L'amore che torna: romanzo - 05

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madre rimanesse a lei, a lei sola, in quella piccola casa di Montmartre,
di fronte alla chiesa del Sacro Cuore, dove i tramonti su l’apoteosi
della città incendiata erano così divinamente belli.
Dopo qualche tempo l’Hohenfels finì con rinunziare a questo progetto e
le sue visite a Parigi furon meno frequenti, finchè cessarono del tutto.
S’era più tardi ammogliato in Germania, e solo scriveva di quando in
quando per domandare notizie con freddissima urbanità.
Ma vennero i tempi tristi; la madre ammalò, fors’anche di stanchezza; il
lavoro le divenne impossibile, il denaro mancò. Era d’inverno e tutto
scarseggiava, la luce, il fuoco, il pane, in quelle tre camere taciturne
dove una donna di trentasette anni ed una fanciulla di diciotto erano
sole a difendersi contro la vita.
Allora fu per Elena una corsa pazza lungo le vie di Parigi, ad ogni
porta, ad ogni scala, in cerca di lavoro, di un qualsiasi lavoro che
desse una tazza di brodo per la madre malata, che desse la legna per
accendere un po’ di fuoco la notte, quand’ella tremava, scarna, sotto la
coltre, vaneggiando.
Per molte settimane, perchè non le portassero la madre all’ospedale,
Elena fece ogni umile mestiere: praticò le scuole delle sarte, ricamò le
iniziali delle biancherie, vendette nei negozi, assistette malati,
rispose agli annunzi dei giornali, si trascinò per ogni agenzia, fu da
ultimo la modella di un pittore.
E questo giovine che la vide così bella e così triste, invece di
offenderla, ebbe del suo dolore una fraterna pietà. Povero, volle
offrirle qualche soccorso, la confortò, venne a visitare la madre.
Ungherese di nascita egli pure, — (e per questo Elena v’era andata) — si
chiamava Mathias Bunko ed era minato da una inguaribile malattia.
Tacitamente il giovine si accese di un disperato amore per lei;
quell’amore sublime delle anime che sentono la morte vicina.
Mathias andava in cerca di lavoro per lei come per una sorella; poi, la
sera, non potendo recare di meglio, portava un cordiale per la malata,
un succo di carne per sostentarla, un giornale che la divertisse, un
fiore. Aveva una bella fronte pallida, la bocca femminea, la voce soave.
Parlava dell’Ungheria lontana, de’ suoi giorni d’infanzia, de’ suoi
sogni d’arte; voleva, quando la madre fosse guarita, fare un grande
quadro di Elena, esporlo, giungere rapidamente alla fama, — rapidamente
poich’egli aveva dinnanzi a sè una vita breve.
Invece la malattia peggiorò ed il medico fece trasportare l’inferma
all’ospedale. Furono giorni di disperazione, che nessuna gioia della
vita potrebbe mai compensare.
Oh, l’ultima sera in quella nuda stanza d’ospedale presso il letto già
solenne come un feretro! Una monaca piangeva in silenzio presso il
capezzale, ferma, rigida. Ed Elena rivedeva sempre quella mano di
morente levarsi ancora stanca e fredda fino alla sua fronte, per darle
una benedizione suprema; udiva quella voce ormai lontana dirle ancora,
diminuendo, fuggendo:
— Elena... sii buona, sii forte... Vivi con fede, con fierezza... Elena,
mio amore, addio...
Poi, tosto, nella luce livida, un Crocifisso scenderle sul petto, gli
occhi della moribonda volgere verso di lei l’ultimo sguardo umano, e
lentamente svanire, finire, in una specie di stupefazione, serbando il
loro inestinguibile sorriso...
— Mamma, mamma mia!... — aveva ella gridato, cadendo sul cuore della
morta. E Mathias la raccolse nelle sue braccia, Mathias, il pallido
fratello, il suo povero amico.
Per molti mesi ella fu ricoverata in un monastero, finchè un giorno le
venne da Berlino una lettera di Franz von Hohenfels, che le mandava
denaro, invitandola a partire per la Germania, dov’egli le avrebbe
ottenuto un posto d’istitutrice.
L’ultimo giorno andarono insieme al camposanto, Mathias e lei, per
salutare la morta. Elena vide ch’egli barcollava, quel giorno.
— Andate proprio via? — le disse il giovine con una voce che non era più
la sua, una voce spenta.
— Sì, — ella rispose — domani.
— Mi scriverete qualche volta?
— Sempre, sempre, Mathias! E poi ci rivedremo un giorno...
Egli ebbe un sorriso incredulo:
— No, Elena, forse mai...
Ed erano caduti entrambi a ginocchi, nel camposanto dei poveri, dinanzi
a quella croce nuda.
————
Il tutore l’accolse nella casa dov’egli abitava con la moglie e con due
bambini.
Il terzo giorno dopo il suo arrivo l’Hohenfels la condusse nel suo
studio e vi fece portare dai domestici un grande baule polveroso. Cercò
nella cassaforte un libretto di risparmi, alcuni astucci di gioielli,
aperse il baule, poi disse:
— Tutte queste cose vi appartengono, Elena; mi furono consegnate per
voi.
Ella se ne meravigliava, ma il tutore prese a dire:
— Quando vostra madre lasciò l’Ungheria mi diede in custodia questi
ultimi residui del suo patrimonio, ch’ella aveva ridotto al nulla per
pagare i molti debiti della famiglia o piuttosto — poichè forse già lo
saprete — i debiti di suo marito. Mi lasciò queste cose con l’obbligo
giurato di non consegnarle che a voi, dopo la sua morte, o, qualora me
lo domandasse, alla vostra maggiore età. Vostra madre fu una santa ed
una vera martire: non dimenticatelo mai, Elena. Oggi obbedisco alla sua
volontà.
V’era il corredo da sposa della madre, pochi oggetti preziosi ch’ella si
rammentava di aver veduti al castello ed alcuni gioielli antichissimi
della famiglia.
Tutto ciò le parve l’ultimo sorriso, l’ultimo bacio della sua mamma per
sempre lontana, e questa lieve ricchezza la fece piangere di malinconia.
Era la sua tragica e santa eredità; bisognava non dimenticare
quell’esempio di fortezza. Ed Elena serenamente si dispose a vivere la
sua vita nuova, poichè il tutore le aveva trovato un posto d’istitutrice
in una scuola privata.
Passarono mesi di tristezza e di solitudine. Mathias le scriveva quasi
ogni giorno; ella rispondeva sempre, e, come ad un fratello, tutto gli
raccontava: la grande aridità della sua vita, i bui pensieri, lo
sconforto, i libri che leggeva, le persone che frequentava, le memorie
della povera morta, il gran desiderio che aveva ella stessa di morire.
Una volta, ricordandosi ch’egli era così povero, andò alla Banca, prese
una piccola somma e gliela spedì. Ma egli la rimandò con una lettera
squisita, in cui vagamente, per la prima volta, le confessava la sua
passione.
Questo pensiero le dette un grande smarrimento; non aveva mai creduto
ch’egli potesse amarla, e considerava Mathias veramente come un
fratello. Ebbe vergogna, ebbe paura, ebbe pietà; gli rispose pregandolo
di non volerle bene, di non pensare a lei, di lavorare a’ suoi quadri.
L’Hohenfels la visitava qualche volta e più spesso l’invitava nella sua
casa, mostrandosi ora diverso che non per il passato, e cioè troppo
familiare, quasi ambiguo.
In quei giorni, per uno scandalo che fece assai rumore, l’Hohenfels si
separò dalla moglie e tenne seco uno dei due figlioli. Circa un mese
dopo questo fatto egli venne a proporle di dare lezioni al suo bimbo ed
ella consentì.
L’Hohenfels assisteva regolarmente a queste lezioni, seduto presso la
tavola, sorridendo e guardandola sempre. Voleva sovente che rimanesse a
pranzo; un giorno le passò la mano sui capelli, dicendole:
— Sapete, Elena, che vi siete fatta una magnifica ragazza?
Ella divenne di porpora, ma non osò rispondere, perchè di lui aveva una
incomprensibile paura.
Era un uomo sui quarantacinque anni, ancor giovanile d’aspetto, che nel
discorrere usava gesti compassati ed autorevoli; aveva i baffi castanei,
rudi, la bocca un po’ sardonica, il naso diritto, gli occhi d’un color
glauco-verde, pieni di volontà.
Frattanto era trascorso più di un anno, e la sua tristezza non guariva;
ogni cosa le dava un senso di profonda mediocrità, e sognava di andare
per il mondo alla ventura, fin quando, in una terra lontana,
improvvisamente, come schiuse da un prodigio, davanti a lei si aprissero
le porte meravigliose della vita.
Trovò, sul finire di quel Settembre, una vecchia signora senza parenti,
ch’era solita viaggiare quasi tutto l’anno, la quale accettò di
prenderla seco e farne la sua dama di compagnia. Sùbito, e nonostante le
preghiere dell’Hohenfels, lasciò la Germania e vide un gran numero di
paesi.
Fu durante uno di questi viaggi ch’io la conobbi.
Ma la vecchia signora finì con accorgersi ch’era molto incomodo avere
per dama di compagnia una ragazza così bella, poichè dappertutto gli
uomini la corteggiavano e l’inseguivano con soverchia insistenza. Di
nuovo Elena si trovò sperduta, senza desideri, senza meta. Fece venire
una parte del suo denaro e viaggiò sola per qualche tempo, inebbriandosi
di sogni che non si sarebbero avverati mai.
Passava, senza conoscere ancora la sua bellezza, con tutta l’anima negli
occhi, per le città straniere, perdendosi fra le folle rumorose,
aggirandosi per i musei, per le biblioteche, nei giardini, fermandosi la
sera, verso il crepuscolo, su le arcate dei ponti a guardare i fiumi
trascorrere, i laghi oscillare, splendere il sole sui vetri delle case,
che balenavano come lamine d’oro. Guardava le folle dissimili mutarsi di
frontiera in frontiera, parlando linguaggi diversi e con diversi
destini; guardava ed era negli occhi attonita, come chi dalla spiaggia
di un mare veda correre sulle opposte onde infiniti velieri e non sappia
qual destino li guidi nè a quali porti vadano, per l’interminato
azzurro, in cerca d’approdo.
Per lei tutto nel mondo era un pericolo, tranne le parole di Mathias,
che la vegliava di lontano scrivendole alcune lettere sublimi.
Allora, fra le città straniere, qua chiamata e là respinta, fra gli usi
e le persone più varie, con il coraggio dei vent’anni, con
l’intelligenza versatile che nasce dalle difficoltà, imparando a
fingere, a destreggiarsi fra gli uomini, cominciò per lei quella corsa
randagia, infaticabile, ch’era la sua battaglia per la vita.
A poco a poco amò quella sfrenata indipendenza, quel vagabondaggio alla
ricerca dell’ignoto, quel rinnovarsi dell’anima in un perpetuo fuggire.
Un giorno ella imparò a conoscere i libri di Massimo Gorki: glieli aveva
dati un professore paralitico, il quale abitava una soffitta al di sopra
della sua, in una città danubiana.
Questi libri l’accesero, le parvero il poema eroico della miseria, il
vangelo dei diseredati. S’innamorò di quei naufraghi alteri che non
volevano arrendersi alla nemica vita, e discutevano fra i loro cenci una
filosofia nuova della società umana, come dottori all’Accademia, essi,
fra le caraffe d’acquavite.
Allora pensò ch’ella pure, come quei caduti, come quegli ex-uomini,
aveva un passato di luce, un avvenire d’ombra. Com’essi era caduta sotto
l’invincibile furore della fortuna e più non le rimaneva che una forza:
quella di considerare la vita come una catena di avvenimenti provvisori,
cioè dall’oggi al domani, con instabilità seguendo l’alea dei nomadi, e
senza perdere mai la coscienza di rimanere un «essere umano».
Pochi centesimi bastarono alla sua vita, qualche libro, qualche fiore.
E visse di sè, chiudendo nell’anima sua di fanciulla un infinito mondo;
vide ciò che ha nome il bene e il male, ciò che gli uomini hanno pensato
di giusto e d’ingiusto, ciò che una creatura deve compiere per
insignorirsi del proprio destino.
Libera e sola, continuò quel suo pellegrinaggio, fin quando, in una
città sul Reno, essendosi gravemente ammalata, fu accolta in un Asilo
Evangelico. Dopo la guarigione, le suore che avevan preso ad amarla
vollero rimanesse con loro e le affidarono alcuni bimbi da educare,
quand’ella ebbe loro promesso di convertirsi al protestantesimo.
Quella pace ora la riposava; le pareva di amare il convento, le
preghiere lunghe, le fervide meditazioni; un fondo di misticismo innato
le si ridestava nei recessi dell’anima.
Il pastore che l’istruiva per la conversione s’innamorò di lei. Non
glielo disse dapprima, forse non osò; ma ogni giorno le portava un libro
di fede o di evangelica meditazione, avendone prima sottolineate alcune
frasi di amore castissimo. E talvolta, partendo, serrava lungamente una
mano della fanciulla tra le sue.
Finalmente un giorno si fece coraggio; le confessò di volerle bene, le
domandò se avrebbe mai consentito a sposarlo. Elena, dopo averlo
guardato un momento, si mise a ridere come una pazza, e rise così forte
che il povero giovine, tutto vergognoso, fuggì.
Ma poi, quando lo rivide, così pallido e serio, così turbato davanti a
lei, quasi le spiacque di avergli fatto male e gli usò molte piccole
cortesie. Ora il giovine le impartiva la sua lezione rigidamente, senza
guardarla, e solo di quando in quando le portava un libro, ancora con le
parole segnate.
Un giorno, — eran nel giardino dell’Asilo, d’autunno, quando i fiori
appassivano tra l’ingiallire delle foglie, — il pastore venne di nuovo,
più turbato, e le camminò lungamente a fianco, senza parlare.
Per la prima volta Elena lo guardò come si guarda un uomo. Il pastore si
chiamava Miller; forse non aveva più di venticinque anni. I suoi capelli
spiovevano biondi e ben pettinati fino alla piegatura della nuca,
facendo come uno scalino sopra le spalle, un po’ esili nella solennità
dell’abito nero. Due chiari occhi morbidi gli splendevano sotto la
fronte vasta, mitigando l’ardore della sua bocca troppo sensuale, che in
alcuni sorrisi tradiva i segni di una forte volontà repressa.
D’un tratto il pastore, fermandosi davanti a lei, rigido, con il capo
scoperto, mentre il sole gli dorava la fronte, ripetè la sua domanda:
— Non vorreste voi, Elena, dividere con me, nella mia casa e nella mia
vita, quella missione di carità umana che mi è concessa da Dio?
Era un pomeriggio di sole; tutte le finestre del convento splendevano
come raggiere; dal vivaio, le rose inclaustrate mandavano per l’aria
dorata un profumo inebbriante.
Ed ella, forse perchè il turbamento di quella voce la invase, forse
perchè il giovine era bello così, con la fronte nel sole, forse perchè
il luogo, l’autunno, le foglie cadute, le infondevano un senso di
commozione mistica, ella, senza riflettere un momento, promise di sì....
Ma tre giorni dopo lasciava l’asilo e la città ed il fidanzato, per
correre lontano, in cerca d’altri destini. Ella compiva queste crudeltà
involontariamente, senza più ripensarvi, perchè nella sua vita si era
fatta un’anima di avventuriera e non sapeva bene intendere nè definire
cosa mai fosse quel comune desiderio degli uomini, che li spingeva tutti
a volerla, fosser anche d’animo puro e dolce come il pastore Miller o
come l’amico Mathias, del quale aveva ora migliori notizie. Non era più
così povero; un quadro esposto l’anno prima lo aveva reso noto, ed anzi,
nei giornali parigini, aveva letti grandi elogi su di lui. Nell’ultima
sua lettera egli le scriveva che si sarebbe recato presto a Berlino,
perchè gli avevano data la commissione di un ritratto, e sperava di
rivederla, dopo così lungo tempo. Rivedere Mathias!... Oh, certo,
anch’ella vi sarebbe andata!
————
Quando arrivò il suo treno, egli l’attendeva sotto l’atrio della
stazione. Dopo tre anni, com’erano entrambi mutati! Ma parve ad entrambi
che non fosse trascorso nemmeno un giorno. Si abbracciarono e non
osarono baciarsi.
Mathias non vestiva più quegli abiti così dimessi; era più elegante
assai, ma conservava sempre la medesima fronte pensierosa e quegli occhi
un po’ esaltati, quel suo triste pallore. Anzi era più pallido, e,
camminando, una invincibile stanchezza gli traspariva da tutte le
membra. Elena ebbe quasi vergogna di ritrovarsi così piena di forze,
accanto a quel giovine che pareva estremamente sfiorito. Abitarono
vicino; egli prese in affitto uno studio vasto, luminoso; ella, due
piccolissime stanze ad un terzo piano. Elena in quei giorni non aveva
denaro e non voleva certo vendere i pochi gioielli della madre. Allora
Mathias gliene prestò; ma ella poi lo costrinse a riprenderlo quando
appena potè ottenere alcune lezioni di lingue straniere. Mathias le
disse tristemente: — Voi non mi considerate più come il vostro amico....
Gli altri uomini vi hanno insegnato a diffidare anche di me.
Qualche volta egli si atterriva nell’udirla parlare; allora la guardava
con un lungo rimprovero silenzioso ed una specie di affanno contraeva la
sua faccia dimagrata. Passò l’inverno. Egli andava ogni giorno a
prenderla, quando moriva la luce su le tele de’ suoi quadri, ed uscivano
insieme per la città rumorosa, per i viali dei grandi parchi, simili a
foreste addormentate, ove la primavera destava tra il verde il canto
nuovo delle fontane.
Mathias non le parlava quasi mai; solamente l’ascoltava, camminandole a
fianco un po’ curvo, e qualche volta scuotendo il capo, quando Elena
faceva ad alta voce un sogno d’avvenire.
— Se io facessi un quadro di voi? — le disse un giorno.
— Si? Volete? — Elena rispose.
Ed una felicità subitanea splendette nella faccia del pittore.
Tosto vi si accinse. Tutta l’anima del giovine si trasfuse nel quadro,
l’anima che voleva tutta esprimere quella pura bellezza in una luminosa
magnificenza di colori. Elena non poteva concedergli molte ore della sua
giornata e l’opera si compiva lentamente.
Dopo alcuni mesi dall’arrivo, un giorno ella si recò a visitare
l’Hohenfels, al quale aveva scritto di quando in quando lungo le sue
peregrinazioni. Un sentimento strano la guidava ora verso di lui, verso
quell’uomo del quale aveva sempre avuta una irragionevole paura. Ed era
il desiderio di apparirgli davanti, nel fiore della sua bellezza, un po’
altera, un po’ beffarda, ora che si sentiva sicura della propria forza e
sapeva di non tremare davanti a quegli occhi. Voleva quasi dirgli con
uno sguardo:
— Ecco, vedete: sono qui. Non ho avuto bisogno di voi, non vi debbo
nulla!
Egli era forse un po’ invecchiato, ma conservava sempre una grande
vivacità nella fisionomia, nei gesti, ed un sorriso leggermente
sardonico su l’orlo della bocca fine. Al vederla, ne rimase attonito;
s’informò dove abitasse, che facesse, quali fossero i suoi disegni. Una
settimana dopo l’andò a visitare nelle sue piccole stanze, e giudicando
il luogo inadatto, disse che per il medesimo prezzo avrebbe potuto
trovare assai meglio a Berlino, se gli concedeva di far ricerche per
lei. Ella se ne schermì più volte, ma le sue preghiere la vinsero,
perch’egli sapeva essere persuasivo, cortese, discreto.
Tornò, dicendole di aver trovato per lo stesso prezzo una grande camera,
quasi elegante, presso una famiglia borghese che teneva pigione; insieme
andarono a visitarla. Una donna piacevole d’aspetto, con una sola figlia
quattordicenne, governava la casa, ed il luogo era davvero lindo, messo
con leggiadria. Elena quasi non poteva credere di avere una così bella
camera per un prezzo così mite; allo scader del mese vi si trasferì.
Solo, per una specie di delicatezza, non disse a Mathias ch’era stato il
suo tutore a trovarle questa camera.
Egli si rammaricò perchè andava più lontana, e le disse:
— Le vostre lezioni vi prendono quasi tutta la giornata; avete così
poche ore per me!
Ella, per fargli piacere, si levava la mattina di buon’ora e vi andava
quando la luce era più limpida.
Ma egli sfioriva ogni giorno, intento sopra quella tela che assorbiva la
sua vita. La tosse lo martoriava con maggior insistenza e gli occhi suoi
parevano sempre più accendersi di una fiamma latente.
— Dove andrete mai, Elena, quando sarete stanca di vivere qui? — Mathias
le domandò una volta.
— Ora ho fatto un sogno, — ella rispose. — Voglio diventare attrice.
Quando avrò denaro, tornerò a Parigi per studiare.
Gli occhi di Mathias ebbero uno sguardo di smarrimento, il suo pallore
divenne più cereo, ma non disse parola.
Questo infatti era il suo grande sogno. Divenire attrice, interpretare
le anime, apparire su la scena, ella sola, davanti a mille, dire una
frase, inebbriare una platea! Quante volte, nei giorni più neri della
sua vita, si era cullata in questo sogno, si era sentita la virtù di
esprimere, di raffigurare, di commuovere!... Perchè Mathias non ammirava
questa idea? Non l’ammirava, eppure le aveva detto:
— Tutto quello che possiedo ve l’offro, se vi può servire.
Ma ella naturalmente aveva rifiutato, commossa dalla sua bontà. Per un
momento ebbe l’idea di parlarne all’Hohenfels, ma sùbito l’abbandonò.
Sebbene paresse mutato, pure a lei non garbava di avere un debito con
quell’uomo. Seguitò invece a lavorare, con la speranza secreta.
La signora Gräfe, la sua padrona di casa, era una donna estremamente
cortese. Non più giovane, un po’ manierata, con due grosse trecce di
capelli finti, doveva essere stata molto bella in gioventù. A lei
mostrava una tenerezza quasi materna e si accapparrava la sua fiducia
dandole molti ottimi consigli. La sera, quando pranzavano insieme, le
teneva certi discorsi allegri ed un po’ salaci.... Veniva spesso a
visitarla un uomo di mezza età, un sottufficiale in congedo, ch’era il
suo amante. Ella parlava di ciò con naturalezza; un giorno anzi, nel
mezzo d’un discorso, le aveva domandato:
— E tu, non hai ancora avuto un amante?
— Io no, signora Gräfe, — le aveva risposto Elena, chinando gli occhi.
Dopo tre giorni appena la sua padrona di casa le aveva dato sùbito del
tu.
— Ebbene sei una scioccherella! — rispose costei. — Quando sarai vecchia
e brutta non ti servirà davvero a nulla d’essere stata più o meno
onesta, mentre ti pentirai amaramente d’aver sciupata la tua giovinezza.
Perchè siamo al mondo noi? Par gli uomini. E gli uomini? Per noi.
— Ma io non l’ho mai desiderato, — Elena disse, confusa.
— Non c’è bisogno di desiderarlo, anzi, non si deve. Tu aspetti l’amore,
piccina mia?... Bada a te! Questo è il grande pericolo. Invece si prende
un amante perch’è necessario, è utile, qualche volta è anche piacevole.
Ma, dimmi: tu che sei bella come un fiore, quale vantaggio ricavi
dall’aver fatta la vita che fai e dal lavorare tutto il giorno per pochi
centesimi, quando, con un bacio che tu volessi dare, potresti esser
vestita di seta e coperta di gioielli da capo a piedi, potresti pagarti
ogni capriccio e menar la vita che più ti conviene? Perchè ti
sacrifichi? per rimanere onesta? Bel merito! Se ci ragioni sopra un
momento, vedrai che questa è una parola, null’altro che una parola. Poi,
chi ti crede? Pensi forse che una sola persona, vedendoti così bella,
s’immagini che tu sia una ragazza tuttora illibata? Macchè! nemmeno per
sogno! E la persona che lo potesse credere, se fosse una donna ti
direbbe quello che ti dico io, se poi fosse un uomo penserebbe sùbito:
«Via, non è possibile che lo faccia per onestà.... Si vede che aspetta
il suo tipo, che aspetta me: proviamo!» Questa è la vita, bambina mia.
Ti parlo così, come parlerei ad una figlia.
E tali discorsi ogni giorno si ripetevano con maggiore frequenza. Elena
da prima se n’era offesa, poi vi si era assuefatta, finchè, da ultimo,
quelle cose madornali che diceva la signora Gräfe riuscirono a
divertirla.
Di tutto questo ella non fe’ cenno a Mathias, perchè ne avrebbe sentita
troppa vergogna davanti a quell’anima così lontana dalla vita. E nemmeno
gli raccontò come un giorno la signora Gräfe le avesse fatta
un’allusione anche più precisa.
«Perchè mai, — diceva, — Elena eviterebbe di accordare qualche favore a
quel ricchissimo von Hohenfels che le usava tante cortesie? Non aveva
ella compreso che l’uomo avrebbe commessa per lei qualsiasi follìa? Non
avrebbe certo esitato a prenderle una villetta verso il Thiergarten, o
forse intorno al Wannsee, donandole abiti, gioie, carrozze, cavalli.
Certo ella non aveva che una parola a dire... Credesse a lei:
l’esperienza sua di donna pratica non la poteva ingannare!...»
Fu invece Mathias che osò per primo fare un accenno a questo argomento.
— Cosa pensate voi di quell’Hohenfels? — le domandò un giorno. Elena,
subitamente, si fece rossa.
— È stato il mio tutore, — rispose. — Ora cerca d’aiutarmi perchè si
pente forse d’avermi sempre abbandonata.
— Lo credete sincero?
— Chissà? E d’altronde che me ne importa?
Egli non insistette oltre; la dolcezza di quell’anima era il silenzio.
Intanto le sue mani scarne suscitavano un miracolo di colori. Egli
poteva ora veder Elena meno sovente, perchè aveva un’altra Elena, più
sua, e l’adorava creandola. In lui si compiva una rinunzia suprema; il
tacito sogno della sua vita moriva.
L’Hohenfels aveva presa l’abitudine di venire ogni giorno in casa della
signora Gräfe e talvolta vi rimaneva per il pranzo, dicendo ch’era solo
e s’annoiava. I discorsi più frequenti cadevano su l’avvenire di Elena,
poichè non gli sembrava possibile ch’ella volesse continuare una vita
simile.
Dopo aver molto meditato, Elena gli confessò che la sua speranza era
quella di essere un giorno attrice.
L’Hohenfels accolse l’idea con calore, la felicitò, si offerse di
rendere la cosa possibile. Occorrevano studi molto ben guidati, ed egli
poteva, nella sua qualità di vecchio amico, farle un prestito, che poi
la ricca e fortunatissima attrice gli avrebbe rimborsato. Ma non
bisognava tardare oltre. La via dell’arte è faticosa e lunga. Egli era
da molti anni amico d’un impresario parigino, il quale avrebbe
semplificate le cose con la grande autorità di cui godeva fra persone di
teatro. Quest’uomo sarebbe anzi venuto a Berlino qualche settimana più
tardi: l’occasione era dunque propizia.
Elena ormai non si dissimulava più le intenzioni palesi dell’Hohenfels,
ma questo le riusciva indifferente, fin quando almeno la sua cortesia
non eccedesse i limiti onesti.
Una sera, ch’egli aveva pranzato in casa della signora Gräfe, curiosità
lo prese di accompagnar Elena fino alla soglia della sua camera «per
vedere — disse — con qual gusto ell’avesse ordinato il suo mobilio e
dove si potessero meglio collocare certe stampe inglesi ch’egli voleva
donarle». Dalla soglia, come per inavvertenza, entrò; e poi ch’Elena gli
diceva un po’ turbata: — Ma, non vedete? c’è un gran disordine...
lasciatemi, signor Franz!... — egli, con somma naturalezza, si diede ad
osservar minutamente ogni cosa, a toccar gli oggetti ch’erano sui
tavolini, a carezzar le gonne che pendevano dagli attaccapanni, e passò
vicino al letto, facendo scorrere una mano sul cuscino, su la coltre;
poi disse:
— Mi ricordo ancora quand’eravate piccina e dormivate in un lettuccio da
bambola. I vostri piedini allora non sarebbero arrivati fin qui... —
Soggiunse: — Ora che grande letto avete!
Infatti nella casa della provvida signora Gräfe i letti erano vasti
assai.
L’Hohenfels, con la fronte accesa, le venne vicino e cominciò a parlare
ambiguamente, carezzandole un braccio. Intimidita, ella fece un
movimento brusco, si ritrasse fino alla soglia ed uscì.
— Che avete? Vi faccio paura? — egli domandò ridendo.
— No... ma, sapete, sono gelosissima della mia camera; non mi piace che
nessuno vi entri.
E fu tutto per quella sera.
Dopo alcune settimane l’Hohenfels le annunziò che l’amico parigino, un
certo Ernest Duvally, era giunto, ch’era informato già d’ogni cosa e
desiderava solamente conoscerla. Per questo era opportuno ch’ell’andasse
a pranzo da lui, dove lo avrebbe incontrato quella sera stessa.
Il Duvally approvò con fervore l’idea di farne un’attrice; spiegò ad
Elena qual fosse la più rapida via per iniziarsi a quell’arte, anzi
promise di guidarla egli stesso nei difficili esordi parigini, mentre si
riprometteva di farle ottenere un’ammissione immediata su le scene,
tosto che avesse compiuti gli studi necessari.
La repentina felicità tratteneva Elena da ulteriori considerazioni.
D’altronde non temeva l’uomo, e l’ebbrezza di poter riuscire valeva ogni
rischio. Con Mathias tenne secreta la sua decisione per non affliggerlo
sino all’ora della partenza. Egli non era venuto una sola volta nella
sua casa, e quand’Elena gli domandò la ragione di questo suo riserbo
egli rispose in modo evasivo, cercando pretesti, poi confessandole che
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