L'amore che torna: romanzo - 20

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E giocondo, impaziente, uscii per la strada, mandandole baci dal cuore.
Il domani, pochi minuti prima del mezzogiorno, giungevo dinanzi al
portone dell’albergo. Mai nella mia vita m’ero sentito così commosso;
entrando nell’atrio ebbi quasi paura di vedermela venire incontro. Il
portiere s’avanzò cortesemente:
— Chi desidera il signore?
— La signora Elena de W.
— È uscita, — mi disse con una irritante urbanità. — Uscita verso le
dieci.
— E non ha lasciato detto nulla?
— Nulla.
Rimasi un momento perplesso.
— Non sapete se le abbiano consegnato stamane un biglietto che ieri sera
ho lasciato per lei?
— Sì, difatti; me lo diede il portiere di notte, e lo mandai.
— Bene: aspetterò.
— Prego, s’accomodi.
Tolsi da un tavolino un giornale, e sedetti in fondo all’atrio in guisa
da sorvegliar l’entrata. Ma trepidavo; mille dubbi mi stringevano; ad
ogni persona che vedevo sopraggiungere il cuore mi dava un sobbalzo. E
le sfere d’un orologio a muro, che mi stava di fronte, camminavano sul
quadrante con una lentezza mortale. Segnarono il quarto, la mezza, i tre
quarti... Allora sorsi, mi pareva d’esser ridicolo, non potevo più
contenermi. Andai verso il portone spingendo lo sguardo fra la gente,
nelle due direzioni del portico; uscii nella strada, spiando le vetture;
mi detti a camminare, avanti, indietro, nervosamente. Facevo col
pensiero le più disparate ipotesi, risolvevo di andarmene, immaginavo di
scriverle una lunga lettera, ed in tutte le signore che apparivano ancor
lontane, mi pareva d’averla riconosciuta. Quando fu trascorsa un’altra
mezz’ora, entrai di nuovo nell’albergo e lasciai un altro biglietto,
scrivendole semplicemente che sarei tornato verso l’ora del pranzo, alle
sette.
Ma venti volte nella giornata passai per quella strada, nella speranza
d’incontrarla, e senza osare di chiederne all’albergo. Avevo la febbre,
mi sentivo capace di commettere una sciocchezza, non potevo comprendere
questo suo rifiuto. Alle cinque m’andai a vestire; in un baleno fui
pronto, quasichè mi fosse mancato il tempo. Abitavo all’«Hôtel Ritz», a
due passi dall’albergo di Elena. Era presto ancora per uscire; presi un
giornale, una rivista, un libro, — li buttai. Mi diedi a camminare,
guardando l’ora ogni cinque minuti, facendo sforzi d’immaginazione per
accelerare la lentezza del tempo. Infine mi decisi a scriverle una
lettera piena di violenza e di passione, per il caso in cui di nuovo non
l’avessi trovata.
Non erano tuttavia le sette quando giunsi all’albergo della «Rue
Castiglione». Lo stesso portiere venne ad aprirmi, e più garbato ancora,
con un sorriso pieno di rincrescimento:
— Signor conte, — mi disse, — la signora prega di volerla scusare, ma
non potrà scendere stasera, essendo indisposta. Credo anzi che si sia
già coricata.
Rimasi come trasognato e non seppi nascondere il mio turbamento.
— Va bene, — risposi dopo un silenzio. — Allora consegnatele questa
lettera... oppure no... Dove potrei scrivere, vi prego?
Egli mi condusse nella sala di lettura, mi preparò carta e penna.
— Grazie, ora vi chiamerò sùbito.
E smarritamente vergai poche righe, scongiurandola di volermi ricevere o
di rispondermi almeno, perchè da mesi e mesi l’andavo cercando ed avevo
sofferti tutti i dolori per lei. Chiusi la lettera, gliela feci portare,
attesi.
In fondo alla sala, un vecchio, semisdraiato in una poltrona, sotto il
chiarore d’una lampadina elettrica, leggeva un libro rilegato di pelle
oscura e lo teneva presso la faccia ingrandendone i caratteri con una
grossa lente. Nel sorreggere il libro la sua mano tremava come quella
d’un paralitico. Poco discosta da lui, una fanciulla dai capelli biondi,
pettinati strettamente, scriveva con rapidità una lettera di molte
pagine. C’era su la parete un quadro annerito in una cornice d’oro, e,
di fronte, uno specchio incline che rifletteva la stanza. Mi pareva
d’essere avvolto nell’imprecisione d’un sogno, soffrivo, ed una
vertigine grande scompigliava i miei pensieri. Nessun rumore intorno,
tranne lo stridìo di quella penna veloce che grattava la carta ruvida. I
miei occhi, senza tregua, si volgevano verso l’uscio.
Dopo alcun tempo entrò il portiere; venne a dirmi:
— La signora le manderà sùbito la risposta.
— Grazie.
Presi la penna e mi diedi a scarabocchiar linee sopra un foglio di
carta. Egli rassettò alcuni tavolini, accese un’altra lampada, uscì.
La fanciulla ed il vecchio, come automi, continuavano, ella a scrivere,
egli a tremare. Io, macchinalmente, osservavo i disegni tracciati dalla
mia penna, e quando non avevo più inchiostro la intingevo nel calamaio
con un movimento nervoso. Mi sentivo in ogni vena pervadere da
un’angoscia irrequieta e non potevo muovermi; avrei voluto correre su
per le scale, giungere alla sua porta, entrare, vederla, inginocchiarmi
o percuoterla... Mi sentivo male: avrei anche voluto fuggire. La
lampadina che avevo davanti agli occhi m’ipnotizzava come un puro
brillante.
D’un tratto, dietro l’uscio, intesi lo strepito leggero d’una gonna;
levai gli occhi, le due portiere vetrate s’apersero, ed una donna, che
non riconobbi sùbito, mi venne incontro, sorrise.
— Elena!... — balbettai come in sogno, e balzai diritto, senza potermi
avanzare. In un momento di oscura vertigine, senza chiudere gli occhi,
non vidi più nulla nemmeno lei, e quando li riapersi eravamo vicini, ci
guardavamo, volevamo parlare, anch’ella un poco impallidita, con i
medesimi capelli color del bronzo e dell’oro antico, le pupille stupite,
una bellezza immateriale nel viso, lei, lei, quella che avevo amata,
quella che avevo invocata nelle mie notti di delirio, lei che si
chiamava Elena!...
— Grazie, — le mormorai, — grazie! Non vi aspettavo... non ti aspettavo
più.... È stata una cosa indicibile!
Le tesi una mano, ella mi porse la sua, rapidamente, poi la ritrasse; ci
sedemmo. Il vecchio e la fanciulla non avevano forse neppure levata la
testa.
— Ebbene? — domandò ella, un po’ titubante.
— Non mi volevi più rivedere?... — le dissi piano, guardandola come per
ricuperare la visione della sua bellezza.
— Sono scesa infatti per ripetervi questa preghiera, — ella rispose
lentamente, chinando un poco il viso.
— Ed io, — esclamai sorridendo — io sono venuto per prenderti con me,
Elena! Te l’avevo promesso, e questa volta sarà per sempre.
Ella scosse il capo con indulgenza, sorrise tranquilla, e chinò gli
occhi, mentre, perplessa, intrecciava le dita. Allora, nel guardare
quelle mani che avevo tante volte baciate, uno struggimento infinito mi
prese, per il desiderio d’avere una sua carezza, su la fronte e su le
tempie, com’ella usava, — una sua carezza lieve. Desiderai
d’inginocchiarmi, d’abbracciare le sue ginocchia, di nascondere la
faccia nel suo grembo e mormorarle piangendo che da lontano avevo
imparato l’amore. Ma non potei; la mia bocca rimase muta; e v’era in
quel silenzio una dolcezza maggiore di qualsiasi confessione.
— Bisognava lasciarmi sola, — ella disse, con una voce gonfia di
oppressione. — Ora sarà più doloroso per entrambi.
— Ora invece non puoi essere che mia, — le dissi — e la mia vita non fu
che un lungo desiderio di te. Ti ho portata via nell’anima, e qualche
volta mi è sembrato di morirne. Adesso, Elena, bisogna ricominciare.
— No, questo mai!
— Senti...
— Mai! — ella ripetè con fermezza. Tutte le linee del suo volto
esprimevano quasi una impassibile crudeltà; nel guardarla, mi ricordai
l’amante chiusa e fiera che in alcuni momenti del nostro amore mi era
parso di temere come un’avversaria.
— Dunque hai tutto dimenticato? — le domandai sommessamente, con una
specie di paura. Ella non rispose; dalla sua faccia china gli occhi si
levarono a guardarmi con attenzione lenta, ed era lo sguardo con cui la
donna osserva l’amante, dopo l’amore.
Volevo domandarle: «Dove sei stata? Che hai fatto? Quali desiderî ti
hanno turbata l’anima nel tempo in cui fummo lontani?» Ed ella forse,
guardandomi, voleva indovinare le medesime cose.
In quel punto la fanciulla ed il vecchio si levarono insieme,
traversarono la sala, e restammo soli.
— Ascoltami — le dissi, avvicinandomi a lei. — Non ti ho dimenticata un
solo momento. Per te ho pianto, mi sono sentito infelice, umiliato,
malato. Ti ho scritto e non hai risposto, ti ho cercata e non hai voluto
che ti ritrovassi. Ora sono libero assolutamente; nella mia vita non c’è
più un pensiero che non ti appartenga; sono pronto a qualsiasi rinunzia
e ti domando perdono di tutte le mie colpe, io, che non ho mai chiesto
perdono. Adesso, dimmi una cosa, Elena: Mi hai scordato? appartieni ad
un altro? Od è per una ragione diversa che tu respingi la mia preghiera?
— Infatti, — ella disse, guardandosi una mano, e girando su l’anulare
l’anello ch’io le avevo dato, — infatti la ragione è un’altra.
Fece una pausa e continuò:
— Ti ricordi... vi ricordate? C’era sempre una cosa che vi dovevo dire.
— Ebbene dilla ora.
Aveva su le labbra un sorriso calmo, e da’ suoi limpidi occhi mi
guardava pensierosamente.
— E poi?... quando bene ve l’avessi detta?...
— È un mistero così grande?
— Oh no... tutt’altro!
— E allora?
— Allora ve la dirò più tardi. Va bene? — E soggiunse con volubilità: —
Raccontatemi qualcosa di voi, ora. Non vi siete ammogliato?
— No.
Ella dette un riso breve, sottilmente ironico, e disse:
— Perchè?
— Ti amavo, Elena, e preferii che la sposasse un altro.
— Davvero? si è sposata?... Ma da quando?
— Dal mese di Maggio.
— Siete arrivato troppo tardi allora.
— Oh, no! Sarei giunto forse in tempo, se proprio lo avessi voluto.
— E che avete fatto invece?
— Nulla. Stetti un mese a Roma, dopo andai a Torre Guelfa per vendere la
tenuta e mi ammalai. Appena guarito, venni a cercarti. Oggi, che ti
ritrovo, non mi vuoi più...
— Siete un po’ dimagrato infatti, — ella osservò, sorvolando sul resto.
— Bah... non è stato un anno molto allegro! E tu?
— Io? Sono partita tre mesi dopo; ho viaggiato, ed anch’io non sono
stata bene.
Allora le presi una mano e vi posai le labbra senza ch’ella me lo
impedisse.
— Elena, — mormorai, — quanto ho sofferto! Non te lo potrò mai
descrivere! Ho bisogno di parlarti a lungo. Vuoi che usciamo?
— Dove?
— Non hai ancora pranzato, suppongo?
— Non ancora.
— Ebbene vieni con me. Andremo da Paillard o da Larue, come una volta.
— No, no! — ella fece, ritraendo la mano con rapidità.
— Questo non me lo puoi negare. Assolutamente bisogna che ti parli,
Elena. Qui fra poco verrà gente; poi... sii buona!
— Ebbene, se proprio volete...
— Oh, sì! te ne prego! te ne prego!
— Ma dovrò allora cambiarmi d’abiti.
— Non importa; sei tanto bella così.
Ella sorrise, come una volta, quando la baciavo.
— Abbiate pazienza, farò presto.
Ed uscì con il suo passo agile, con quel rumor di seta che le udivo
suonare intorno al piede, come quando l’evocavo ne’ miei sogni e mi
pareva di udirla giungere, sovra i tappeti, senza quasi far muovere
l’aria.
Mi sembrò in quel momento che il mondo si fosse ringiovanito di
primavere, l’anima mia di speranze, la mia stessa persona di felicità.
Mi piaceva quasi d’aver sofferto, per conoscere la gioia di quel ritorno
ed avevo su le labbra diffuso il sapore del primo bacio ch’ella mi
avrebbe dato.
Ero sicuro in cuor mio di vincere il suo rifiuto, e la vita, che si
apriva dinanzi al mio sogno mi pareva piena d’aurore. Immaginavo le
parole che le avrei dette; avevo negli occhi la visione della sua camera
sconosciuta, vedevo lei andare dal lavabo alla specchiera, asciugandosi
le mani, ravviandosi i capelli. Non tardò a ridiscendere; aveva il
mantello aperto e si vedeva in fondo all’abito di velluto viola una
luminosa guarnizione d’argento; portava un grande boa bianco, un
cappello nero con una folta piuma. Si allacciava i guanti stando su la
porta e mi diceva sorridendo:
— Vi ho fatto molto aspettare?
— No; hai fatto presto; vieni.
Uscimmo sotto il portico per attendere una vettura. Tutto il giorno
aveva nevicato; in quel momento le stelle ridevano dal cielo sgombro,
brillando con gelida serenità nell’aria che il freddo illimpidiva.
Accanto a lei mi sentivo buono, ilare, pieno di felicità, e le cose
circostanti rispecchiavano il mio giubilo interiore. Quando fummo nella
vettura, lato a lato, poichè non osavo baciarla, nascosi la faccia nel
suo boa, tepido e soffice, sotto cui sentivo la forma della sua spalla
delinearsi morbidamente.
— Non fate così... — ella disse piano, ritraendosi un poco.
— Dimmi ancora «tu»... — la pregai. — Non senti come ti voglio bene?
Ella si piegò verso il vetro per guardar fuori, verso la strada, ove i
lumi scintillavano. Poi disse:
— Rimarrete molto a Parigi?
— Elena, — la supplicai — non mi torturare! Sono tornato per rimanere
con te, per vivere con te, m’intendi? Non lo desideri un poco anche tu?
— Non so, non so... — ella rispose. — Ad ogni modo non lo voglio; non è
ormai una cosa possibile.
— Perchè dici questo? Ne ami forse un altro?
— Oh, no! Questo no davvero! — E rise forte, chiudendosi nel suo
mantello. — Non mi conoscete affatto, — riprese. — Io non sono di quelle
che ritornano... Poi abbiamo due maniere così diverse d’intendere la
vita, l’amore, tutto!...
— È vero: tu sai dimenticare, — dissi amaramente. — Bah... che
stranezza!
La vettura, su la neve, camminava lenta, senza urti, sostando spesso
dietro altre che andavano in fila.
— Non rattristatevi, Germano, — ella disse poi. — Una volta eravate
sempre così tranquillo...
— Già... una volta! Ma vivendo si muta.
Un lungo silenzio ancora; poi le dissi:
— Hai ricevuto i fiori che ti mandai da Torre Guelfa?
— Sì.
— E le lettere che ti scrivevo?
— Anche.
Si giunse; traversammo la sala terrena, piena di gente che pranzava;
alcuni ci riconobbero, salutarono bisbigliando: salimmo ad una piccola
sala appartata e venne un maggiordomo cerimonioso ad offrirci la lista
della cena. Su la parete brillava un grande specchio, che rifletteva la
tavola apparecchiata con fiori e cristallerie. Tolsi ad Elena il
mantello, il manicotto, ed ella, in piedi, vicino alla tavola, cominciò
a sbottonarsi i guanti. Il contrasto dell’aria tepida con il frizzo
della nevicata le arrossava un po’ le guance; l’ombra d’una piuma le
scendeva sino a mezzo il viso e con un moto lento si faceva scorrere in
giù dall’avambraccio il guanto, ch’era d’un tenuissimo color sciampagna,
e le calzava sino al gomito. Dietro lei, nello specchio, si rifletteva
l’abbondanza de’ suoi capelli scintillanti.
— Vuoi comandare il pranzo? — le domandai, porgendole la lista.
— No, fa tu.
Sorrisi, e scelsi tutte le cose che una volta ella prediligeva. Il
maggiordomo uscì, e venne in sua vece un cameriere, che prese ad
apparecchiare. Quando aprivano la porta giungeva con impetuose ondate il
suono di un’orchestra zingara.
— È quasi passato un anno, — ella disse, intrecciando le dita sul piatto
vuoto e facendovi battere gli anelli.
— Già, un anno... un’eternità! Elena, siamo stati pazzi, veramente
pazzi, tutt’e due... io più di te. Ora ti sei vendicata: basta!
— Vendicata? Non è la parola. Ho fatto solamente quello che credevo
necessario per il vostro bene. Quando mi sono accorta ch’ero per voi un
impedimento, vi ho lasciato libero. Questa non è una vendetta, e credo
non possiate rimproverarmi nulla.
— Infatti non ti rimprovero, anzi ti prego. Puoi forse comprendere come
sia fatto il cuore dell’uomo? Allora mi piacevi solamente, ora ti amo.
I camerieri entravano di continuo e bisognava interrompere il discorso.
Le facevo alcune domande saltuarie, cui ella rispondeva con brevità.
— Da dove sei giunta ultimamente a Parigi?
— Da Compiègne.
— Che facevi a Compiègne?
— Nulla; fui malata; mi riposavo.
— Hai conosciuta molta gente in questo frattempo?
— Sì, molta.
— È un pezzo che non reciti più?
— Dal Maggio.
— E, senti... non ti offenderai se ti faccio un’altra domanda?
— No, di’ pure.
— Come sei vissuta da allora fin qui?
— Vuoi forse dire come ho trovato il denaro per vivere?
— Appunto.
— Me ne hanno prestato, — ella spiegò sorridendo.
Ora il maggiordomo imbandiva. Un turacciolo saltò con rumore. Traverso
la porta socchiusa, or forti, or lenti, si udivano volar le note della
marcia di Rakoczki. Quando rimanemmo soli, presi ad osservare la sua
persona minutamente, poi dissi:
— Che bell’abito hai!
— Ti piace?
— Sì.
— Dove lo hai fatto fare?
— Da Paquin.
— Ti vesti da Paquin ora?
— Da Paquin o, qualche volta, da Doucet.
— Sei molto ricca dunque?
Ella sorrise di nuovo in modo ambiguo.
— E tu?
— Oh, anch’io... ricchissimo! — esclamai scherzoso. — Ho vinto quel che
ho voluto a Monte Carlo, ultimamente.
— Bravo! E la terra è venduta, mi hai detto? Anche Torre Guelfa?
— No, Torre Guelfa mi rimane ancora, ma non l’amo più. Vi ho trascorso
un tempo troppo doloroso. Bah... che importa?... Bevi!
Le colmai fin quasi all’orlo il bicchiere. Ella v’intinse le labbra,
bevve un sorso e depose pianamente il calice. Lo tolsi allora dalla sua
mano e bevvi anch’io, come per stordirmi, tutto d’un fiato. Le dissi:
— Molte volte avrei voluto ubbriacarmi, e non potevo. Tutto mi dava un
senso di tristezza.
Poi le tesi una mano e seguitai:
— Elena, vuoi fare la pace con me?
Ella battè le falangi nervosamente sul mio palmo e domandò:
— La pace? cosa vuoi dire?
— Perdonarmi, se preferisci; dimenticare quest’anno come un brutto
sogno.
— Ah, sì?... — ella fece, appoggiandosi alla spalliera della seggiola.
Le sue pupille, straordinariamente lucide, mi fissavano con intensità,
con irritazione; e taceva. Quand’ebbero servite le frutte, mi levai
rapidamente, afferrandole un polso con un gesto febbrile.
— Dimmi!... — esclamai, — ne ami un altro? Sei stata d’un altro?... La
verità!
— E se fosse? — ella domandò placidamente, con un sorriso negli occhi
limpidi.
— Rispóndimi! — la esortai duramente. Un cameriere, entrando,
m’interruppe. Allora detti ordine che sparecchiassero, e, quand’ebbero
finito:
— Vi chiamerò, se occorre, — soggiunsi.
Restammo soli.
Ella non si era mossa, non aveva detta una parola. Io stavo sul divano
ch’era contro la parete; lo specchio di fronte mi rimandava l’immagine
della mia faccia turbata.
Ella prese a carezzare i fiori che non avevan tolti dal mezzo della
tavola ed a giocare con il tovagliolo annodato al collo della bottiglia
di Sciampagna. Ad ogni scossa il ghiaccio crepitava, sciacquando, fra il
vetro della bottiglia ed il vassoio che la conteneva.
— Elena, — la pregai con dolcezza, — vieni a sedere qui.
— Che vuoi?
— Vieni, sii buona...
Ella sorse in piedi; andò a guardarsi nello specchio, si tolse uno
spillone dal cappello, ve lo rimise; fece il più largo, più lento giro
che potè, e venne a sedermi vicino. Mise un ginocchio su l’altro e con
le mani congiunte lo ricinse. Io passai un braccio sotto il suo braccio
e l’attrassi dolcemente.
— Rispóndimi dunque. Sei stata d’un altro? Dimmi la verità.
— Non ancora, — ella rispose con una voce pacata.
— Ah... vedi! — esclamai giubilando.
— ... ma lo sarò, — aggiunse tosto con la medesima voce fredda.
— Mia sarai! mia! — l’interruppi con ardore, come per cancellare la sua
risposta. Ella volse il capo lentamente ed i suoi occhi m’investirono
con uno sguardo che mi colpì come una staffilata. Poi fece con le labbra
un atto rapido, in cui le scintillarono i denti, e fu quasi uno scherno,
quasi un sorriso.
— Senti... — esclamò con gioia crudele, — nemmeno se dovessi morirne!
— Elena!
— Ti ripeto: nemmeno se dovessi morirne! — E con la mano e con la voce
scandiva il cadere di queste parole sorde, pesanti, che in me andavano
scavando un profondo solco di dolore.
Sentii qualcosa di vivo schiantarmisi nel petto, e mi pareva che una
rovina immensa precipitasse nel mio freddo spirito. Allora, con un
movimento quasi felino, ella si levò e mi venne di fronte.
— Ah, tu hai creduto, — ella disse, un po’ curva, un po’ arrossata — che
potrei di nuovo appartenerti qualora tu lo volessi? Hai creduto che
anch’io, come tutto quello ch’è passato nelle tue mani, fossi un piccolo
gingillo da potersi lasciare o prendere a tuo piacimento? Ebbene,
Germano, ti sei ingannato! Senti, voglio dirti una cosa.. Quell’ultima
sera, te ne ricordi? quand’io t’ho accompagnato alla stazione, quando ci
siamo abbracciati, ed anzi quando già eri nel treno, ancora non credevo
che tu potessi partire... Invece sei partito, ed è stata la fine.
— Ma io...
— Non dire nulla, non dire nulla... che vuoi? parole! Me ne hai dette
tante! Oh, c’è stato un tempo nel quale avresti potuto fare di me quello
che volevi! Ero tua. Sei stato il solo uomo che abbia mai amato, e
siccome è l’ultima volta che ci parliamo, lo puoi anche sapere.
Le caddero due lacrime dagli occhi, ed ansava. Mi levai, freddo sin
nell’anima, e poichè non trovavo parole, cercai di afferrarla; fui rude.
— No, lásciami e ascolta. Non è tutto ancora. Io, che sono stata sempre
una donna calma e cattiva, per te avrei fatta qualsiasi cosa... mi sarei
anche venduta per farti ricco, se tu mi avessi amata lo stesso. Ti ho
nascosta la mia vita — e non lo sai oggi come non lo sapevi allora — per
un capriccio bizzarro, ed anche perchè mi piaceva di avere qualcosa in
me stessa che non fosse in tuo pieno dominio. Ma vedevo intanto ch’eri
un uomo incapace di amare, che ti allontanavi da me, rimpiangendo la tua
vita passata e la ricchezza che un’altra ti poteva dare. Non sono di
quelle che si umiliano e ti ho resa la tua libertà. Solo, da quel
momento, sono tornata l’avventuriera che fui sempre. Non so se ti amo
ancora o se ti odio, il che forse, ad un certo punto, è lo stesso; ma
sicuramente non mi avrai più, nemmeno se ti mettessi a ginocchi, nemmeno
se dovessi disperarmene anch’io... Ma non temere: sono forte!
E rideva e piangeva, d’un riso e d’un pianto convulsi.
Io, che l’avevo ascoltata, con la faccia nascosta fra le mani, atterrito
e folle, tentai tutte le persuasioni: la preghiera, lo scherno, la
minaccia, la violenza... e tutto fu invano.
La vidi correre all’uscio per sfuggirmi... allora mi dominai.
— Bada, — ella disse, — mi devi rispettare almeno come uomo, tu, che
come amante non mi hai risparmiata.
— Elena, io non t’ho fatto mai alcun male.
— Ah, credi? Lo credi, perchè tacevo? perchè la mia fierezza m’impediva
di mostrarti quanto soffrissi? Ma senti... senti... — e mi venne contro,
mi afferrò per le braccia, mi scosse. — Dimmi dunque! tu, che ne parli
tanto, sai cosa vuol dire... Ma poi no! che serve? — E si mise a ridere
d’un riso che le torceva la bocca. Sedette, si levò; mi venne vicino,
tornò via; prese dal mezzo della tavola, fuor dal vassoio, la bottiglia
gocciolante, ne versò un bicchiere colmo fino all’orlo, e ridendo lo
vuotò d’un fiato, come per inebbriarsi. Di quel momento non ricordo più
nulla, se non la specie d’annientamento che mi gravava su l’anima,
interrompendomi tutte le facoltà. L’amore mio si prosternava dinanzi a
lei, ch’era la più crudele e la più forte.
— Senti, — le chiesi fuor di me stesso, dopo un lungo silenzio, — cosa
vuoi ch’io faccia? Che mi umilii ancor più? che ti chieda perdono a
ginocchi? Trovami dunque un pentimento che ti basti! cerca una vendetta
che ti possa contentare!... Elena, vuoi vedermi pazzo?
Stava seduta presso la tavola, e tenendo il braccio alzato fissava
contro luce il suo bicchiere vuoto; un cerchio di splendore, fermo,
saettando fuor dal vetro, le batteva sul polso nudo e luccicava come una
medaglia. S’era tolta il cappello, alcune ciocche scomposte le
ingombravano la fronte. Guardandola, mi ricordavo con una sensazione
terribilmente chiara il sapore che avevano le sue labbra nei baci
d’amore; qualcosa di lei passava traverso le mie vene prodigandomi una
molteplice carezza.
— Elena!... — le gridai forte. — Elena!
Ella si scosse con un brivido repentino, come risvegliata nel mezzo d’un
sogno, poi lentamente, con stanchezza, mi tese una mano. E mentre voleva
sorridere, la testa le cadde giù, su la tavola, di schianto. Mormorava:
— Tatto quello che tu soffri, è nulla... è nulla! Io ho fatto di più!
— Che hai fatto? che hai fatto?
— Io, — balbettò — io, quando tu partivi, ero incinta già di tre mesi...
e non volevo dirtelo mai! Ora è nata... una bimba, la nostra bimba... e
si chiama Evelyn...
Qualcosa mi passò nell’anima che non ha parola: tenerezza e paura,
smarrimento e gioia, riconoscenza e vergogna. Se è possibile amare al di
là dell’amore, in quel momento l’amai.
— Evelyn... — balbettavo, — Evelyn...
Un rumor sordo e vuoto mi turbinava nel cervello, come un ammulinar di
vento. Non potendo far altro, la sollevai nelle braccia e la feci sedere
su le mie ginocchia; ella mi rovesciò il capo sovra una spalla e pianse
tutte le lacrime che portava suggellate nel cuore.
— Dov’è?... dov’è?... — chiesi.
— Lontana da noi, lontana di qui, Germano... Ma non cercarla: è
solamente mia. Per lei mi sono già venduta e per lei non ti posso
appartenere più. Voglio farle una vita bella... non come la mia, non
come la nostra, povero Germano, povero amore mio... Comprendi ora?
— Sì, — bestemmiai soffocatamente — sì... taci!
E le mie mani cercarono il suo collo delicato, col desiderio di
stringere forte... forte... per amarla meno!
— Mi fai male... che fai?
Su la bocca le dissi:
— Amore mio...
Ella tremava, ed io le conoscevo quel tremore.
— Che fai?... — bisbigliò, tutta bianca.
— Taci...


III

Allora una specie di follìa mi travolse. Dopo avere inutilmente
perseguitata Elena e patite per questo amore le umiliazione più dure,
dopo essermi trascinato a’ suoi piedi come un servo ed averla
oltraggiata come un padrone, dopo averle offerto il mio nome per
legittimare questa figlia che non conoscevo, dovetti finalmente
arrendermi alla sua volontà più forte e partire. Fuggire piuttosto,
inseguito dall’ossessione di questo amore, che mi si era infitto
nell’anima come una spina lacerante. Ella era perennemente un
incomprensibile mistero. Meditai di uccidermi per non soffrire più, e
certo l’avrei fatto, se nel cuore, profondo come il fuoco della stessa
mia vita, non mi fosse rimasto il pensiero di poterla riavere un giorno.
L’avrei accolta sciupata e macchiata, comunque volesse tornare a me,
anche dalla strada ed anche per esserne beffato; avrei tutto sofferto da
lei, perfino il disamore, il tradimento, la vergogna, pur di averla
sempre vicina e respirare nel cerchio paradisiaco della sua vita. Questo
finalmente poteva chiamarsi l’amore.
Ma non volle. Mi giudicò incapace di un sacrifizio duraturo e preferì
ella sola provvedere al destino della figlia che le avevo data.
Qua e là, torvo e sfrenato, corsi allora in cerca d’oblìo. Con una sete
rabbiosa mi detti al piacere che mi tediava, alla dissolutezza che mi
lasciava nell’anima stanca un più enorme fastidio della vita. Ogni
coltre mi era insonne, ogni mensa discara, ogni città piccola e cupa; il
riso, che andavo cercando, increspandomi le labbra, mi torceva il cuore.
In questa fuga davanti a me stesso imparai quell’intima disperazione che
fa dell’uomo più altero un piccolo e miserando essere, il quale cerchi
di nascondere alla gente, sotto la maschera dell’indifferenza, la sua
rassegnata follìa.
Scialacquavo il denaro; mi piaceva sentirmi scendere nuovamente verso la
rovina; c’era in me un uomo che neghittosamente si lasciava uccidere, ma
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