cappello di feltro
piumato e porse la mano ad Elena perchè vi si appoggiasse nel mettere il
piede sul montatoio.
— A rivederci, Lazzaro! — salutai, quand’ella fu seduta.
— Buon viaggio, signore. Andrete come il vento. Non le fate vedere la
frusta. Buon viaggio!
E scendemmo verso il cancello aperto, per il viale a pergolato. Il
barroccio era senza freno, la strada molto ripida sul declivio della
collina; dovevo tendere tutti i muscoli delle braccia per contenere la
foga della cavalla, che sentiva il veicolo troppo leggero per la sua
possa impetuosa.
Quando fummo nella pianura, oltre il villaggio, e la strada comparve
sgombra per una lunga dirittura fra le campagne abbondevoli di frumento
ancor verde, le concessi le redini, e la cavalla, con la testa al vento,
la criniera ondeggiante, prese una corsa immoderata, fendendo l’aria
sonora e comunicando al barroccio i suoi trabalzi.
— Hai paura? — domandai ad Elena, guardandola sotto il vento che
fischiava.
— No, no, — ella fece, posandomi una mano su le ginocchia, mentre con
l’altra si teneva l’ala del cappello. — Mi piace volare così! — E
gentilmente sorrideva dalla faccia china.
Non si udiva intorno alcun altro rumore che lo scalpitar precipitoso
delle zampe gagliarde sul terreno battuto e l’ansito della cavalla che
scattava inebbriandosi di rapidità. Passavano via le campagne vedute a
volo; i pioppi equidistanti parevano inseguirsi l’un l’altro in una fuga
opposta, come sbarre di un enorme cancello.
— Gesummaria! — udimmo gridare da tre donne, che sbigottite insieparono.
Più oltre, nell’incrociare un immenso carro di erbe falciate, gli uomini
che v’eran sopra coricati gridarono e risero. Fu, nel vento, un’eco.
Giunti ad una svolta, rattenni e dominai forte la cavalla, che prese
un’andatura meno veloce, mandando fumo dalle narici e dal pelo
trasudato.
— Che fuga! — esclamò Elena, traendo un lungo respiro. E si volse a
guardare indietro.
La strada passava ora per mezzo ad un terreno alluvionale, onduloso da
un lato di leggerissime colline, che infinitamente si perdevano allo
sguardo, laggiù, verso il promontorio di Monte Circello, dove un lontano
semaforo si delineava nella trasparenza del cielo.
Poi comparve, tra i due canali di Torre Sant’Anastasia e di Torre
Canneto, il paludoso eremitico lago di Fondi, memore delle materne
Pontine, e dietro il lago vedevamo le gole selvose delle montagne
addossarsi, per scendere parallelamente incontro al mare. Poi comparve,
sul versante d’una collina bianca di sole, il convento francescano dei
Frati Zoccolanti, e d’un tratto, all’uscir da una folta cortina di
boscaglie, il Tirreno indolente, che oscillava davanti a noi, radioso e
glauco sotto la curva del cielo.
Di fronte si apriva l’anfiteatro delle isole di Palmarola Ponza e
Ventotene, constellate all’intorno da un navigar lentissimo di vele,
che, adagiando il fianco su la brezza, ad una ad una si perdevano verso
i remoti valichi dell’orizzonte.
Magnifica e piena di sole, su la roccia calcarea che Orazio vide
«brillar da lunge», Terracina di San Cesareo dalle dieci colonne sedeva
sotto il poggio falciato, soreggendo i rovinosi archi del suo Tempio a
Venere, dove, nella cella votiva, rimane un piedestallo senza dea.
La città marmorea, sotto la luce del pomeriggio primaverile, splendeva
sollevata nella gloria di un incendio immateriale, come se la sua pietra
esalasse un respiro fatto di luce, un vapore impalpabile, quasi un velo
pieno di scintillamenti, che andasse man mano rarefacendosi,
attenuandosi, diventando azzurro come l’aria o verde come l’acqua, in
lenti circoli spaziosi verso il cielo e verso il mare.
— Guarda, — io dissi ad Elena, segnando nella distante onda l’apparir
confuso di Ventotene, — vedi quella piccola isola, nel fondo, laggiù?
— Vedo, — ella rispose, facendo schermo della mano agli occhi per meglio
discernere.
— Quello scoglio — ripresi, — è sorto dal mare con un tragico destino.
Divenuto ai nostri tempi un’isola di ergastolani, fu, nella storia di
Roma, l’esilio e la tomba delle Imperatrici.
— Raccòntami, — ella fece, tornando a guardare verso la raggiante isola.
— La più bella Imperatrice di Roma, ed anche la più dissoluta fra le
cortigiane, Giulia, figlia d’Augusto, vi è morta di fame. Agrippina
d’esilio, e più tardi Nerone, invaghitosi di Poppea, vi rinchiuse la
moglie Ottavia e la fece pugnalare, a vent’anni...
— Che sorte! — profferì Elena, contemplando l’isola maledetta.
— Immàgina, — esclamai, — immàgina l’agonia di quelle tre anime
imperiali, quando, nell’ultima sera, videro forse, o credettero vedere,
oltre i vapori del Tirreno, lo spettacolo di Roma signora del mondo, che
celebrava le orgie de’ suoi Cesari ed assisteva nei circhi ai
combattimenti delle fiere, dimentica delle Imperatrici come di schiave
barbare, mentre qui, davanti ai lor occhi, su quel terrazzo che tu vedi,
l’ultimo sole incendiava i marmi del Tempio di Venere, splendeva sui
mosaici del Tempio d’Augusto e raggiava su le pietre milliari della
fatale via Appia, la via di Roma...
— Che grande storia possiedono tutte le pietre del tuo paese! — ella
esclamò, volgendo intorno lo sguardo un poco trasognato.
La vecchia città vescovile ora si spiegava intera dinanzi a noi, sul
pendio della montagna, mentre passavamo per la zona dei canali,
attraverso una specie di villaggio primitivo, composto da un
aggruppamento di catapecchie, ove in taluni mesi dell’anno scendono dal
lor Abruzzo selvoso i contadini aquilani per intendere alle fatiche
della terra.
— Eccoci arrivati ormai, — dissi ad Elena, sorpassando gli ultimi
abituri e toccando le prime case di Terracina.
— Ti ricordi quando venimmo? — ella domandò con tenerezza.
La guardai, sorrisi, e mi sentii felice.
— Ecco, — ella riprese; — io mi ricordo ancora tutto, fin le più piccole
cose. Le parole che mi dicesti alla stazione di Roma, il viaggio, le
persone ch’erano con noi nel treno, dove scesero, e quando rimanemmo
soli. Poi quello strano spettacolo delle paludi, la sera; l’arrivo, il
chiasso dei vetturini per offrirci le loro vetture, e Lazzaro alla
stazione, che mi guardò attonito. Indi la salita un po’ lenta, per la
strada oscura: il vetturino, che faceva schioccare la frusta emettendo
un suo bizzarro grido per eccitare il cavallo, io che ridevo, tu anche.
Poi quelle foreste paurose, quel magnifico lago, immobile sotto la luna,
e più oltre i villaggi addormentati, senza una luce, senza un rumore,
come in un paese di morti, con davanti la Montagna delle Fate, bianca,
limpida, sola. E intorno, quel passare invisibile del vento nelle siepi,
che dava una impressione singolare, come se alcuno ci venisse dietro,
continuamente; io che mi stringevo contro di te, avevo quasi paura, e tu
che mi baciavi, piano, perchè l’uomo non udisse.... Poi, d’improvviso,
in alto, la torre di Torre Guelfa nel cielo, e finalmente l’ultima
salita, il cancello, il giardino, la grande casa con le finestre
illuminate, quella ragazza con un grembiule bianco, ferma su la
scalinata, e poco dopo Lazzaro che sopraggiungeva coi nostri bauli....
Vedi come rammento bene?
Io l’avvolsi d’uno sguardo innamorato e riconoscente.
— Pare già così lontano, — dissi, — ed invece....
— Ma il tempo vola, e non si può nulla contro il tempo.
— Sì, una cosa... — osservai.
— Quale?
— Amarsi, amarsi. Elena!
Eravamo giunti. Tre o quattro vagabondi che oziavano accorsero insieme,
ingiuriandosi, per tenere la briglia.
Siccome a Terracina era giorno di mercato, molte persone, quasi tutti
mercanti e sensali, ingombravano l’atrio della stazione. Alcuni d’essi
mi salutarono, guardandoci maravigliati. Una comitiva d’Inglesi
accampava tra i suoi molteplici bagagli, di ritorno forse da una gita a
Monte Circello.
— Quanti giorni rimarrà quel tuo amico? — Elena mi domandò,
appoggiandosi al mio braccio.
— Due giorni al massimo, — risposi. — Almeno lo spero; è un uomo
discreto.
Un campanello squillò, senza interrompersi, tra i viluppi dei fili
elettrici, sotto la tettoia; l’arrivo del treno era imminente.
In quel mentre un giovine alto, bruno, vestito con una giubba di
frustagno, passò davanti a noi, salutandomi con un sorriso dal quale
traspariva una specie di sottile derisione.
— Buon giorno, signor conte, — egli disse fermandosi e buttando via il
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